L'Uomo di fuoco/21. La fuga

21. La fuga

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20. L'Uomo di fuoco 22. Ancora il marinaio di Solis
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CAPITOLO XXI.

La fuga.


Un’ora prima del tramonto i due pyaie lasciavano il villaggio scortati dal capo, dal ragazzo indiano e da un drappello di dieci guerrieri scelti fra i più valenti e si avviarono verso la foresta per sorprendere il terribile serpente.

Alvaro che aveva già architettato il suo piano, si era recisamente opposto al desiderio del capo, di condurre un gran numero di sudditi per circondare tutta quella parte di foresta che si riteneva abitata dal rettile, assicurandolo che sarebbe bastato anche da solo.

L’Eimuro però che forse non era ancora completamente sicuro della fedeltà dei suoi pyaie, aveva scelto quel drappello, che asseriva essere assolutamente necessario per aprire una via attraverso la foresta, essendo quella foltissima.

Alvaro avrebbe ben fatto a meno anche di quei pochi, ma per non destare le diffidenze del capo, aveva finito per accettarli.

D’altronde quegli undici uomini non lo inquietavano molto. Col fucile non aveva più alcuna paura ed era certo di avere subito il sopravvento e di metterli in piena rotta con poche scariche.

La foresta che si estendeva a settentrione del villaggio, era davvero una delle più folte che Alvaro avesse fino allora vedute.

Era un caos di palme d’ogni specie, di jatolà enormi, di summameira colossali; di bombonasse, di massarandube ecc. che crescevano le une addosso alle altre e avvolte fra un numero infinito di liane serpeggianti in tutte le direzioni.

Un uomo bianco, senza l’aiuto di qualche indiano, difficilmente avrebbe potuto andare molto lontano.

I guerrieri del capo si erano però subito messi al lavoro per aprire un passaggio ai due pyaie che non erano abituati a camminare come i gatti e tanto meno a strisciare come i rettili.

Adoperando con vigore e con destrezza le loro pesanti mazze di paò de fero, sfrondavano rami e cespugli e spaccavano le liane, facendole cadere a festoni interminabili, che poi dovevano spingere da una parte o dall’altra. [p. 200 modifica]

— Il serpente si è scelto un bel rifugio, — disse Alvaro al ragazzo indiano che gli camminava dinanzi. — Siete sicuri che si trovi qui?

— È stato veduto anche ieri, signore, — rispose l’interprete.

— È molto grosso?

— Quanto il vostro corpo.

— È lungo molto?

— Il doppio d’un sucuriù e d’una voracità estrema. È già il sesto indiano che divora.

— Che cosa sarà dunque?

— Un liboia, signore.

— Ha qualche tana in questa foresta?

— Si tiene sempre sugli alberi, anzi quando saremo più innanzi, vi consiglio di guardare sempre in aria. Ha l’abitudine di attorcigliarsi intorno a qualche grosso ramo e di lasciarsi cadere di colpo addosso alla preda.

— Mi guarderò, — disse Alvaro. — E tu Garcia, sta sempre presso di me giacchè sono più che convinto che nel momento del pericolo questi valorosi scapperanno come un branco di conigli.

— E noi ne approfitteremo, è vero signor Alvaro?

— Per fuggire dalla parte opposta, — rispose il portoghese. — Non ci lasceremo sfuggire una così bella occasione. —

In quell’istante il capo, che seguiva quattro dei suoi incaricati ad aprire il passaggio, fece un cenno colla mano.

— Che cosa c’è? — chiese Alvaro al ragazzo indiano.

— Il capo vi avverte che siamo sul luogo ove il rettile è stato veduto e vi consiglia di guardare attentamente gli alberi sotto i quali passerete.

— I miei occhi sono buoni e un serpente di tale mole si scorgerà facilmente.

— Non sempre, signore, potendosi scambiare facilmente per un ramo, in causa della tinta verde cupa del suo dorso. —

Gl’indiani avevano rallentato il passo e non abbattevano più le liane onde il rettile non si spaventasse e fuggisse passando d’albero in albero.

