L'Uomo di fuoco/31. La ritirata di Diaz
Questo testo è completo. |
◄ | 30. Fra il fuoco e le frecce | 32. L'assalto dei tupinambi | ► |
CAPITOLO XXXI.
La ritirata di Diaz.
Il marinaio e Rospo Enfiato, più fortunati di Alvaro, avevano rapidamente approfittando del terrore che aveva invasi i Tupy dopo quel primo colpo d’archibugio.
Mentre i selvaggi si sbandavano da tutte le parti, si erano slanciati in un viottolo laterale che serpeggiava fra i carbet sfuggendo disperatamente verso la cinta, credendo in buona fede di aver alle spalle anche Alvaro.
Giunti dietro la palizzata, in prossimità della porta che Japy non aveva ancora chiusa, con loro stupore si erano accorti di essere soli.
— Il disgraziato si è smarrito! — aveva esclamato Diaz, facendo un gesto di disperazione. — Invece di sfuggire verso le cinte si è diretto verso il centro dell’aldèe.
Rospo Enfiato, torniamo e cerchiamo di salvarlo! —
Il Tupinambi lo afferrò invece strettamente per un braccio dicendogli:
— La pelle pesa indosso al pyaie bianco? Eccoli che arrivano i Tupy. Fuggi se vuoi salvare la vita.
I Tupinambi vendicheranno la morte degli uomini dalla pelle bianca. —
I Tupy, rimessisi dalla sorpresa e dal terrore, avevano ripresa la corsa.
Avendo scorti quei due uomini fuggire verso la cinta, si erano subito immaginati che potessero essere dei nemici e si erano scagliati sulle loro tracce agitando furiosamente le mazze.
Erano un centinaio per lo meno. Volerli affrontare sarebbe stato come correre incontro ad una morte più che certa, specialmente colle povere armi di cui disponevano Diaz e l’indiano.
Avessero avuto degli archibugi, avrebbero forse avuta qualche speranza di arrestarli e anche di sgominarli; colle gravatane c’era ben poco da sperare.
Diaz aveva subito capito che la partita era ormai irreparabilmente perduta e che non era il momento di occuparsi del disgraziato Alvaro.
Rospo Enfiato aveva già varcata la porta e correva come un cervo attraverso la tenebrosa prateria, dirigendosi verso la foresta, la cui massa imponente giganteggiava cinquecento passi più innanzi.
Con uno sforzo disperato lo raggiunse, mentre i Tupy si disperdevano per la pianura ululando ferocemente.
— Verso il fiume, — disse Diaz. — È necessario raggiungere la barca, se non ce l’hanno portata via.
— Sì, al fiume, — rispose il Rospo. — La nostra salvezza sta nella savana sommersa. —
Avevano raggiunta la immensa foresta.
Il Tupinambi si orizzontò rapidamente, poi riprese la fuga seguito da Diaz il quale ormai già abituato alle lunghe corse degl’indiani, aveva acquistata un’agilità straordinaria.
I Tupy continuavano ad inseguirli con accanimento, ma costretti a cercare le tracce, dovevano di frequente arrestarsi, e come si può ben immaginare, i due fuggiaschi ne approfittavano per guadagnare sempre via.
Rospo Enfiato teneva una via quasi diritta, essendo quella parte della macchia formata da sole palme della cera, alberi che non crescono l’uno a fianco dell’altro e che essendo altissimi spingono molto in alto le liane e tutte le piante parassite che ingombrano le boscaglie brasiliane. Ogni mezz’ora concedeva al compagno un breve riposo, poi ripartiva spronato dalle grida dei Tupy che non cessavano di echeggiare in lontananza.
Verso le tre del mattino, entrambi esausti, giungevano sulle rive del fiume.
Rospo Enfiato diede uno sguardo alla riva e scorgendo verso levante il promontorio su cui si ergeva il villaggio che già avevano notato, ridiscese verso ponente.
