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212 | Capitolo Ventiduesimo. |
tri, il sangue sfuggiva in tale quantità da temere che il marinaio morisse per emorragia.
— Ebbene? — chiese Diaz che conservava una calma ammirabile e che pareva non sentisse più alcun dolore.
— Bisogna arrestare il sangue, — disse Alvaro.
— Nulla di più facile, — rispose il marinaio. — Sono diventato un buon medico sotto i brasiliani che se ne intendono di ferite.
Scavate un po’ la terra; troverete a qualche piede dell’argilla. La foresta è umida e non ne mancherà. A voi, prendete il mio coltello.
— Garcia ha il suo.
— Il mio vi servirà per altra cosa. Ecco là un bambù che è grosso come la mia coscia. Tagliatene un pezzo lungo una ventina di centimetri, spaccatelo a metà e recidete qualche liana.
Presto signor Viana; la debolezza mi prende. —
Alvaro e Garcia erano già all’opera. Il marinaio, che conosceva le foreste e anche il loro suolo, non si era ingannato. A quindici centimetri di profondità il mozzo aveva già trovato un denso strato d’argilla bigiastra e grassa.
Ne fece una palla e corse presso il ferito; Alvaro vi era di già col bambù.
— Formate con quella terra un manicotto e coprite per bene la mia ferita, — disse Diaz. — Poi applicate il cilindro di bambù e legatelo con la liana.
Il sangue si arresterà subito. —
Alvaro ed il mozzo, che temevano di vederlo svenire, s’affrettarono a obbedirlo.
— Ed ora? — chiese Alvaro.
— Ci vorrebbe del cotone o del canape per avvolgere l’argilla ed il bambù. Là, nella macchia dove avete ucciso il jaguaro nero... le sapucaia sotto la corteccia hanno... una specie di stoppa... servirà bene... Signor Viana... non ci vedo più... Maledetto animale!
Non sarà nulla... il sangue perduto... mi rimetterò più tardi... —
Il marinaio, vinto dall’estrema debolezza, era caduto sullo strato di foglie, smarrendo i sensi.
— Signore, è morto! — gridò Garcia che aveva le lagrime agli occhi.