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216 Capitolo Ventiduesimo.

Mi ero nascosto su un albero quando vi vidi giungere col capo degli Eimuri ed i suoi guerrieri e assistetti alla terribile scena col gigantesco liboia.

— È morto il capo?

— No e può ringraziarvi del vostro colpo di fucile. Il rettile, ferito mortalmente, aveva subito svolte le spire prima di aver avuto il tempo di stritolarlo.

— Ed è fuggito?

— Sì, dopo d’aver tagliata la testa al liboia.

— Sarebbe stato meglio per noi che fosse morto. Quell’uomo si metterà in cerca dei suoi pyaie.

— È qui che sta il pericolo, — disse il marinaio. — Noi dobbiamo raggiungere assolutamente la savana sommersa e rifugiarci sull’isolotto che ho scoperto.

— E attendere colà la vostra guarigione, — disse Alvaro. — Ne avrete per un paio di settimane se non di più. È lontana la savana?

— Fra un paio d’ore vi potremo giungere.

— Allora ripartiamo senza indugio. Forse a quest’ora gli Eimuri hanno scoperte le nostre tracce.

— Potrete resistere?

— Garcia è più robusto di quello che supponevo. Lasciateci mangiare un po’ di quelle frutta e poi partiremo. —

Il mozzo tornava appunto in quel momento portando alcune dozzine di quella specie di mele ed un bel grappolo di quelle piccole banane gialle chiamate d’oro, assai più gustose delle banane de plata che si usa mangiarle fritte.

Ne divorarono alcune, poi rialzarono la barella e si riposero in marcia, seguendo le indicazioni che dava il marinaio, il quale al pari degl’indiani aveva imparato a dirigersi anche in mezzo alle più folte foreste, senza bisogno della bussola.

Quando trovavano qualche pianta carica di frutta mangiabili, s’arrestavano per fare una buona raccolta, non potendo pel momento contare sulla selvaggina che si ostinava a non mostrarsi in quella parte della foresta, quantunque fosse da tutti desiderato un pezzo d’arrosto.

— Ne troveremo sulle rive della palude, — rispondeva il marinaio vedendo Alvaro arrabbiarsi.

— Non è già per me bensì per voi che non potrete rinforzarvi con delle frutta. Ci vorrebbe un po’ di brodo.