L'Uomo di fuoco/7. L'assalto del jacaré
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CAPITOLO VII.
L’assalto del “jacarè„.
Il canotto, quantunque fosse in pessimo stato ed il suo legno spugnoso fosse inzuppato d’acqua, filava abbastanza bene sotto la spinta di quelle pagaie improvvisate.
I due naufraghi che temevano di veder comparire da un momento all’altro i combattenti, le cui grida echeggiavano sempre verso il margine della foresta, passarono senza arrestarsi dinanzi all’isolotto sul quale erano caduti i tucani, inoltrandosi risolutamente nel mezzo della vasta palude.
Procedevano però a stento, essendo il fondo ingombro di erbe acquatiche assai resistenti che erano costretti a lacerare o sfondare.
L’ostacolo maggiore era costituito da certe foglie smisurate, le quali opponevano una resistenza tenace, e che non si lasciavano lacerare se non dopo lunghi sforzi.
Erano le splendide victoria regia, piante acquatiche che ingombrano la maggior parte dei fiumi e delle savane dell’America meridionale, le cui foglie non hanno mai meno d’una circonferenza di un metro e mezzo con margini rialzati.
Sembrano vere zattere, dove gli uccelli acquatici nidificano volontieri, potendone sostenerne, senza affondare, parecchie dozzine.
Sono soprattutto ammirabili pei loro fiori, d’una tinta bianca vellutata, attraversata da leggere sfumature rosee e purpuree del più splendido effetto e per le loro armature spinose le quali producono sovente delle ferite inguaribili.
Aprendosi il passo a colpi di remi ed a colpi di spadone, i due naufraghi non tardarono a giungere presso un isolotto di cinquanta o sessanta metri di circuito, coperto da splendide bananiere che reggevano a fatica degli enormi grappoli di frutta squisite, che già Alvaro aveva assaggiate in Africa e che stimava assai.
— Ci nasconderemo sotto quelle foglie enormi, — disse al mozzo che cominciava a dar segni di stanchezza.
— Credo che sia tempo di prendere terra signore, — rispose Garcia. — che il canotto è assolutamente inservibile o che lo abbiamo riparato male, fa acqua da tutte le parti e le mie scarpe cominciano a nuotare.
— Abbiamo dell’altro canape e lo calafateremo meglio. Perdinci! Questo isolotto è un vero paradiso e faremo una indigestione di banani. M’immagino che quelli americani non saranno meno gustosi di quelli africani e di quelli asiatici.
— E vi sono anche degli uccelli signore, se vorremmo regalarci un arrosto più saporito di quello di stamane.
— E gl’indiani, te li sei dimenticati? Se udissero in questo momento uno sparo non tarderebbero ad accorrere. Hanno troppa passione per la carne bianca.
— Già, la crederanno di pollo, — rispose il mozzo, sforzandosi di celiare.
Legarono il canotto sulla riva e sbarcarono portando con loro le armi e le munizioni.
L’isolotto era coperto d’erbe foltissime e da gruppi d’alberi sotto i quali regnava un’ombra deliziosa. Bande di leggiadri trochilus minimus, i più piccoli degli uccelli mosca, svolazzavano sopra i loro nidi in forma di cono rovesciato, trillando e battagliando con grande ardore, poichè per quanto siano piccoli non sono meno bellicosi degli altri volatili.
— Ci staremo bene qui, — disse Alvaro, — e potremo aspettare, senza troppo annoiarci, che gl’indiani se ne siano andati.
— Avremo però da risolvere l’eterna questione della colazione o del pranzo, signore, — disse il mozzo, — e mi pare che non sarà facile su questo pezzetto di terra.
— E non pensi che io ho degli ami?
— Ah! È vero, me n’ero dimenticato, signore.
— Facciamo il giro della nostra possessione e poi getteremo gli ami. Troveremo qualche vermiciattolo fra queste erbe.
Seguirono le rive dell’isolotto, battendo i cespugli coi calci degli archibugi, onde accertarsi che non vi fossero serpenti, poi si fermarono presso un gruppo di canne palustri osservando attentamente l’acqua.
— Ho veduto delle ombre a scivolare fra le foglie delle piante acquatiche, — disse Alvaro. — I pesci non devono mancare in questa palude.
Il mozzo aveva già raccolto parecchie larve e sfilacciata una sagola che gli serviva a sostenersi i calzoni. Tagliarono due canne, prepararono gli ami e si provarono a lanciarli in mezzo alle larghe foglie delle victoria che proiettavano un’ombra sufficiente ad ingannare i pesci.
Due scosse li avvertirono ben presto che la cena era assicurata. Ritirarono con precauzione le lenze e s’impadronirono di due grossi traira, pesci che abitano le paludi e le savane, colla bocca larghissima armata di denti acutissimi ed il groppone nero.
