L'Uomo di fuoco/22. Ancora il marinaio di Solis
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CAPITOLO XXII.
Ancora il marinaio di Solis.
Quel grido era partito dal mezzo d’un gruppo di sapucaia, piante che formano sovente delle macchie colossali di cui sono ghiottissime tutte le scimmie.
Alvaro che era certo di non essersi ingannato, in quattro salti si era slanciato in mezzo ai tronchi, sfondando impetuosamente dei cespi di ortensie che crescevano negli spazi lasciati dagli alberi.
Aveva afferrato il fucile per la canna, onde servirsene come d’una mazza, non osando far fuoco per paura di attirare l’attenzione degli Eimuri, i quali potevano trovarsi ancora nelle vicinanze della radura.
In mezzo a due alberi scorse vagamente un uomo che si dibatteva disperatamente contro un animale grosso quanto una pantera e che aveva il mantello d’un nero intenso.
Senza badare al pericolo a cui inconsideratamente si esponeva, il portoghese alzò il fucile e lasciò cadere il calcio dell’archibugio, che era pesantissimo, sul cranio della fiera, il quale risuonò come una campana fessa.
Il colpo era stato così violento, che la belva era rimasta per un momento stordita, colla testa appoggiata contro l’uomo che aveva assalito.
— Ecco il secondo! — gridò Alvaro, calando un nuovo colpo con tutta la forza di cui era capace.
Prima però che il calcio si fosse nuovamente abbassato, la fiera con un fulmineo salto di fianco si era sottratta a quella tremenda mazzata che avrebbe dovuto, se non ucciderla, almeno ferirla gravemente.
Pazza di rabbia e di dolore, si era subito voltata contro l’assalitore mugolando spaventosamente e raccogliendosi su se stessa per scagliarsi.
— Fate fuoco! — gridò l’uomo che giaceva a terra. — Sta per sbranarvi! Presto! —
La belva stava per saltare. Alvaro, che non perdeva mai la L’adagiarono sulla barella e si misero in cammino.... (Cap. XXII). testa, si gettò dietro un albero per non venire atterrato e abbassò prontamente il fucile, voltandolo. Uno sparo rintronò un istante dopo.
L’animale, arrestato di colpo, nel momento in cui stava per scagliarsi, fece un salto in aria girando su se stesso due o tre volte, poi ricadde miagolando e ululando spaventosamente.
In quell’istante un altro sparo echeggiò nella macchia.
L’uomo che giaceva al suolo a sua volta aveva fatto fuoco, quasi a bruciapelo, fracassando il muso alla fiera.
— Diaz? — gridò Alvaro, precipitandosi verso il marinaio che aveva lasciato cadere il fucile.
— Signor Viana, — rispose il castigliano con voce commossa. — Voi qui, ed in così buon momento? E Garcia?
— Siete ferito?
— Mi sembra che una gamba sia stata sfracellata, signore. Era un giaguaro nero, una delle belve più terribili che infestano le selve brasiliane e m’aveva assalito alle spalle... Grazie... vi devo la vita... Ah! Che dolore! Mi ha strappata mezza coscia, ne sono certo.
— Ah! Povero signor Diaz! — esclamò Garcia che si era avvicinato. — In quale stato vi troviamo!
— Cose che toccano ai vivi, — rispose il marinaio di Solis, tentando di sorridere. — Carracho! Mi è impossibile alzarmi!
— Aspettate che vi porti nella radura vicina, che è assai più illuminata di questa macchia, — disse Alvaro. — Visiteremo la vostra ferita e cercheremo di medicarla.
Speriamo che non sia troppo grave. —
Si assicurò prima che la belva fosse proprio morta, poi prese fra le braccia il marinaio che non era troppo pesante e lo portò fuori dalla macchia, raggiungendo in pochi istanti la radura che la luna rischiarava come in pieno giorno.
Lo depose su uno strato di foglie già preparato dal mozzo e si curvò sul disgraziato marinaio.
Una smorfia molto significante, gli contorse la bocca.
— Diamine! — brontolò. — Che colpo d’artiglio! —
La ferita del marinaio era orribile. Le unghie della belva avevano aperto un solco profondissimo nella coscia destra strappando dei brandelli di carne ed intaccando fors’anche l’osso.
Da quello squarcio che misurava non meno di dieci centimetri, il sangue sfuggiva in tale quantità da temere che il marinaio morisse per emorragia.