Le scostavano con precauzione o le alzavano finchè i due pyaie erano passati, lasciandole poi ricadere.

Ogni dieci o dodici passi poi si fermavano, guardando attentamente fra le foglie immense delle piante e mettendosi poi in ascolto. [p. 201 modifica]

Un profondo terrore si leggeva sui loro volti e anche la voce del capo aveva un legger tremito che tradiva la sua paura.

Doveva essere ben terribile quel rettile per impressionare quegli uomini che godevano fama di essere i più audaci di tutti gli abitanti del Brasile.

— Hanno paura e che paura! — mormorò Alvaro che se n’era accorto e che li vedeva avanzare sempre più lentamente. — Che abbiano perduta la loro fiducia in me? Eppure il fucile l’ho in mano e hanno veduto come uccide.

Che razza di bestione sarà questo liboia per atterrire questi uomini? Comincio a essere inquieto anch’io. —

Si erano avanzati di altri cinquanta passi, quando fra le folte foglie delle palme si udì a echeggiare un grido stridente che fece tacere di colpo i pappagalli che schiamazzavano sulle più alte cime d’un enorme paiva.

Gl’indiani s’erano arrestati guardandosi intorno e dando segni d’una profonda agitazione.

— Che cos’è? — chiese Alvaro al ragazzo. — Il grido del serpente?

— No signore, dell’anhima.

— Una bestia?

— Un uccello che si tiene sempre presso i luoghi frequentati dai serpenti delle cui carni si nutre. Quell’uccello deve aver scorto il liboia ma non oserà assalirlo. È troppo piccolo per provarcisi e avrebbe subito la peggio.

Un liboia non è già un ibiboca.

— Tanto coraggio ha un uccello per affrontare i serpenti?

— È bene armato signore e coraggioso. Eccolo lassù, fra le foglie di quel paiva: guardatelo. —

Alvaro alzò la testa e scorse, appollaiato su una foglia, un bell’uccello, grosso quanto una ottarda, che aveva sul capo un corno aguzzo e alle estremità delle ali due specie di uncini.

Sbatteva le ali e gridava a piena gola come se avesse voluto chiamare l’attenzione degl’indiani e mostrare loro il luogo dove si teneva celato il formidabile rettile.

— Se è vicino andiamo a cercarlo, — disse Alvaro. — Sono curioso di vedere questo serpente.

Gl’indiani però parevano invece poco disposti a farsi innanzi e guardavano i loro pyaie con visibile inquietudine, come se non sapessero decidersi ad avanzare. [p. 202 modifica]

— Di’ a loro che mi precedano, — disse Alvaro al ragazzo indiano o che se ne tornino se non si sentono in grado di condurmi là dove il liboia si nasconde. Non sono già venuto qui per guardare le piante.

D’altronde che cosa temono? Non possiedo io il fuoco celeste o non sono più Caramurà?

I pyaie dalla pelle bianca hanno promesso di uccidere il rettile e manterranno la parola. —

Quando il ragazzo ebbe tradotte quelle parole, il capo fece un segno ed i suoi uomini si rimisero in cammino tenendo le mazze alzate e le gravatane pronte.

Non avanzavano che con estrema lentezza, guardando ora in alto ed ora al suolo e muovevano le liane ed i rami con molta precauzione, come se il rettile dovesse comparire da un momento all’altro, mentre invece si manteneva sempre invisibile.

— Che questi selvaggi l’abbiano già fiutato? — si chiese Alvaro. — Se camminano a quattro gambe come i cani può darsi che abbiano il fiuto come quegli animali. Teniamoci pronti ad approfittare del loro spavento. Garcia!

— Signore, — rispose il mozzo.

— Hai paura?

— Con voi mai, signor Alvaro.