Incoraggiati da quel primo successo avevano tornato a lanciare gli ami, quando con loro grande sorpresa udirono, sotto le acque, un ruggito strano e prolungato, come se fosse uscito dalla gola d’un leone.
— Avete udito signor Alvaro? — chiese il mozzo.
— Per Bacco! Non sono sordo.
— Era un ruggito, è vero?
— Sì, Garcia.
— E veniva dal fondo della palude.
— Dall’alto no di certo.
— Chi può averlo mandato?
— Qualche pesce di nuova specie, forse.
— Deve essere ben grosso.
— Piccolo no di certo, ragazzo mio.
— Se fosse invece qualcuno di quegli enormi serpenti?
— Era venuto anche a me questo sospetto.
— Oppure un caimano?
— Sarebbe tornato a galla a respirare, mentre non ne vedo. —
In quel momento il mozzo provò una scossa così vigorosa, che per poco non fu trascinato nella palude.
Qualche pesce enorme doveva aver inghiottito l’amo e nel tentare di fuggire, aveva dato quello strappo.
Alvaro aveva appena avuto il tempo di trattenere il mozzo.
— Lascia andare la lenza! — gridò.
La funicella e la canna scomparvero subito sott’acqua, mentre una tromba d’acqua e di fango si sollevava dalla palude, rovesciandosi addosso ai due naufraghi, seguita da un ruggito più formidabile del primo.
— Perdinci!... — esclamò Alvaro, saltando rapidamente indietro. — È scoppiata una mina in fondo alla palude?
— Altro che una mina, signore, — disse Garcia. — Ho veduto, in mezzo al fango agitarsi una coda grossa come le vostre coscie. —
Era una di quelle bestiacce che avete ucciso sulle rive dello stagno e che per poco non mi divorava.
— Un altro di quei serpenti?
— Ma sì, signore.
— Strano paese dove i serpenti invece di strisciare fra le erbe vivono nell’acqua come le anguille!
— Devono essere parenti stretti.
— Non disturbiamo oltre quel messere che deve essere molto irritato per aver inghiottito il tuo amo. D’altronde la cena è ormai assicurata e abbondantemente.
— Quando lasceremo l’isolotto?
— Ci fermeremo qui questa sera. Siamo più al sicuro in mezzo alla palude che nei boschi.
— Che gl’indiani abbiano terminata la battaglia?
— Non si ode più nulla.
— Saranno probabilmente occupati ad arrostire i morti.
— E anche i prigionieri, Garcia, — disse Alvaro.
— Che canaglie! Eppure la selvaggina e le frutta non mancano nelle loro foreste.
— Questione di gusti, ragazzo mio. Orsù, accendiamo il fuoco e prepariamoci la cena.
Il sole si abbassa rapidamente. —
Temendo che gl’indiani potessero scorgere la fiamma, dubitando che avessero già lasciata la foresta, scelsero un luogo riparato dalle piante.
Raccolsero delle canne secche e dei rami morti e si sedettero intorno al piccolo falò sorvegliando la cottura dei pesci.
Le tenebre cominciavano a calare e dalle acque si alzava una nebbiola carica di esalazioni pestifere, quella nebbia pericolosissima che produce febbri mortali e anche la terribile febbre gialla.
Miriadi di zanzaroni volteggiavano fra le canne, mentre in alto svolazzavano a zig-zag certi grossi pipistrelli che avevano delle ali di quasi mezzo metro, forse quei pericolosissimi vampiri rossi che succhiano il sangue alle persone e agli animali che sorprendono addormentati.
Sulle larghe foglie delle victorie, passeggiavano invece gravemente, sui loro lunghissimi trampoli i piassoca, lasciandosi trasportare dal venticello che spingeva quelle zattere verdeggianti, attraverso la palude, mentre i bentivi, ritti sulle canne, lanciavano il loro monotono e melanconico grido: ben-ti-vi... ben-ti-vi... ed i bianchi uruponga nascosti fra i cespugli degli isolotti lanciavano in aria, rompendo bruscamente il silenzio, le loro note acute che somigliano allo squillo d’una campana od al battere d’un martello su un incudine.
— Come è tetra questa palude, — disse Alvaro che sorvegliava la cottura dei due traira. — Mi mette indosso una tristezza infinita.
— E anche a me, signore, — rispose il mozzo, — e amerei meglio trovarmi sulle sponde della baia.
— Vi torneremo presto, ragazzo mio. Domani attraverseremo questa palude e marceremo verso oriente fino a che l’avremo ritrovata. Non dobbiamo essere lontani più d’un paio di miglia. Ah!