— Ebbene? — chiese Diaz che conservava una calma ammirabile e che pareva non sentisse più alcun dolore.
— Bisogna arrestare il sangue, — disse Alvaro.
— Nulla di più facile, — rispose il marinaio. — Sono diventato un buon medico sotto i brasiliani che se ne intendono di ferite.
Scavate un po’ la terra; troverete a qualche piede dell’argilla. La foresta è umida e non ne mancherà. A voi, prendete il mio coltello.
— Garcia ha il suo.
— Il mio vi servirà per altra cosa. Ecco là un bambù che è grosso come la mia coscia. Tagliatene un pezzo lungo una ventina di centimetri, spaccatelo a metà e recidete qualche liana.
Presto signor Viana; la debolezza mi prende. —
Alvaro e Garcia erano già all’opera. Il marinaio, che conosceva le foreste e anche il loro suolo, non si era ingannato. A quindici centimetri di profondità il mozzo aveva già trovato un denso strato d’argilla bigiastra e grassa.
Ne fece una palla e corse presso il ferito; Alvaro vi era di già col bambù.
— Formate con quella terra un manicotto e coprite per bene la mia ferita, — disse Diaz. — Poi applicate il cilindro di bambù e legatelo con la liana.
Il sangue si arresterà subito. —
Alvaro ed il mozzo, che temevano di vederlo svenire, s’affrettarono a obbedirlo.
— Ed ora? — chiese Alvaro.
— Ci vorrebbe del cotone o del canape per avvolgere l’argilla ed il bambù. Là, nella macchia dove avete ucciso il jaguaro nero... le sapucaia sotto la corteccia hanno... una specie di stoppa... servirà bene... Signor Viana... non ci vedo più... Maledetto animale!
Non sarà nulla... il sangue perduto... mi rimetterò più tardi... —
Il marinaio, vinto dall’estrema debolezza, era caduto sullo strato di foglie, smarrendo i sensi.
— Signore, è morto! — gridò Garcia che aveva le lagrime agli occhi.
— Non spaventarti, — disse Alvaro. — La ferita è grave, ma non pericolosa e quest’uomo guarirà, non dubitare.
Andiamo a cercare il canape. Temo che il sangue filtri anche attraverso lo strato d’argilla e allora la cosa potrebbe diventare seria.
Sotto la corteccia ha detto; andiamo a provare se ne esiste realmente. —
Si curvò sul marinaio e gli mise una mano sul cuore.
— Batte sempre e regolarmente, — disse. — Buon segno, d’altronde quest’uomo è robusto. — Lo coprì con un altro strato di foglie e si diresse verso la macchia delle sapucaia.
Non vi era che da scegliere, essendovi parecchie dozzine di quelle piante e tutte cariche di noci enormi.
Alvaro sollevò la corteccia colla punta del coltello e scoprì infatti al di sotto dei filamenti lucentissimi e fitti che potevano surrogare vantaggiosamente il canape.
— Quante cose sa quell’uomo, — disse. — Con queste fibre si potrebbero anche tessere delle vesti e assai resistenti. —
Ne fece un’abbondante raccolta e tornò presso il ferito sollecitamente.
Diaz pareva che si fosse addormentato o che fosse caduto in un profondo torpore. Nondimeno il suo respiro non era affatto affannoso e la febbre non era ancora sopraggiunta. Alvaro fasciò più volte il manicotto di bambù, specialmente verso i margini per impedire qualsiasi filtrazione, poi si sedette accanto al ferito, dicendo al mozzo:
— Che cosa faremo ora? Che cosa accadrebbe di noi se gli Eimuri tornassero qui per impadronirsi del corpo del liboia? E questo è il più grave pericolo che temo.
— Signore, — rispose il ragazzo. — Se trasportassimo il ferito altrove? I selvaggi potrebbero giungere domani.
Se costruissimo una barella con dei rami?
— Non potresti resistere a lungo, mio povero Garcia.
— Eppure non dobbiamo fermarci qui. È necessario raggiungere la savana sommersa.
Non sono un uomo ma le mie braccia non sono nemmeno deboli.
— Proviamo, — disse Alvaro. — Ci avanzeremo adagio adagio e faremo delle frequenti fermate per lasciarti riposare.
Qui non mi sento sicuro quantunque ora possiamo disporre di due fucili.