— Pare che il rettile sia assai vicino. Sta sempre presso di me e preparati a prendere il largo se... —

Un urlo spaventevole gli aveva interrotta la frase. Una specie di cilindro, grosso come il corpo d’un uomo e lungo almeno una cinquantina di metri, colla pelle verde cupa sopra e gialla sotto, a grosse scaglie irregolari e la testa quasi gialla, era improvvisamente caduto da un albero, piombando addosso al capo degli Eimuri che precedeva di qualche passo il drappello.

Il disgraziato indiano era caduto sotto il peso del rettile e prima che avesse avuto il tempo di rialzarsi si era trovato avvolto fra le spire dell’enorme liboia.

Alvaro non badando che al proprio coraggio e dimenticando che quello era il momento migliore per fuggire, s’era slanciato innanzi, mentre i guerrieri invece fuggivano in tutte le direzioni urlando a squarciagola.

— Signore! — gridò il mozzo, cercando di trattenerlo. — Che cosa fate! Fuggiamo anche noi! [p. 203 modifica]

— Sì ma dopo, — rispose l'animoso giovane, alzando il fucile.

Il liboia era spaventevole a vedersi. Quel serpente, che è il più enorme che esista, superando per mole tutti gli altri conosciuti, aveva stretto il disgraziato capo così bene, da non potersi più vedere.

Sibilava rabbiosamente, agitando senza posa la sua lingua biforcuta e vomitava dalla larga bocca armata di due file di denti aguzzi, getti di bava. La sua coda poi, spazzava il suolo con violenza, spezzando liane e cespugli, per impedire che qualcuno si avvicinasse e cercasse di strappargli la preda.

Alvaro aveva alzato il fucile, mirando la testa che si agitava a venti piedi dal suolo.

— Prendi, — gridò, facendo fuoco.

Il rettile, acciecato dal fumo si ripiegò su se stesso, svolgendo le spire e lasciando cadere l'indiano che non dava più segno di vita, poi cominciò a dibattersi con estremo furore e con soprassalti convulsi.

La palla gli aveva fracassata la testa, pure non pareva che ne avesse ancora abbastanza.

— Fuggite, signor Alvaro! — gridò il mozzo che era diventato pallido come un cencio lavato. — Il serpente vi assale ed il capo è morto. —

Il portoghese aveva già spiccati tre o quattro salti per sottrarsi ai colpi di coda che il mostro non cessava di vibrare, fracassando i cespugli e sollevando una grandine di foglie secche e di frammenti di rami.

Si guardò intorno. Tutti erano fuggiti, perfino il ragazzo che gli serviva da interprete.

— Bah! — disse. — Se il capo non è morto, se la caverà come potrà. Andiamocene prima che gl'indiani ritornino. Di corsa, Garcia e cerca di resistere più che potrai. —

Senza più occuparsi del rettile il quale non cessava di dibattersi, i due naufraghi si slanciarono innanzi correndo come lepri.

La foresta d'altronde favoriva la loro fuga. Non era più ingombra di liane e d'altre parassite e gli alberi lasciavano qua e là degli spazi sufficienti per permettere il passaggio ad un uomo.

E poi le tenebre calavano rapidamente, essendo il sole già tramontato, quindi un inseguimento, almeno pel momento, collo spavento che doveva aver invaso i guerrieri per la morte del capo, non era da temersi. [p. 204 modifica]

Non volevano però i due fuggiaschi allontanarsi di troppo per non smarrirsi in quella immensa foresta che non avevano mai percorsa, sicchè dopo qualche migliaio di metri si arrestarono alla base di uno di quegli immensi alberi che si trovano di frequente nelle foreste brasiliane, alti non meno di ottanta metri e le cui radici uscendo da terra, formano una specie di tripode che sostiene l’enorme tronco e che possono facilmente servire come di travatura ad una capanna.

— Non andiamo più oltre, — disse Alvaro con voce affannosa. — Questa impenetrabile vòlta di verzura che ci nasconde le stelle, non ci permette di guidarci mentre noi dobbiamo dirigerci verso ponente se vogliamo raggiungere la savana sommersa.

La nostra salvezza sta nelle mani di Diaz e dobbiamo assolutamente trovare quell’uomo.

