L'Uomo di fuoco/30. Fra il fuoco e le frecce

30. Fra il fuoco e le frecce

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CAPITOLO XXX.

Fra il fuoco e le freccie.


Sì, solo Japy, quel bravo ragazzo che aveva già date ai due pyaie bianchi tante prove di amicizia quando si trovavano prigionieri degli Eimuri, aveva potuto interessarsi della loro critica situazione.

Approfittando della confusione che regnava nell’aldèe e dell’oscurità, doveva prima aver rubato il fucile che custodiva lo stregone della tribù e quindi far raccolta di viveri, poichè non doveva ignorare che nel carbet non poteva regnare certo l’abbondanza.

Quel soccorso inaspettato e preziosissimo, aveva ridato animo ai due assediati i quali già cominciavano a disperare sull’esito finale di quel blocco. Padroni ormai di due archibugi, ben forniti di munizioni e di viveri, si sentivano capaci di tener testa a qualsiasi assalto, e di attendere, senza troppo inquietarsi, la fine di quell’avventura.

Forse in quel momento i Tupinambi erano già in cammino e s’avanzavano a marce forzate verso l’aldèe dei Tupy, i loro secolari nemici che inquietavano incessantemente le loro tribù per provvedersi di carne umana.

— Eccoci diventati invincibili, — disse Alvaro, dopo essersi assicurato che l'archibugio di Garcia non era stato guastato. — Quando i Tupy ci vedranno entrambi armati, mancherà loro il coraggio di ritentare un nuovo attacco. —

Mio caro ragazzo, non credevo di avere tanta fortuna. Decisamente noi siamo nati sotto una buona stella e comincio a credere che i brasiliani non riusciranno mai a piantare i loro denti nelle nostre carni.

— Quale sorpresa per quei selvaggi quando s’accorgeranno che il fucile è scomparso dalla capanna del loro stregone e che è volato nelle nostre mani! — disse il mozzo.

— Acquisteremo fama di essere dei pyaie insuperabili e non mi sorprenderei se mangiassero il loro stregone.

— Povero diavolo! [p. 299 modifica]

— Ma che cosa fanno quei selvaggi? Mi sembra impossibile che non approfittino di questa oscurità per tentare qualche cosa.

Questa calma non mi rassicura.

— Eppure, signore, non vedo alcuna ombra umana aggirarsi per la piazza e non odo alcun rumore.

— Nondimeno non lasciamoci cogliere dal sonno; anzi raddoppiamo la vigilanza.

To’! Non hai udito questo colpo sordo? Si direbbe che è caduto qualche albero.

— Avranno chiusa la porta di qualche carbet o della cinta.

— Hum! Ti dico che i selvaggi non dormono.

— Abbiamo due archibugi, signore.

— E li faremo tuonare, Garcia, — disse Alvaro. — Tu veglia da quella parte, mentre io sorveglio la piazza da questa.

Al primo allarme fa’ fuoco, senza attendere il mio comando.

Non tiri già troppo male. —

Scesero i due versanti opposti del tetto, accostandosi ai margini per meglio dominare la piazza e attesero pazientemente l’alba.

I Tupy dovevano essere occupati in qualche operazione misteriosa.

Di quando in quando agli orecchi degli assediati giungevano dei colpi sordi come se dei tronchi d’albero venissero rotolati per la piazza e si udivano anche dei bisbigli sommessi, come se venissero impartiti degli ordini a bassa voce.

Qualche volta delle ombre umane attraversavano velocemente l’aldèe senza produrre alcun rumore e scomparivano dietro i carbet che sorgevano intorno alla piazza.

Alvaro si sforzava invano di comprendere quale lavoro stavano eseguendo gli assediati. L’oscurità e anche la pioggia che non aveva cessato di cadere, gl’impedivano di discernere ciò che accadeva alle estremità della piazza.

— Che si preparino a stringere il blocco? — si domandava. — Sapremo resistere egualmente e tener duro fino all’arrivo di Diaz. —

Finalmente le tenebre si diradarono e anche i goccioloni cessarono di cadere.

I suoi timori si erano avverati.

I Tupy per non esporsi al fuoco degli assediati, fuoco che temevano così immensamente, durante la notte avevano circondata la piazza con grossi tronchi d’albero, perfettamente rotondi e privi [p. 300 modifica]di rami e che si potevano, anche senza troppo fatica, far rotolare e spingere verso il carbet.

Dietro a quelle barricate mobili si erano già nascosti numerosi guerrieri armati di archi e di gravatane, pronti a saettare gli assediati.

— È un assedio in piena regola, — disse Alvaro, che si era ritirato precipitosamente verso il buco che serviva da finestra alla capanna, onde evitare quelle pericolose frecce. — Mio caro Garcia saremo costretti a sloggiare se quei tronchi d’alberi verranno spinti attraverso la piazza.