— Che cosa avete, signore?
— Hai assaggiata l’acqua di questa palude?
— Non ancora.
— Se fosse invece una laguna comunicante col mare?
— Faremo presto a saperlo. Finchè voi levate dal fuoco i pesci, io vado a bere una sorsata d’acqua, quantunque sia così nera da non far gola nemmeno ad un assetato.
Il mozzo si alzò e s’avvicinò alla riva immergendovi una mano.
— È salmastra, — disse. — Che questa palude abbia qualche comunicazione col mare non v’è dubbio. —
Stava per rialzarsi quando vide passare, a dieci o dodici passi dalla riva una massa oscura che pareva formata da un ammasso di piante acquatiche e gli pervenne agli orecchi un vagito.
— Un isolotto che cammina e che piange come un bambino, — esclamò.
Un rumor sordo, come quello che produce una cassa nel rinchiudersi lo avvertì di guardarsi da quell’isolotto.
— Che sia un caimano? — si chiese rabbrividendo.
Anche Alvaro aveva udito quei rumori e si era affrettato ad accorrere, portando i due archibugi.
— Che cosa fai Garcia? — chiese vedendo che il mozzo non si muoveva.
— Quella brutta bestia deve spiarci, signore, — rispose il ragazzo, — ammesso se sia veramente una bestia non vedendo io altro che delle canne che passeggiano sull’acqua.
— Non vorrei trovarmi nella bocca che si nasconde sotto quelle piante acquatiche, — disse Alvaro. — Non sono i caimani nè così enormi nè così feroci come i coccodrilli africani, tuttavia sono sempre pericolosi e non sdegnano la carne umana, anzi.
— Degni vicini dei selvaggi. In questo paese sono tutti divoratori d’uomini. Il soggiorno nel Brasile non riuscirà mai gradevole agli europei.
— Eh! Lo vedi? Cerca d’accostarsi inosservato al nostro isolotto. Lasciamolo venire e andiamo a cenare prima che l’arrosto diventi freddo.
— Terrò gli occhi ben aperti, signore.
— Ed io gli archibugi pronti.
Il signor di Correa che non sembrava molto inquietarsi della vicinanza del pericoloso rettile, il quale d’altronde si era fermato ad una quarantina di metri, celandosi in mezzo alle immense foglie delle victoria, tornò tranquillamente all’accampamento improvvisato fra le piante e si mise, per modo di dire, a tavola, squartando e sgozzando i due traira. —
Quantunque mancasse il sale e non avessero nulla da sostituire il pane, fecero scomparire ben presto i due pesci, la cui carne fu giudicata da entrambi deliziosissima.
Avevano appena terminato, quando udirono fra le canne che crescevano sulle rive dell’isolotto dei fruscii sospetti.
— È il caimano che cerca di issarsi sulla sponda, — disse Alvaro sottovoce, armando rapidamente il suo archibugio.
Si gettò bocconi fra le erbe che erano alte e si mise a strisciare verso la riva, fiancheggiato dal mozzo che si era armato anche della scure.
Il fruscio continuava e si scorgevano le cime delle canne a ondeggiare, come se un grosso corpo cercasse di aprirsi il passaggio.
— Che sia proprio il caimano? — chiese Garcia con un filo di voce.
— Non ne dubito, — rispose Alvaro.
— L’affronterete?
— Gli scaricherò fra le mascelle l’archibugio. Vedremo se con una pillola di piombo che pesa due oncie sarà ancora in grado di tornarsene in acqua. —
Erano giunti presso la riva ma ogni rumore era cessato. Eppure il caimano non doveva essere lontano. Il venticello notturno portava fino ai due naufraghi un acuto odore di muschio, profumo che esalano quei brutti rettili delle savane americane.
— Che sia tornato nella palude? — si chiese Alvaro.
Stava per alzarsi sulle ginocchia, quando le canne che stavano dinanzi a lui si schiusero bruscamente e due mostruose mascelle, armate di una vera rastrelliera d’avorio, si spalancarono sprigionando quel fetore nauseante di carni corrotte che esalano le gole sanguinose delle belve.
— Carracho! — esclamò Alvaro, puntando rapidamente l’archibugio già armato e cacciando la canna entro l’enorme gola del rettile. —
Risuonò una detonazione soffocata, giacchè le due formidabili mascelle si erano subito rinchiuse, credendo di stritolare come un fuscello la grossa canna del fucile.
Il caimano, che aveva inghiottita la carica, bruciandosi e fracassandosi la gola, si rizzò tutto d’un colpo sulla coda come un serpente che sta per scagliarsi sulla preda, lanciando un profondo muggito, poi cadde all’indietro agitando pazzamente le zampe larghe e palmate.