Percorsi sette od ottocento passi, si arrestò presso un albero che bagnava nel fiume le sue radici, esclamando con accento giulivo:
— La canoa! Il gran pyaie bianco mi aiuti. —
La liana che tratteneva la scialuppa non era stata scoperta dai selvaggi del villaggio.
Unendo i loro sforzi, l’indiano e Diaz trassero a galla la canoa scostando le enormi foglie delle victorie che la coprivano, poi servendosi dei due vasi che vi stavano dietro, rapidamente la vuotarono.
— Alla savana, — disse il Rospo, prendendo le pagaie.
La corrente era piuttosto rapida e aiutava potentemente la canoa; spinta anche dalle quattro pagaie; in meno di tre ore raggiunse la savana sommersa, senza avere fatto alcun cattivo incontro.
Già i Tupy da parecchio tempo non si udivano più. Dovevano essersi fermati nella foresta, credendo forse che i fuggiaschi avessero trovato qualche nascondiglio.
— Dove potremo trovare i Tupinambi? — chiese Diaz, quando ebbero lasciata la foce del fiume.
— Andiamo alla grande aldèe di Tulipa, — rispose il Rospo. — Sono certo di trovarvi già i miei compatrioti. Le orde degli Eimuri si sono ritirate ormai ed altre sono state distrutte.
— Quando vi potremo giungere?
— Prima del tramonto.
— Sicchè ci saranno necessari almeno due giorni prima di giungere addosso all’aldèe dei Tupy. Potrà resistere Alvaro, ammesso che si sia barricato in qualche capanna?
— Anche se l’avranno preso, non lo mangeranno subito, — disse il Rospo. — I prigionieri vengono serbati per le grandi solennità, tu lo sai.
— Che vengano i tuoi compatrioti?
— L’Uomo di fuoco è troppo prezioso per lasciarlo nelle mani dei Tupy. Pensa quale potenza acquisterebbe la nostra tribù con un pyaie così potente che possiede il fuoco celeste che tuona e uccide ad una così grande distanza.
— È vero, — disse Diaz.
— Tutti sarebbero orgogliosi di avere un tale uomo. Io anzi sono quasi certo che anche i suoi nemici non oserebbero divorarlo.
— Nondimeno non sono affatto tranquillo sulle sue sorte e vorrei già..... —
Diaz si era bruscamente alzato deponendo la pagaia e guardava verso la riva vicina che era spaccata da un piccolo corso d’acqua ingombro d’isolotti.
— Che cosa guardi? — chiese il Rospo.
— Ho udito un sibilo echeggiare laggiù, fra quelle canne palustri.
— Sarà stato qualche tapiro, — disse il Rospo. — Quegli animali abbondano sulle rive delle savane.
— A me parve il sibilo d’una freccia.
— Che i Tupy immaginandosi che noi ci saremmo rifugiati nella savana, siano scesi lungo le rive di quel fiumicello? — si chiese il Tupinambi con una certa inquietudine. — È bensì vero che noi abbiamo la canoa e che non saremo così sciocchi d’approdare.
— Tu sai che ne posseggono anche loro, — disse Diaz.
— Pur troppo, — rispose l’indiano.
Lanciò un rapido sguardo sulla savana e vedendo a breve distanza un gruppo d’isolotti boscosi, aggiunse:
— Se noi prendessimo terra fino a che spunta il sole? Desidererei sapere se i Tupy si preparano a darci la caccia anche sulle acque della savana, prima d’intraprendere la traversata.
— Condivido pienamente la tua idea, — rispose il marinaio di Solis. — Saremo più sicuri in mezzo a quelle piante che su questa canoa che è scoperta.
— Diamo dentro ai remi, uomo bianco. —
Volsero le spalle alla sponda e si diressero frettolosamente verso una di quelle isole, approdando sulla più vasta che era coperta da una vegetazione foltissima.
Essendo la riva ingombra di paletuvieri, nascosero la canoa sotto i rami contorti di quelle piante, poi passando di tronco in tronco giunsero a terra.