Fra i cespugli fracassati dalla possente coda del rettile presero alcuni rami e formarono una specie di barella legandola con delle liane e coprendola con uno strato di foglie di palma.
Il marinaio non aveva ancora aperti gli occhi, tuttavia non vi era da inquietarsi essendo il suo sonno abbastanza tranquillo.
La febbre però era sopraggiunta ed un intenso rossore coloriva la sua faccia.
Alvaro lo sollevò dolcemente e lo depose sulla barella, poi si misero in cammino avanzando lentamente.
Il mozzo resisteva tenacemente, dando prova d’una forza poco comune per un ragazzo della sua età; era ben vero però che aveva temprati i suoi muscoli nell’acqua marina e nel catrame dei paterazzi e delle sartie delle caravelle.
Procedettero per una mezz’ora, attraversando macchie e macchioni, senza incontrare nessun animale, poi fecero una breve sosta quindi ripartirono cercando di dirigersi verso l’ovest, trovandosi la savana sommersa in quella direzione.
Continuarono così tutta la notte con frequenti fermate e all’alba, entrambi sfiniti, s’arrestavano sul margine d’un colossale gruppo di piante cariche di frutta grosse come mele e di color bruno scuro, che avevano già altre volte vedute e anche assaggiate.
Avevano appena deposto a terra il ferito e si preparavano a saccheggiare qualche pianta, quando lo udirono a mormorare con voce debole:
— Acqua... signor Viana...
— Come vi sentite Diaz? — chiese Alvaro, mentre il mozzo si cacciava nella macchia per cercare qualche fossatello.
— Ho la febbre, signore e assai forte e mi sento debolissimo. Quel jaguaro mi ha conciato per bene. —
Aveva aperti gli occhi e si guardava intorno.
— Delle sapota! — esclamò ad un tratto, cercando di alzarsi. — Ecco un buon rimedio contro la febbre.
— Che cosa sono queste sapota? — chiese Alvaro.
— Delle piante preziose. Le frutta sono eccellenti e la linfa è un ottimo, anzi miracoloso febbrifrugo. È una vera fortuna che voi vi siate fermati quì.
Tutti gl’indiani conoscono quel rimedio. Tagliate alcuni rami e portatemeli.
Fra qualche ora la febbre diminuirà. —
Mentre il mozzo tornava con una foglia di palma arrotolata in forma di cornetto e piena d’acqua, Alvaro si recò sotto una di quelle piante e recise parecchi rami.
Vide subito cadere una linfa biancastra e vischiosa che s’affrettò a raccogliere entro la foglia d’una cuiera.
Quando ne ebbe qualche bicchiere la portò al ferito il quale trangugiò d’un fiato quel liquido, non senza fare una brutta smorfia.
— Non deve essere eccellente, — disse Alvaro.
— Ma mi salverà la vita, — rispose il marinaio il quale a poco a poco riacquistava un po’ di forza. — Le febbri qui sono sovente mortali.
— Vi addolora la ferita?
— Assai, signor Viana. Se potessimo trovare una almesegueira si cicatrizzerebbe più presto.
Gl’indiani non vanno mai alla guerra o alla caccia senza averne qualche po’ nella loro borsa.
— È un’altra pianta?
— Sì e che produce un succo resinoso che arde con molto profumo e che serve ottimamente di balsamo alle ferite.
Oh! Ne troveremo, non essendo quelle piante rare, anzi tutt’altro.
— Non credevo che questi antropofagi si occupassero di medicina.
— Signor Alvaro, — disse il marinaio, che si era alzato a sedere. — Mi avete trasportato lontano dalla radura dove il capo degli Eimuri era stato preso dal liboia?
— Che cosa ne sapete voi, Diaz? — chiese Alvaro stupito.
— Ho assistito a quella scena, dall’alto d’un albero ed ho anche ammirato assai il vostro coraggio, — rispose Diaz sorridendo. — Senza di voi il capo poteva considerarsi un uomo morto.
— Ma voi dunque...
— Non vi avevo abbandonato, anzi cercavo l’occasione propizia per strapparvi agli Eimuri.
Non trovandovi più, al ritorno dalla mia esplorazione, sulle rive della savana sommersa, m’immaginai subito che gli Eimuri vi avessero sorpresi e rapiti.
Mi riuscì facile scoprire le tracce dei selvaggi e le seguii fino nei pressi del villaggio, nondimeno l’occasione per farvi fuggire non si presentava.