Non credevo che questi selvaggi fossero così astuti.

— Che finiscano per prenderci, signore? — chiese il mozzo con qualche apprensione.

— Potremo opporre una lunga resistenza dentro il carbet. Se sarà necessario apriremo delle feritoie e non faremo risparmio di munizioni. Ne siamo già ben provvisti. Cala i viveri intanto.

— Oh! Il bel tacchino, signore!

— Se non sarà precisamente un tacchino, non avendone io mai veduti in queste foreste, l’uccello è ben grosso e ne avremo per un paio di giorni.

— Sgombrate anche voi?

— No, anzi faremo prima alcune scariche per far capire agli assedianti che abbiamo ora due archibugi invece d’uno. Ciò produrrà un certo effetto su quei cannibali.

I Tupy, che parevano decisi a farla finita coi due europei, avevano cominciato a far rotolare i tronchi, cercando di tenersi ben nascosti per non esporsi ai colpi d’archibugio d’Alvaro.

— Sali, Garcia! — gridò il signor Viana che cominciava a diventare inquieto. — Non lasciamoli avvicinarsi fino alle pareti del carbet.

Il mozzo che aveva già messe in salvo le provviste, saliva precipitosamente.

— Un colpo a destra ed un colpo a sinistra, — disse Alvaro. — Cerca di far scoppiare qualche testa, se lo puoi. —

I selvaggi, quantunque non fossero ancora giunti a buona portata, avevano già cominciato a scagliare delle frecce servendosi di preferenza dei loro archi e qualcuna era già giunta fino al carbet, piantandosi nelle pareti. [p. 301 modifica]

Garcia ed Alvaro fecero fuoco uno dopo l’altro.

Udendo quelle due detonazioni, i Tupy alzarono grida altissime e abbandonarono precipitosamente le barricate salvandosi nei carbets vicini.

La loro sorpresa doveva essere ben grande nel vedere entrambi gli assediati armati di quei terribili istrumenti di distruzione, mentre il giorno innanzi il solo Alvaro ne era provvisto.

Quale potenza avevano dunque quei pyaie dalla pelle bianca per rapire così facilmente al cielo il fuoco che fulminava?

I due colpi d’archibugio erano andati a vuoto; tuttavia lo spavento dei selvaggi era stato egualmente intenso.

La collera non doveva però tardare ad avere la prevalenza e vincere quel momento di terrore.

Ed infatti non erano trascorsi dieci minuti quando si videro i selvaggi precipitarsi nuovamente fuori dai carbet e raggiungere le barricate.

Ululavano spaventosamente, lanciando nuvoli di frecce; mentre i loro capi pronunciavano arringhe infuocate per incoraggiarli e spingerli all’attacco.

Due uomini soli che da ventiquattro ore tenevano in iscacco una intera tribù che godeva fama di essere invincibile, era cosa inaudita e anche vergognosa.

— Garcia, — disse Alvaro. — Non perdiamoci d’animo o verremo presi. I selvaggi si preparano per un tentativo supremo. Se non riusciamo a respingerli, domani verremo mangiati.

— Ah, Signore! Comincio ad aver paura.

— Orsù fuoco e non risparmiar nessuno. —

I tronchi d’albero, spinti da diecine e diecine di braccia, rotolavano, mentre numerosi arcieri mandavano frecce verso il tetto facendo uso di archi e di gravatane.

Alvaro e Garcia, inginocchiati l’uno presso l’altro, aprirono il fuoco abbattendo due arcieri che avevano commessa l’imprudenza di mostrarsi.

Quel doppio colpo rallentò per un momento lo slancio degli assalitori. Quelle detonazioni producevano sempre su di loro un effetto disastroso che non riuscivano a vincere.

— Garcia, — disse Alvaro che non aveva troppa fiducia nell’abilità del ragazzo. — Carica gli archibugi e lascia a me la cura di abbattere quelle canaglie. [p. 302 modifica]

Non puoi essere sempre fortunato nei tuoi tiri.

— Sì, signore e poi le mie braccia tremano.

— Non temere; riusciremo a respingerli. —

E riprese il fuoco, mentre il mozzo ricaricava precipitosamente gli archibugi.

I colpi spesseggiavano e non risparmiavano gli assalitori.

Ogni palla abbatteva un uomo ora a destra, ora a sinistra, ora dinanzi ed ora di dietro, giacchè gl’indiani s’avanzavano da tutte le parti.

Ad ogni indiano che cadeva, i suoi compagni s’arrestavano un momento vociferando spaventosamente, ma poi riprendevano l’avanzata fino a quando un altro stramazzava.

Già le frecce cominciavano a cadere intorno ad Alvaro e la posizione diventava ormai insostenibile, quando un avvenimento fortunato arrestò l’attacco.