— Aspettami, — disse Rospo Enfiato, accostandosi ad una palma altissima, dal tronco diritto ed esile. — Di lassù potrò vedere se i Tupy ci hanno seguiti sulla savana. —
S’arrampicò lestamente sulla pianta fino a raggiungere le immense foglie piumate, ma vi era appena giunto che il marinaio di Solis lo vide ridiscendere precipitosamente.
— S’accostano? — gli chiese.
— No, — rispose l’indiano.
— Allora perchè sei subito sceso?
— Ho veduto un fuoco ardere sulla riva.
— Verso la foce di quel fiumicello?
— Sì, — confermò l’indiano — ed ho veduto anche delle ombre umane agitarsi presso la savana.
— Chi credi che siano? — chiese Diaz dopo qualche istante di silenzio?
— Non certo i tuoi amici.
— Dei Tupy?
— Od altri che non saranno meno pericolosi per noi. I Caheti hanno emigrato verso l’interno e quelli non sono migliori dei Tupy.
— Ecco della gente che ci farà perdere del tempo troppo prezioso. Se ripartissimo?
— Non ti consiglierei. La notte è ancora oscura e potremmo trovare sulla nostra rotta delle canoe.
Attraversiamo l’isola e andiamo a vedere se sulla riva opposta si scorgono delle scialuppe. Io comincio a non essere tranquillo.
— Andiamo, — disse Diaz.
Presero le gravatane e s’inoltrarono attraverso le piante, scostando con precauzione le liane, non ignorando che le isole delle savane prossime alle rive, servivano sovente di rifugio ad animali pericolosi.
Un quarto d’ora dopo giungevano sull’opposta riva dell’isola. Guardarono attentamente sulle acque della laguna, senza scoprire nulla di sospetto.
— Finora non scorgo alcuna canoa, — disse Rospo Enfiato. — Possiamo prendere il largo da questa parte.
— Torniamo alla scialuppa dunque, — disse il marinaio. — È meglio che l’alba ci sorprenda lontani da quel fiumicello.
Stavano per ricacciarsi sotto le piante, quando Diaz si arrestò afferrando la gravatana.
— Cos’hai veduto? — chiese Rospo Enfiato, che gli veniva dietro.
— Un’ombra a scivolare silenziosamente verso quel gruppo di palme, — rispose il marinaio.
— Un uomo?
— Mi parve piuttosto un animale.
— Grosso?
— Quanto un giaguaro.
— Brutte bestie, — brontolò l’indiano facendo una smorfia.
In quell’istante udirono dietro le loro spalle un rauco miagolìo che terminò in un soffio poderoso.
— Siamo minacciati dinanzi e di dietro, — disse il marinaio, il quale cominciava ad inquietarsi. — Che quest’isola pulluli di belve? Era ben un giaguaro quello che ha miagolato?
— Sì, — rispose Rospo Enfiato.
— Che brutta idea abbiamo avuto di lasciare la canoa. Che cosa fare?
— Rimani qui e fa fronte a quello che hai veduto scivolare verso quelle palme, — disse l’indiano. — Non occuparti di me, per ora.
— Dove vai?
— Ad accertarmi se siamo minacciati anche alle spalle.
— Vuoi farti divorare?
— La freccia del Rospo Enfiato è tinta nel vulrali e io non sbaglio mai. D’altronde non soffierò nella gravatana se non quando sarò ben sicuro della distanza.
Tornerò presto. —
Fece cenno a Diaz di guardare verso le palme per non farsi sorprendere dall’animale che aveva veduto e che poteva essere anche quello un giaguaro e s’allontanò silenziosamente tenendosi nascosto dietro i tronchi degli alberi ed i cespugli che in quel luogo erano foltissimi.
La belva che aveva fatto udire quel miagolìo minaccioso, doveva essersi nascosta fra i paletuvieri che ingombravano la riva dell’isoletta.
Rospo Enfiato, aveva introdotto un cannello nella gravatana, quando si trovò fuori dalle macchie. Si diresse coraggiosamente là dove era partito quel miagolìo e non s’arrestò che quando giunse a una trentina di passi dalla prima linea dei paletuvieri.