— Sarà ancora vivo?

— Non ne dubito, Garcia, — rispose Alvaro. — Ha il tuo fucile e munizioni abbondanti e con una tale arma si vincono anche le fiere.

— Se ci avesse abbandonati?

— Lui! No, è impossibile, non lo crederei mai.

— Che possa essersi accorto che gli Eimuri ci hanno sorpresi e rapiti?

— Ne ho la persuasione. Diaz non ha nulla da invidiare ai selvaggi, anzi io credo valga bene più di loro. Scommetterei che sta cercandoci o che sta studiando il mezzo di liberarci.

— E gli Eimuri non ci daranno nuovamente la caccia? — chiese il mozzo che non condivideva l’ottimismo del compagno.

— Probabilmente ci crederanno morti come il loro capo.

— Ditemi, signor Alvaro, era proprio morto il capo? Mi parve che respirasse ancora.

— Andremo ad assicurarcene.

— Vorreste tornare là dove avete ferito o ucciso quel terribile rettile?

— Certo, Garcia. Mi preme assai accertarmi se il capo è vivo o morto.

Se il liboia, come spero, lo ha stritolato, per un po’ di tempo nulla avremo da temere da parte della tribù.

Diaz mi ha narrato che i selvaggi privi del loro capo nulla sanno intraprendere finchè non ne nominano un altro e che la scelta va per le lunghe. Se l’Eimuro è sfuggito incolume [p. 205 modifica]alla stretta del liboia non si ammetterà facilmente la nostra morte.

Era eccessivamente sospettoso quell’uomo e ci teneva troppo ad avere due pyaie bianchi e soprattutto all’Uomo di fuoco.

— Quando torneremo?

— Aspettiamo che la luna si alzi e che rischiari un po’ questa foresta.

Se non m’inganno deve spuntare verso la mezzanotte, abbiamo quindi tempo per riposarci.

Se vuoi dormire qualche ora approfitta, ragazzo mio; alla tua età si ama sempre il sonno.

— Grazie, signore, — rispose Garcia sdraiandosi dietro una di quelle enormi radici. — Poi vi surrogherò nella guardia. —

Mentre il mozzo chiudeva gli occhi, Alvaro s’appoggiò col dorso ad un’altra radice, mettendosi il fucile fra le gambe.

Un silenzio profondo regnava nella foresta. Non si udivano nè batraci, nè parraneca, nè sapò; invece fra le foglie immense delle palme piumate volavano a battaglioni le splendide e scintillanti vaga lume, quelle graziose lucciole che tramandano una luce così intensa da poter leggere, senza fatica alcuna, il carattere più minuto.

Pareva che quella parte della boscaglia non fosse abitata da alcun animale e già Alvaro, rassicurato da quella calma stava, a sua volta, per socchiudere gli occhi, quando un fruscìo di foglie lo fece balzare in piedi col fucile in mano.

— Calma traditrice, — mormorò. — E stavo per addormentarmi! Quale imprudenza commettevo! —

Il fruscìo continuava e proveniva da una macchia foltissima di jupati, superbe palme che hanno un tronco appena visibile mentre le loro foglie raggiungono sovente l’incredibile lunghezza di quaranta e anche più piedi.

— Chi sarà che muove quelle foglie? — si chiese Alvaro.

Si spinse innanzi per cercare di scoprire quell’essere misterioso che s’avanzava con precauzione, ma l’oscurità era ancora troppo fitta, cominciando appena allora la luna a diffondere un po’ di luce nel cielo.

— Che sia qualche Eimuro che ci cerca? — si domandò nuovamente Alvaro. —

Stava per svegliare il mozzo, quando scorse, sotto una di quelle immense foglie, due punti fosforescenti a luce verdastra. [p. 206 modifica]

— Ah! Diavolo! — brontolò Alvaro. — È un animale che ha gli occhi d’un gatto. Sarà qualche felino e chissà, una di quelle bestie che abbiamo veduto presso quel fiume.

