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236 | Capitolo Venticinquesimo. |
— La rivedrò anch’io volentieri, — disse il mozzo. — L’isola era diventata ormai troppo piccina anche per me e mi annoiavo al pari di voi.
— Fra quattro o cinque giorni ci metteremo in cerca dei Tupinambi, se gli Eimuri ne hanno lasciati ancora di vivi.
Non so ma anche Diaz non è tranquillo sulla sorte che può essere toccata alla tribù.
Prima gli Eimuri e poi i Caheti, e gli uni e gli altri sono grandi consumatori di carne umana.
— E se non ne trovassimo più di vivi?
— Allora mio caro, andremo verso la costa e con qualche scialuppa saliremo al nord fino a trovare gli stabilimenti spagnuoli del Venezuela.
Diaz s’è pure deciso a tentare il lungo viaggio. —
Pur chiacchierando non arrestavano di remare vigorosamente, girando e rigirando intorno agli isolotti ed ai banchi che ingombravano la savana e mettendo in fuga nuvole di volatili i quali s’affrettavano a fuggire avendo ormai provato gli effetti delle armi da fuoco.
Alle otto del mattino la canoa usciva finalmente da quel dedalo di terreni emersi e da quei gruppi enormi di paletuvieri rossi, raggiungendo le acque libere.
La riva appariva a meno d’un miglio colla sua imponente linea di alberi maestosi fra i quali torreggiavano soprattutto gli enormi summameira e le cupole ondeggianti delle iriastree, capricciosamente dentellate.
Alvaro abbandonò per un momento le pagaie e riparatisi gli occhi colle mani esaminò attentamente la spiaggia.
— Non vedo alcun canotto nè alcuna zattera, — disse poi — e nessuna colonna di fumo alzarsi fra le piante.
I Caheti devono essere tornati ai loro villaggi.
— E noi approfitteremo per fare una battuta nella foresta, — disse Garcia.
— E anche una buona raccolta di frutta, — aggiunse Alvaro.
Vedo laggiù e per la prima volta delle piante che mi sembrano cocchi.
Se le frutta non sono troppe mature ti offrirò un buon bicchiere di latte alla crema.
Animo, Garcia. Ancora dieci minuti e sbarcheremo. —
Attraversarono velocemente l’ultimo tratto della savana e