Essendovi fra le ultime macchie e quelle piante acquatiche uno spazio scoperto, se l’animale lasciava il suo rifugio non poteva sfuggire agli sguardi vigilanti dell’indiano.
Trascorsero alcuni istanti d’attesa angosciosa.
Un profondo silenzio regnava sia sulla riva sia in mezzo alle piante, nè alcun altro miagolìo si era fatto udire.
Solo di quando in quando si udiva l’acqua della laguna, che la brezza mattutina agitava, rompendosi con un gorgoglìo monotono contro la riva.
Ad un tratto un buffo d’aria portò fino alle nari dell’indiano un acuto odore di selvatico, quell’odore speciale che tramandano le fiere e che si espande anche a non breve distanza.
— Si trova dinanzi a me, — barbottò l’indiano.
Si volse lanciando un rapido sguardo verso le macchie e vide il marinaio di Solis rannicchiato dietro il tronco d’un simaruba, colla gravatana accostata alle labbra.
— Devono essere due i giaguari, — mormorò — maschio e femmina forse e hanno manovrato in modo da prenderci in mezzo. Ciò non deve durare molto; la pazienza non è il forte di quelle belve, specialmente se è la fame che le spinge.
Fece ancora qualche passo sperando che il giaguaro si decidesse a mostrarsi.
Non riuscendo a scorgerlo e temendo pel compagno, stava per retrocedere verso le macchie, quando vide slanciarsi fuori dai paletuvieri, con un salto fulmineo, la belva.
Era un superbo giaguaro, grosso quasi quanto una tigre malese, dal pelame splendido e dalle forme eleganti ed insieme vigorose.
I suoi occhi, che mandavano bagliori fosforescenti, si erano subito fissati sull’indiano.
Per alcuni istanti l’uomo e l’animale si guardarono, come se fossero sorpresi di trovarsi l’uno di fronte all’altro, a così breve distanza, poi la belva aprì le mascelle formidabilmente armate e si lasciò sfuggire un rauco brontolìo che non era certo di buon augurio.
Pareva che si preparasse a prendere lo slancio. Un momento di esitazione e l’uomo poteva essere perduto.
Rospo Enfiato non era però alle sue prime armi e ben altre volte si era misurato con quei pericolosi felini.
Imboccò rapidamente la gravatana e soffiò con forza. Il sottile cannello partì sibilando dolcemente e andò a piantarsi nella gola della belva.
Sentendosi ferita, fece un balzo di fianco, mordendo rabbiosamente la freccia e spezzandola, poi fece per avventarsi contro l’indiano che si era prudentemente gettato dietro il tronco d’un albero, le forze però bruscamente le mancarono e cadde agitando pazzamente le zampe.
Nell’istesso momento si udì il marinaio di Solis a gridare:
— Aiuto! —
Rospo Enfiato senza più preoccuparsi della belva che si rotolava fra le erbe e le foglie secche, si era slanciato fra le macchie introducendo rapidamente una nuova freccia nella gravatana.
Dinanzi a Diaz due altri giaguari, non meno grossi del primo, volteggiavano con slanci fulminei sopra i cespugli, miagolando e ruggendo.
Per qualche istante furono veduti slanciarsi or qua ed or là come se fossero impazziti, poi scomparvero di nuovo fra le piante prima ancora che Rospo Enfiato potesse lanciare su di loro la seconda freccia.
Si udì ancora qualche rauco brontolìo, poi il silenzio tornò.
— Hai colpito qualcuno? — chiese Rospo Enfiato.
— Lo dubito, — rispose Diaz. — Saltavano come se il suolo fosse cosparso di molle. Ed il tuo?
— È morto, — rispose l’indiano.
— Che ritornino?
— Sono certo che ci spiano. Devono essere affamati, non abbondando qui di selvaggina.
— Se mi balzavano addosso entrambi, non so come la sarebbe finita per me. Come mai si sono radunate tante fiere su questa lingua di terra?
