L'Uomo di fuoco/20. L'Uomo di fuoco

20. L'Uomo di fuoco

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19. Le vittime della guerra 21. La fuga
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CAPITOLO XX.

L’Uomo di fuoco.


Cominciavano ad averne fino sopra i capelli della loro carica ed a sentire un intenso desiderio di libertà.

Erano già sei giorni che si trovavano nelle mani di quei ributtanti selvaggi, confinati nella loro capanna, dalla quale non potevano uscire che per assistere a banchetti di carne umana, avendo fatto gli Eimuri, nelle loro ultime scorrerie, buon numero di prigionieri Tamoi, Tupy e Tupinambi, e non ne potevano più di quella esistenza.

Avevano dapprima sperato nel marinaio, ma invece non avevano avuto più nessuna nuova di lui. Era stato ucciso e divorato da qualche altra colonna di Eimuri, o disperando di poterli salvare, aveva continuata la sua fuga per raggiungere le orde dei Tupinambi? Mistero.

— Andiamocene, signore, — ripeteva da mane a sera il mozzo.

— Sì, andiamocene, — rispondeva invariabilmente Alvaro.

Ma il mezzo non si era mai presentato. I selvaggi, che dovevano diffidare, non avevano mai cessato di sorvegliarli e tutte le sere un certo numero di guerrieri si sdraiava intorno alla capanna per impedire qualsiasi evasione.

Eppure i due naufraghi erano convinti che così non la potesse durare a lungo.

Quella carica di celebri stregoni, non andava troppo a sangue a loro e ne avevano perfino di troppo.

Il settimo giorno stava per passare non meno allegro degli altri, quando dopo il mezzodì videro improvvisamente entrare il capo degli Eimuri, seguito dal ragazzo che serviva da interprete.

— Ci deve essere qualche novità, — disse Alvaro al mozzo. — Dopo l’uccisione del tupy è la prima volta che l’Eimuro si degna di farci una visita. —

Il capo pareva assai preoccupato e di cattivo umore. Salutò nondimeno i due pyaie toccando il suolo colla punta della lingua, poi fece cenno al ragazzo di parlare.

— Che cosa vuole il capo? — chiese Alvaro. [p. 191 modifica]

— Egli si lamenta che i due pyaie non proteggono, come dovrebbero, la tribù, — rispose il ragazzo. — E mi dice di avvertirvi che se non ucciderete quel terribile serpente, vi mangerà.

— Diavolo! — esclamò Alvaro, un po’ impressionato. — Che la carne bianca lo tenti? Già non mi tenevo molto sicuro anche colla carica impostaci. Di che cosa si tratta dunque?

— D’un terribile serpente che ha già divorato cinque guerrieri della tribù, — rispose il ragazzo.

— E che cosa si vorrebbe da noi?

— Di fare degli scongiuri onde il rettile ritorni nella savana da cui è uscito o che lo uccidiate.

— Una cosa molto facile a farsi, — rispose Alvaro. — Gli è che ci mancano i nostri amuleti.

— Quali? — chiese il ragazzo, dopo d’aver scambiato alcune parole col capo.

— Quando ci hanno fatti prigionieri noi avevamo degli amuleti possenti che gli Eimuri non ci hanno più restituiti.

Che ce li portino e noi andremo a uccidere quel terribile serpente che minaccia la distruzione della tribù.

— Li avrete, — rispose il ragazzo. — Il capo li ha conservati e ve li consegnerà.

— Quando dovremo andare ad uccidere il serpente?

— Questa sera, non mostrandosi mai di giorno.

— Dirai al capo che i pyaie saranno pronti e che il serpente non divorerà più gli uomini della sua orda. —

L’Eimuro, visibilmente soddisfatto per quelle risposte, si ritirò assieme al ragazzo, facendo un inchino più profondo di prima e leccando il pavimento della capanna.

— Garcia! — disse Alvaro, quando furono soli. — L’occasione che aspettavamo è venuta, e, se non saremo capaci di approfittarne, dovremo rinunciare per sempre a riacquistare la libertà.

Io sono pronto a tentare la sorte od a fare un gran colpo. Non sarà il serpente che cadrà, bensì il capo di questi mangiatori di carne umana, dovesse poi farmi inseguire attraverso tutto il Brasile.

— Che ci restituiscano il fucile?