— Pare che abbia trangugiato malamente il confetto di piombo, — disse Alvaro. — Deve essergli rimasto in gola. Troppo goloso, mio caro! Dovevi prima masticarlo bene!
Si era alzato per spingersi innanzi, ma ad un tratto si sentì atterrare e scaraventare dieci passi lontano, in mezzo ad un fitto cespuglio che per sua fortuna gli attutì la violenza del colpo.
Il sauriano non era ancora morto non ostante la spaventevole ferita e furioso aveva vibrato un colpo di coda colla speranza di abbattere ancora i suoi nemici. Se fosse stato ancora nella pienezza delle sue forze, Alvaro sarebbe stato certamente colpito a morte, possedendo quei rettili una tale potenza nella loro coda da fracassare perfino i fianchi delle scialuppe. Fortunatamente quel colpo non era stato vibrato che debolmente.
Il mozzo, vedendo il portoghese a cadere ed il caimano rivoltarsi ancora come se si preparasse a caricare, gli sparò precipitosamente una seconda archibugiata senza ottenere alcun successo. Ignorando la incredibile resistenza che offrono le scaglie ossee che ricoprono il dorso di quei mostri, aveva mandato il proiettile un po’ dietro le spalle e la palla si era schiacciata senza produrre alcuna lesione grave.
— Signor Alvaro! — urlò, atterrito, vedendo il sauriano riaprire le mascelle.
Il signor di Correa, quantunque intontito da quella volata assolutamente inaspettata, non aveva perduta la sua presenza di spirito.
Udendo il secondo sparo, aveva compreso che il ragazzo si trovava in pericolo. Si sbarazzò d’un colpo solo dei rami che lo Un serpente enorme lo aveva avvolto fra le sue spire. (Cap. X.). tenevano in certo modo prigioniero e si slanciò, quantunque zoppicante, verso la riva, frapponendosi fra il mozzo ed il caimano.
Questi non aveva ancora assalito il ragazzo e d’altronde non poteva più servirsi delle sue mascelle una delle quali, la superiore, completamente fracassata presso la gola, gli pendeva in parte come una enorme suola da scarpe.
Poteva però voltarsi e far ancora uso della sua formidabile coda.
— Ah! Canaglia! — gridò Alvaro. — Hai la pelle ben dura tu!
— Prendete signore! — disse il mozzo, porgendogli la scure.
Il portoghese con una temerità straordinaria in un lampo fu addosso al rettile, tempestandogli il cranio di colpi così terribili da farlo risuonare come una gran cassa.
Al terzo colpo l’ossatura cedette e la scure rimase infitta nella materia cerebrale.
Questa volta il rettile aveva avuto davvero il suo conto. Si distese quanto era lungo, abbassò il muso cacciandolo in mezzo alle erbe, un lungo brivido scosse tutto il suo corpo, poi cadde bruscamente mandando un lungo sospiro che parve un gorgoglio soffocato.
— Sono ben duri da ammazzare questi bestioni! — esclamò Alvaro, guardando con vivo interesse il rettile. — Hanno una vitalità incredibile che è quasi pari a quella dei pesci-cani!
— Signor di Correa, non vi ha ferito questo mostro? Credevo che con quel colpo di coda vi avesse ucciso.
— Ho le costole ancora tutte indolenzite, ma mi pare che non vi sia nulla di guasto nella mia macchina, — rispose il portoghese sorridendo. — Mi ha fatto fare una volata magnifica senza conseguenze. Se non fosse stato però gravemente ferito, non so se sarei ancora qui a raccontartela. Sai che questo caimano misura almeno sette metri?
— Che sia uno dei più grossi?
— Lo suppongo.
— È almeno buono a mangiarsi?
— Puah! Mangiare della carne di caimano? Non senti come puzza di muschio?
— Allora non ci servirà a nulla.
— Si potrebbe utilizzare la sua pelle per fare delle scarpe; siccome però le nostre sono ancora in ottimo stato lo lasceremo ai serpenti se ve ne sono.
Mio caro Garcia, andiamo a dormire.
— E se ne vengono degli altri? — chiese il mozzo.
— Veglieremo per turno. —
Lasciarono il caimano che non dava più segno di vita e tornarono all’accampamento.
Colla scure falciarono delle erbe formando due soffici giacigli e si coricarono lasciando che il fuoco si spegnesse.
Alvaro s’incaricò del primo quarto di guardia.
Contrariamente alle loro previsioni, la notte trascorse tranquillissima, senza allarmi, solamente dopo la mezzanotte udirono a più riprese quell’inesplicabile muggito che li aveva tanto sorpresi, risuonare sotto le nere acque della palude.