Già da qualche minuto il portoghese aveva notato fra gli assedianti, la presenza d’un indiano di alta statura, che portava sulla testa un diadema di penne di tucano e che aveva il petto e le braccia adorne di numerose collane formate da granelli d’oro e da certe pietre risplendenti che erano forse dei diamanti greggi.1

Immaginandosi che potesse essere il capo della tribù, non avendone veduti altri così riccamente adorni, gli aveva fatto fuoco addosso per ben tre volte senza riuscire mai a colpirlo.

Avendolo veduto slanciarsi sulla cima d’uno di quei tronchi che gl’indiani facevano rotolare, forse per meglio osservare la posizione occupata dagli assediati o per colpirli con qualche freccia, Alvaro che già lo spiava e che aveva appena ricevuto da Garcia un archibugio carico, aveva sparato precipitosamente.

La palla era giunta a destinazione.

Il capo, ferito in mezzo al petto, era stramazzato dietro al tronco, dopo aver spiccato un salto in aria.

La caduta di quel guerriero aveva sparso fra gli assedianti un panico indicibile.

Tutti i selvaggi erano fuggiti a gambe levate, come se una mitragliatrice avesse sparsa la morte fra le loro file, gettando archi, gravatane e mazze per essere più lesti. [p. 303 modifica]

Mai fuga era stata più completa, nè più rapida.

— Signore, — disse il mozzo, sorpreso da quella improvvisa ritirata. — Che colpo maestro avete fatto voi?

— Credo di aver ucciso il capo della tribù, — rispose Alvaro. — Erano già parecchi minuti che lo spiavo per mandarlo all’altro mondo con una palla nel petto o nel cervello.

— Che ne abbiano abbastanza?

— È quello che vedremo, mio caro Garcia.

— Non si scorgono più.

— Se quello che ho ucciso è veramente un capo non lo lasceranno lì. Ah! Ecco, li vedi avanzarsi strisciando dietro i tronchi degli alberi? Vanno a raccogliere il cadavere.

— Li vedo, signore.

— Quel selvaggio doveva essere un personaggio importantissimo. —

Degl’indiani usciti dal carbet più vicino, strisciavano in mezzo ai tronchi d’albero, cercando di avvicinarsi al cadavere del capo.

Alvaro avrebbe potuto fucilarli con tutta facilità, giacchè dall’alto del tetto li scorgeva distintamente, invece li lasciò fare. Non voleva inasprirli maggiormente, dopo il furioso assalto tentato pochi minuti prima e che per poco non aveva avuto terribili conseguenze.

Vide raccogliere il cadavere del guerriero e trasportarlo in uno dei carbets più prossimi.

— Sì, — disse al mozzo che lo interrogava. — Devo aver ucciso uno dei più famosi guerrieri.

— Mi stupisco che non cerchino di vendicarlo, — rispose Garcia.

— Rimanderanno la vendetta a momento più opportuno. Mio caro ragazzo, difendiamoci disperatamente perchè se cadiamo vivi nelle mani di quegli antropofagi, chissà a quali spaventevoli torture ci sottoporranno, prima di metterci sulla graticola.

— Signor Alvaro, comincio a disperare.

— Io non ancora, — rispose il signor Viana. — Finchè avremo palle, polvere e viveri non dobbiamo perderci d’animo.

— Sperate sempre nei Tupinambi?

— Sempre, Garcia.

— Se giungessero prima di domani!

— Lasciamo i selvaggi e mangiamo un boccone giacchè ci lasciano tranquilli. — [p. 304 modifica]

I Tupy si erano tutti ritirati trasportando il cadavere del capo e degli altri caduti durante quel breve, ma terribile combattimento, senza più occuparsi delle barricate.

Solamente alcuni guerrieri erano rimasti nascosti dietro gli angoli dei carbets per impedire la fuga agli assediati.

Delle grida lamentevoli echeggiavano nelle ultime capanne che si addossavano alle cinte, grida e pianti di uomini, di donne e di fanciulli.

Pareva che la tribù intera piangesse la morte del capo.

Alvaro, profondamente impressionato, aveva ingollato a stento pochi bocconi, poi si era rimesso in osservazione sulla cima del carbet.

Sentiva per istinto che qualche tremendo pericolo lo minacciava e che quei selvaggi non avrebbero tardato a vendicare la morte del valoroso guerriero e dei suoi compagni.

Garcia poi era in preda ad un vero spavento e guardava con orrore le gigantesche pentole che barricavano la porta della capanna, entro una delle quali, presto o tardi, avrebbe dovuto cucinare.

Tuttavia anche quella giornata trascorse senza allarmi. Gl’indiani non avevano cessato di urlare lugubramente e di suonare i loro pifferi di guerra.

Quando il sole scomparve e le tenebre invasero l’aldèe, grida e suoni cessarono improvvisamente.