Cattivo vicino, se è affamato. —

Senza voltarsi e senza lasciare il fucile che aveva già puntato verso quei due punti luminosi, con un piede urtò il mozzo dicendogli:

— Su, Garcia... svegliati. —

Il ragazzo che dormiva con un solo occhio, da vero marinaio, fu pronto ad alzarsi.

— Che cosa c’è signore? — chiese. — Un altro liboia?

— Pare che sia un grosso gattone, — rispose Alvaro.

— Ah! I brutti occhi! — esclamò il mozzo. — E sono fissi su di noi, signore.

— Ma non osano avanzarsi.

— Voi che siete un valente tiratore, mandate una buona palla a quella bestia.

— Per attirare l’attenzione degli Eimuri? E chi mi assicura che non stiano cercandoci? No, almeno fino a che quella bestiaccia non ci assale. —

La belva, giacchè doveva essere tale, conservava una immobilità assoluta, senza stornare gli sguardi dai due naufraghi.

Passarono così parecchi minuti, poi i due punti luminosi improvvisamente scomparvero e nel silenzio della notte s’udì a echeggiare sinistramente un rauco miagolìo che terminò in una specie di ululato che fece raggrinzare la pelle al mozzo.

Per alcuni istanti si udirono le foglie a scrosciare, poi ogni rumore cessò.

— Che abbia avuto paura del vostro fucile, signore? — chiese Garcia.

— Certo, qualcuno lo avrà avvertito che io sono l’Uomo di fuoco, — rispose Alvaro, ridendo. — La mia fama è giunta perfino agli orecchi delle belve.

— Il fatto è che quell’animale se n’è andato.

— Purchè non cerchi invece di sorprenderci? Noi però non passeremo accanto a quel macchione, anzi volgeremo le spalle.

La luna s’innalza. Andiamo, Garcia. Mi preme sapere che cosa è avvenuto del capo degli Eimuri. —

Stettero qualche istante in ascolto e non udendo più alcun rumore, lasciarono l’albero, avviandosi lentamente verso il luogo dove il liboia aveva assalito il capo. [p. 207 modifica]

Si fermavano però di frequente per guardarsi alle spalle, temendo di essere seguiti da quella belva che poteva essere pericolosissima e capace di assalirli.

Dopo un quarto d’ora notarono alcune grosse piante che avevano già osservate quando stavano per affrontare il liboia.

— Se non m’inganno dobbiamo trovarci presso la radura, — disse Alvaro.

— È vero, signore, — rispose Garcia. — Ecco qui quella pianta carica di zucche che avevo ben guardata.

— Sì, una cuiera, come ho udito a chiamare questi alberi dal marinaio.

— Ed ecco la radura.

— Avanziamoci con precauzione, Garcia. Gli Eimuri possono essere tornati.

— Non odo nulla, signore. —

Si spinsero innanzi, tendendo gli orecchi e guardandosi d’attorno, timorosi d’una sorpresa e raggiunsero la radura che la luna illuminava sufficientemente, essendosi già ben alzata in cielo.

Scorsero subito, disteso fra un ammasso di cespugli fracassati e sradicati, l’enorme serpente.

Era perfettamente immobile e giaceva tutto allungato come un immenso cilindro.

— È morto, — disse Alvaro, avvicinandosi con precauzione. — La mia palla doveva avergli attraversato il cervello.

— E manca della testa, signore, — disse Garcia. — È stata troncata con qualche scure di pietra.

— Allora gl’indiani sono tornati qui: ed il capo? L’hanno raccolto morto o ferito? Diavolo! Sarei più contento se non fosse più nel numero dei viventi. Come faremo a saperlo? Eccoci in un bell’impiccio. —

Si era appena rivolte quelle domande, quando a breve distanza, udì improvvisamente a risuonare quel rauco miagolìo e l’ululato, poi subito dopo una voce umana che gridava.

Dios! Dios!

Alvaro aveva fatto un salto innanzi esclamando:

— Il marinaio! Garcia, seguimi! La belva lo ha assalito!