— Me l’hanno promesso e poi non s’immaginano di certo che sia un’arma ben più terribile delle loro mazze e delle loro frecce.

— Ed è il serpente? [p. 192 modifica]

— Se lo ammazzino loro, se ne avranno il coraggio.

— E dopo, signore?

— Fuggiremo e riprenderemo la nostra vita randagia, finchè avremo ritrovato il marinaio o la sua tribù.

— Signor Alvaro, mi trema il cuore.

— Se rimanessimo qui, un dì o l’altro questi selvaggi finirebbero per divorarci. Un arrosto di carne bianca li tenta e mi stupisco che ci abbiano finora risparmiati.

Non lasciamoci illudere dalla nostra carica che non ci offre alcuna sicurezza.

— Che cosa avete intenzione di fare?

— Non lo so ancora, ma qualche cosa accadrà ed il capo non tornerà più vivo fra i suoi.

Sono deciso a tutto o... —

Una detonazione improvvisa, che rimbombò sulla piazza, lo fece sobbalzare. Grida selvagge, improntate del più profondo terrore, echeggiavano da tutte le parti.

Alvaro e Garcia si erano precipitati verso la porta.

Dei guerrieri fuggivano a rompicollo nascondendosi entro le capanne o rifugiandosi nella foresta, mentre in mezzo alla piazza, ancora circondato da una nuvola di fumo, giaceva un cadavere.

— Hanno scaricato il fucile! — esclamò Alvaro. — Vi è un morto laggiù.

— Che incolpino ora noi della disgrazia, signore? — chiese Garcia.

— Vedo il fucile presso quel morto e anche il bariletto delle munizioni ed i sacchetti delle palle. Approfittiamo della fuga dei selvaggi per impadronircene.

Con un’arma da fuoco nelle mani, potremo tener testa a questi bruti. —

Seguito dal mozzo si diresse verso il centro della piazza dove giaceva il cadavere e s’impadronì del fucile caricandolo precipitosamente.

L’indiano che aveva fatto partire la scarica, era stato ucciso sul colpo. Aveva ricevuto la palla in un occhio e la scatola ossea era stata attraversata dal grosso proiettile, uscendo dietro la nuca.

Vedendo comparire i due pyaie, alcune teste cominciavano a mostrarsi, ma nessuno osava ancora uscire.

Quello sparo e la morte fulminante del selvaggio, doveva aver [p. 193 modifica]Si era trovato avvolto fra le spire del serpente.... (Cap. XXI). [p. 195 modifica]prodotta una immensa impressione su quegl’indiani che in quell’epoca non conoscevano le armi da fuoco e che come tutti i popoli primitivi, avevano una grande paura del tuono.

— Signor Alvaro, — disse il mozzo. — Se noi approfittassimo dello spavento che ha invaso questi selvaggi per mettere in moto le nostre gambe?

— Non ci lascerebbero andare, ragazzo mio, e ben presto li avremmo tutti addosso. No, questo non è il momento di fuggire nè di commettere imprudenze.

Ah! Ecco il giovane indiano che viene verso di noi. Non è meno spaventato degli altri, quel povero diavolo. —

L’interprete era uscito da una capanna e s’avanzava timidamente verso di loro, mentre dietro di lui tuonava la voce rauca del capo.

Era pallidissimo e tremava come una foglia mossa dal venticello.

— Non aver paura, — gli disse Alvaro, sorridendo. — Nessuno ti ucciderà.

— Signore, — balbettò il ragazzo che guardava con uno spavento impossibile a descriversi il fucile che Alvaro teneva fra le mani. — Il capo mi manda a chiedervi chi è che ha cagionata la morte di quel guerriero.

— Quell’uomo ha voluto toccare il potente amuleto dato dal grande Manitou ai pyaie bianchi ed è morto.

Gli uomini rossi non posseggono il fuoco del cielo.

— Quel tuono e quel getto di fuoco stanno rinchiusi nella gravatana che tenete fra le mani?

— Sì, sono qui dentro.

— E uccidono?

— Lo hai veduto. Che cosa aveva fatto quel guerriero?

— Voleva vedere ciò che conteneva la vostra gravatana ed è subito caduto fra una nube di polvere, mentre scoppiava un tuono spaventevole simile a quello che si vede quando infuriano le tempeste.