Mi ero nascosto su un albero quando vi vidi giungere col capo degli Eimuri ed i suoi guerrieri e assistetti alla terribile scena col gigantesco liboia.
— È morto il capo?
— No e può ringraziarvi del vostro colpo di fucile. Il rettile, ferito mortalmente, aveva subito svolte le spire prima di aver avuto il tempo di stritolarlo.
— Ed è fuggito?
— Sì, dopo d’aver tagliata la testa al liboia.
— Sarebbe stato meglio per noi che fosse morto. Quell’uomo si metterà in cerca dei suoi pyaie.
— È qui che sta il pericolo, — disse il marinaio. — Noi dobbiamo raggiungere assolutamente la savana sommersa e rifugiarci sull’isolotto che ho scoperto.
— E attendere colà la vostra guarigione, — disse Alvaro. — Ne avrete per un paio di settimane se non di più. È lontana la savana?
— Fra un paio d’ore vi potremo giungere.
— Allora ripartiamo senza indugio. Forse a quest’ora gli Eimuri hanno scoperte le nostre tracce.
— Potrete resistere?
— Garcia è più robusto di quello che supponevo. Lasciateci mangiare un po’ di quelle frutta e poi partiremo. —
Il mozzo tornava appunto in quel momento portando alcune dozzine di quella specie di mele ed un bel grappolo di quelle piccole banane gialle chiamate d’oro, assai più gustose delle banane de plata che si usa mangiarle fritte.
Ne divorarono alcune, poi rialzarono la barella e si riposero in marcia, seguendo le indicazioni che dava il marinaio, il quale al pari degl’indiani aveva imparato a dirigersi anche in mezzo alle più folte foreste, senza bisogno della bussola.
Quando trovavano qualche pianta carica di frutta mangiabili, s’arrestavano per fare una buona raccolta, non potendo pel momento contare sulla selvaggina che si ostinava a non mostrarsi in quella parte della foresta, quantunque fosse da tutti desiderato un pezzo d’arrosto.
— Ne troveremo sulle rive della palude, — rispondeva il marinaio vedendo Alvaro arrabbiarsi.
— Non è già per me bensì per voi che non potrete rinforzarvi con delle frutta. Ci vorrebbe un po’ di brodo.
— Voi dimenticate signore che non abbiamo alcuna pentola, — disse il mozzo. — Anch’io ci terrei a un bel pezzo di bollito. È molto tempo che non ne assaggiamo più.
— Verrà anche la pentola, — disse il marinaio. — Ho veduto sulle rive della savana due alberi delle stoviglie.
— Come! — esclamò Alvaro. — Vi sono in questo paese delle piante che producono dei tondi e delle pentole? La sarebbe curiosa.
— No ma che ci procureranno la materia per fabbricare gli uni e le altre e che resisteranno al calore più intenso.
— Meraviglioso paese! —
Così chiacchierando continuavano ad inoltrarsi, passando sotto piante splendide che avevano delle foglie immense che impedivano ai raggi del sole di penetrare. Superbe bananiere si succedevano senza posa, mescolate sovente a gruppi di palme appartenenti per lo più alla specie chiamata palmite, altissime, slanciate, che diventano pericolosissime quando vengono abbattute per la singolarità che hanno di dare il così detto conce, ossia calcio del palmito, perchè appena toccato il suolo rimbalzano dalla parte opposta causando sovente gravi disgrazie.
Talvolta invece incontravano gruppi di piante che producono delle frutta somiglianti a palle di cannone, assai pericolose quando, giunte a maturanza, si staccano; o macchie di verzino, i famosi alberi che danno il prezioso legno del Brasile, chiamato dagl’indiani ibiripitanga.
Queste piante, delle quali oggi se ne fa una esportazione immensa, traendosi dai loro tronchi una superba tinta rossa che serve alla fabbricazione della lacca e del carmino, non sono più alte dei nostri roveri e all’aspetto non compariscono troppo belle, avendo i rami disposti senza alcun ordine e portano foglie che somigliano a quelle dei mughetti; i fiori sono d’una superba tinta rossa e la scorza assai ruvida.
Alle nove del mattino dopo parecchie fermate, i due portoghesi ed il castigliano giungevano finalmente sulla riva della savana sommersa e precisamente là dove il marinaio aveva abbandonata la zattera di cui si era servito per compiere l’esplorazione.