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314 | Capitolo Trentunesimo. |
— Che brutta idea abbiamo avuto di lasciare la canoa. Che cosa fare?
— Rimani qui e fa fronte a quello che hai veduto scivolare verso quelle palme, — disse l’indiano. — Non occuparti di me, per ora.
— Dove vai?
— Ad accertarmi se siamo minacciati anche alle spalle.
— Vuoi farti divorare?
— La freccia del Rospo Enfiato è tinta nel vulrali e io non sbaglio mai. D’altronde non soffierò nella gravatana se non quando sarò ben sicuro della distanza.
Tornerò presto. —
Fece cenno a Diaz di guardare verso le palme per non farsi sorprendere dall’animale che aveva veduto e che poteva essere anche quello un giaguaro e s’allontanò silenziosamente tenendosi nascosto dietro i tronchi degli alberi ed i cespugli che in quel luogo erano foltissimi.
La belva che aveva fatto udire quel miagolìo minaccioso, doveva essersi nascosta fra i paletuvieri che ingombravano la riva dell’isoletta.
Rospo Enfiato, aveva introdotto un cannello nella gravatana, quando si trovò fuori dalle macchie. Si diresse coraggiosamente là dove era partito quel miagolìo e non s’arrestò che quando giunse a una trentina di passi dalla prima linea dei paletuvieri.
Essendovi fra le ultime macchie e quelle piante acquatiche uno spazio scoperto, se l’animale lasciava il suo rifugio non poteva sfuggire agli sguardi vigilanti dell’indiano.
Trascorsero alcuni istanti d’attesa angosciosa.
Un profondo silenzio regnava sia sulla riva sia in mezzo alle piante, nè alcun altro miagolìo si era fatto udire.
Solo di quando in quando si udiva l’acqua della laguna, che la brezza mattutina agitava, rompendosi con un gorgoglìo monotono contro la riva.
Ad un tratto un buffo d’aria portò fino alle nari dell’indiano un acuto odore di selvatico, quell’odore speciale che tramandano le fiere e che si espande anche a non breve distanza.
— Si trova dinanzi a me, — barbottò l’indiano.
Si volse lanciando un rapido sguardo verso le macchie e vide il marinaio di Solis rannicchiato dietro il tronco d’un simaruba, colla gravatana accostata alle labbra.