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La zattera vivente. 85

— La cosa è grave, — disse.

— Che l’abbiano rubata?

— Non lo credo. La riva è fangosa in questo luogo e se degli uomini fossero sbarcati avrebbero lasciate le loro impronte. Io credo che sia affondata.

— Ed infatti signore, faceva acqua.

— Abbiamo commesso una grave imprudenza Garcia, — disse Alvaro. — Invece di legarla a queste canne dovevamo tirarla in secco.

— Come faremo ora a lasciare questo isolotto e attraversare la palude? La riva più prossima si trova a non meno di tre miglia da noi.

— Siamo prigionieri, ragazzo mio.

— Se tentassimo la traversata a nuoto? Tre miglia non mi fanno paura, — disse il mozzo.

— Ed a me neanche cinque, ma io non oserò mai tuffarmi in queste acque che sono popolate da caimani e da serpenti giganteschi.

— È vero signore, mi dimenticavo che vi sono anche qui i mangiatori d’uomini.

Eppure non possiamo rimanere qui per sempre. Non abbiamo nè viveri nè acqua bevibile.

Alvaro non rispose, guardava i pochi alberi che crescevano sull’isolotto, chiedendosi se sarebbero stati bastanti per costruire almeno una zattera sufficiente a portarli fino alla sponda più prossima.

Erano cinque o sei alberetti, alti una mezza dozzina di metri, dal fusto piuttosto esile coperto da una corteccia molto bruna. Vi erano anche numerosi cespugli e molte liane, ma i primi a ben poco avrebbero potuto servire.

— Proviamo, — disse al mozzo, indicandoglieli.

— Volete costruire una zattera, è vero signore?

— Se avremo materiale sufficiente, — rispose Alvaro.

— Basterà che ce ne sia tanto da fare lo scheletro. Per la piattaforma utilizzeremo le canne.

— Ecco un’idea che non mi era venuta, Garcia, — disse Alvaro. — Dammi la scure e andiamo a distruggere la nostra piccola foresta.

Impugnò l’ascia e assalì vigorosamente la pianta più alta, ma al primo colpo che vibrò il filo della scure si guastò senza avere potuto nemmeno intaccare la corteccia.