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316 Capitolo Trentunesimo.

come se fossero impazziti, poi scomparvero di nuovo fra le piante prima ancora che Rospo Enfiato potesse lanciare su di loro la seconda freccia.

Si udì ancora qualche rauco brontolìo, poi il silenzio tornò.

— Hai colpito qualcuno? — chiese Rospo Enfiato.

— Lo dubito, — rispose Diaz. — Saltavano come se il suolo fosse cosparso di molle. Ed il tuo?

— È morto, — rispose l’indiano.

— Che ritornino?

— Sono certo che ci spiano. Devono essere affamati, non abbondando qui di selvaggina.

— Se mi balzavano addosso entrambi, non so come la sarebbe finita per me. Come mai si sono radunate tante fiere su questa lingua di terra?

— Sono le inondazioni che le cacciano dalle rive, — rispose l’indiano.

— Proviamo a ritirarci verso la canoa.

— Non oso riattraversare le macchie.

— Seguiamo la riva.

— Sia, — rispose il Rospo.

Avevano però percorsi appena una trentina di passi, quando udirono ancora le due belve a mugolare. Pareva che non si trovassero più insieme, perchè le urla risuonavano in due diverse direzioni.

— Odi? — chiese Diaz. — Che chiamino dei compagni?

— Temo che ve ne siano altri, — rispose l’indiano. — Si direbbe che qui i giaguari pullulano come gli jacarà nelle savane sommerse.

Sfuggire i Tupy per cadere sotto le unghie dei carnivori! È una vera disdetta, uomo bianco.

— E quest’altro urlo?

— Sono tre dunque?

— Affrettiamo il passo o non torneremo vivi nella canoa. —

Si erano rimessi in marcia, seguendo lo spazio compreso fra le ultime macchie ed i paletuvieri.

Di tratto in tratto però si fermavano per scrutare le piante, poi ripartivano a passo di corsa. La paura cominciava ad invaderli, quantunque fossero ancora ben forniti di frecce intinte nel vulrali.

Non camminavano più, correvano lungo la riva eppure non si