— Sono le inondazioni che le cacciano dalle rive, — rispose l’indiano.
— Proviamo a ritirarci verso la canoa.
— Non oso riattraversare le macchie.
— Seguiamo la riva.
— Sia, — rispose il Rospo.
Avevano però percorsi appena una trentina di passi, quando udirono ancora le due belve a mugolare. Pareva che non si trovassero più insieme, perchè le urla risuonavano in due diverse direzioni.
— Odi? — chiese Diaz. — Che chiamino dei compagni?
— Temo che ve ne siano altri, — rispose l’indiano. — Si direbbe che qui i giaguari pullulano come gli jacarà nelle savane sommerse.
Sfuggire i Tupy per cadere sotto le unghie dei carnivori! È una vera disdetta, uomo bianco.
— E quest’altro urlo?
— Sono tre dunque?
— Affrettiamo il passo o non torneremo vivi nella canoa. —
Si erano rimessi in marcia, seguendo lo spazio compreso fra le ultime macchie ed i paletuvieri.
Di tratto in tratto però si fermavano per scrutare le piante, poi ripartivano a passo di corsa. La paura cominciava ad invaderli, quantunque fossero ancora ben forniti di frecce intinte nel vulrali.
Non camminavano più, correvano lungo la riva eppure non si sentivano ancora sicuri, anzi tutt’altro! Ogni volta che si fermavano udivano verso le macchie scrosciare le foglie secche e stormire i rami.
I due giaguari o tre che fossero, non li avevano ancora abbandonati e aspettavano certo l’occasione propizia per slanciarsi su di loro e divorarli.
L’assalto, fortunatamente, ritardava e forse in causa della zona scoperta che essi percorrevano e che impedivano alle belve di piombare addosso a loro di sorpresa.
Correvano da venti minuti, quando Rospo Enfiato si gettò improvvisamente fra i paletuvieri gridando a Diaz:
— Seguimi senza ritardo.
— Vuoi cacciarti in acqua?
— No, la canoa è nascosta qui presso.
— L’hai veduta?
— Un indiano non s’inganna mai. —
Si erano issati sui rami contorti delle piante e s’avanzavano verso l’acqua, quando una forma oscura piombò a pochi passi da loro, sprofondando fra le foglie.
— Guardati! — gridò Rospo Enfiato.
— Carracho! — gridò Diaz. — Un po’ più innanzi e mi piombava addosso.
S’appoggiò fra due rami e si volse tenendo la gravatana accostata alle labbra.
Il giaguaro che aveva tentato quel salto, pareva che non si trovasse troppo bene fra i paletuvieri sui quali non poteva trovare l’appoggio che gli era necessario. Lo si udiva a dibattersi ed a brontolare.
Saliva, poi ricadeva e probabilmente non gli piaceva affatto di sentirsi bagnare la coda e le zampe deretane.
Diaz aspettò che mostrasse la testa a livello delle foglie e gli lanciò una freccia che lo colpì fra i due occhi.
L’animale non parve nemmeno accorgersi di essere stato colpito a morte anzi con uno sforzo supremo si issò su un ramo più robusto degli altri, tentando di avventarsi sulle prede che stavano per sfuggirgli.
Il terribile veleno faceva però il suo effetto, con rapidità fulminea. Si era appena alzato, quando fu veduto ricadere.
Si udì un mugolìo soffocato poi un tonfo. L’acqua lo aveva inghiottito.
— È morto! — gridò Diaz che aveva cacciata un’altra freccia nella gravatana.
— E gli altri? — chiese Rospo Enfiato che continuava a passare di ramo in ramo.
— Non li vedo più.
— Ed io sono presso la piroga.
— Ti seguo! —
Ad un tratto l’indiano si lasciò sfuggire una sorda imprecazione.
— Ecco quello che temevo!
— Che cos’hai?
— Vengono.
— Chi?
— Non lo so; i Tamoi od i Caheti. Canaglie! Non hanno perduto il loro tempo. Guarda, uomo bianco! —