Alvaro, assai preoccupato, guardò il mozzo che di quando in quando era scosso da un tremito.

— Hai paura è vero, mio povero Garcia? — gli chiese.

— Mi pare che la morte mi sfiori, — rispose il mozzo. — Che domani siamo ancora vivi? —

Alvaro non ebbe il coraggio di rispondere. Si rizzò portandosi verso la parte più alta del carbet ed interrogò ansiosamente l’orizzonte, spingendo gli sguardi verso ponente dove il cielo ancora rosseggiava.

— Ancora nulla, — mormorò. — Che giungano troppo tardi?

Si lasciò cadere sul tetto mettendosi il fucile fra le ginocchia.

Le tenebre cadevano rapidissime anche verso ponente, coprendo la striscia rossastra la quale si dileguava con fantastica velocità e nel villaggio regnava il più profondo silenzio. Si avrebbe detto che gl’indiani avevano abbandonate le loro capanne.

— Che cosa fanno? Che cosa preparano? — si chiedeva con angoscia Alvaro. — Questo silenzio mi fa paura. — [p. 305 modifica]Ora appariva in mezzo alle fiamme, ora scompariva in mezzo ai turbini.... (Cap. XXX). [p. 307 modifica]

Ad un tratto un punto luminoso attraversò velocemente la piazza e cadde sul tetto.

Alvaro era balzato in piedi mandando un grido d’angoscia.

— Siamo perduti! —

Aveva capito il pianto infernale dei Tupy.

Quei terribili antropofagi, disperando ormai di riuscire ad impadronirsi dei due europei vivi, si preparavano a bruciarli dentro la loro fortezza come belve feroci.

Rinunciavano all’arrosto, forse lungamente sospirato, pur di vendicare la morte del loro capo.

— Garcia! — gridò Alvaro. — Non cessare il fuoco e preparati a seguirmi quando te ne darò il segnale.

— Signore, — balbettò il povero ragazzo. — Ci arrostiranno.

— Sì, col fuoco vogliono vincere l’Uomo di fuoco, — rispose Alvaro con ira. — Ebbene daremo battaglia e resisteremo finchè avremo una palla e un granello di polvere. —

Le frecce incendiarie, che erano munite verso la punta d’un batuffolo di cotone impregnato di resina, giungevano da tutte le parti piantandosi nel tetto e contro le pareti.

Gli strati di foglie cominciavano a fumare, essendo ancora un po’ umidi ma già qualche fiammella serpeggiava sull’orlo del tetto.

Alvaro e Garcia sparavano all’impazzata ora a destra, ora a sinistra, ora dinanzi ed ora di dietro.

Le loro detonazioni si confondevano colle urla furibonde dei selvaggi.

Gli spari si succedevano agli spari, ma con ben poco successo, perchè dalla parte degli assedianti regnava oscurità completa.

Non si vedevano che le frecce partire senza riuscire a scorgere gli arcieri che si tenevano ben nascosti dietro ai tronchi degli alberi.

Il fumo già avvolgeva i due portoghesi e le fiamme continuavano a divorare l’orlo del tetto, spargendo all’intorno una luce sinistra.

L’Uomo di fuoco, ritto sul culmine del carbet continuava a sparare, sordo alle preghiere di Garcia il quale lo consigliava di abbandonare quel punto pericoloso, ormai battuto dalle frecce incendiarie.

— Prendete! — urlava, in preda ad una viva esaltazione, ogni volta che scaricava l’archibugio. — Ecco la risposta di Caramurà! Venite a prendermi se l’osate! — [p. 308 modifica]

Ora scompariva in mezzo ai turbini di fumo che il vento spingeva verso ponente ed ora appariva alla luce delle fiamme come un dio della guerra, tuonando furiosamente contro quelle centinaia e centinaia di nemici.

Ma il fuoco guadagnava rapidamente. Le travi cominciavano a cadere e gli strati di foglie fiammeggiavano su tutti i punti. Il tetto minacciava di cadere seco trascinando i difensori.

— In ritirata, Garcia! — gridò ad un tratto Alvaro, che aveva finalmente compreso il pericolo che lo minacciava.

Si slanciò in mezzo ai turbini di fumo e si lasciò scivolare nell’interno del carbet.

Anche le pareti cominciavano a bruciare e nella capanna regnava già un calore insopportabile, un calore da forno.

Alvaro gettò intorno a sè uno sguardo disperato.

— È finita, — ruggì. — Ebbene, sia; ma morremo coll’arme in pugno. —

Spostò alcuni vasi e si slanciò sulla piazza gridando a Garcia:

— Carichiamo a fondo! Mostreremo a questi antropofagi come sanno morire gli uomini dalla pelle bianca! —




Note

  1. Duecento anni più tardi e precisamente nel 1727 si scoprivano nel Brasile le prime famose miniere di diamanti.