— È stato un imprudente ed il grande Manitou lo ha punito. Egli non doveva vedere ciò che conteneva l’amuleto dei pyaie dalla pelle bianca.

Va a dire al capo che venga ed io gli mostrerò la potenza di questa gravatana, se ti piace chiamarla così.

— Non ucciderà più nessuno? [p. 196 modifica]

— Sì, il serpente che ha divorato i guerrieri del capo, — rispose Alvaro.

Il ragazzo si era diretto, correndo, verso la capanna da cui era uscito e poco dopo tornava seguito dal capo e da parecchi guerrieri. Erano però anche essi in preda ad un vivissimo spavento e guardavano sospettosamente i due pyaie e soprattutto quella terribile arma che ispirava ormai un terrore superstizioso, ed invincibile.

Incoraggiati però dalla immobilità e dai sorrisi di Alvaro, a poco a poco formarono attorno a lui un circolo, tenendosi tuttavia sempre a rispettosa distanza.

— Di’ al capo di condurre qui qualche animale, se ne ha qualcuno, — disse Alvaro al ragazzo.

— Che cosa vuoi fare?

— Mostrare al capo come si uccide. —

Il ragazzo scambiò alcune parole coll’Eimuro, poi disse:

— Il capo ti offre uno dei suoi prigionieri. Ne ha ancora una dozzina.

— Mi conduca un animale o non vedrà nulla. Sono i pyaie che comandano in questo momento. —

Alcuni indiani, ai quali il ragazzo aveva tradotta la risposta del portoghese, si diressero verso la foresta dove, forse in qualche recinto, tenevano degli animali destinati a surrogare i prigionieri di guerra quando questi mancavano.

Pochi minuti dopo Alvaro li vide ritornare spingendo innanzi a loro uno strano animale che rassomigliava ad un porco, grosso però più del doppio, con una testa assai accuminata che terminava in una piccola proboscide mobilissima.

Se Alvaro avesse avuto miglior conoscenza cogli animali che abitavano le foreste brasiliane, avrebbe subito riconosciuto in quella specie di porco un tapiro, un essere affatto inoffensivo, che vive per lo più nelle foreste umide o nei pressi delle savane, essendo amante delle canne palustri e delle radici delle piante acquatiche.

Il povero animale, come fosse consapevole della sorte che lo attendeva, cercava di ribellarsi e ricalcitrava, ma gl’indiani a furia di legnate e di calci lo spinsero verso il tronco d’una palma legandovelo solidamente con delle liane.

Alvaro fece cenno ai selvaggi di ritirarsi, si avanzò fino a cinquanta passi della pianta e dopo d’aver pronunciato alcune [p. 197 modifica]parole misteriose e d’aver alzato replicatamente le mani verso il cielo come se invocasse l’assistenza del gran Manitou, signore della terra e del fuoco, puntò il fucile mirando attentamente.

Un profondo silenzio regnava fra gli Eimuri, il cui numero era triplicato. Sui loro visi si leggeva una estrema ansietà.

Anche il capo pareva profondamente impressionato e guardava con un misto di spavento e d’ammirazione superstiziosa quell’arma che mandava fumo, fuoco e tuono.

Ad un tratto una detonazione rimbombò, strappando ai selvaggi un urlo di spavento.

Alcuni si erano dati a fuga precipitosa, turandosi gli orecchi, altri si erano lasciati cadere al suolo e si rotolavano fra la polvere.

Il capo però ed alcuni altri coraggiosi si erano invece slanciati verso l’albero alla cui base si dibatteva, fra le ultime convulsioni della morte, il disgraziato tapiro.

Quando lo videro esalare l’ultimo sospiro e si furono ben convinti che nessuna freccia lo aveva colpito, tesero le braccia verso Alvaro, gridando a squarciagola:

Caramurà! Caramurà!

Caramurà! — esclamò Alvaro. — Io ho udito ancora questo grido.—

Si volse verso il ragazzo indiano che gli stava presso, guardandolo con due occhi strambuzzati, pieni di terrore.

— Che cosa vuol dire Caramurà? — gli chiese.

— L’Uomo di fuoco, signore, — balbettò il ragazzo. — Forse che voi non siete il padrone del fuoco?

— Ecco un titolo che mi renderà temuto fra tutte le tribù brasiliane, — disse Alvaro ridendo. — La mia fama è ormai assicurata.

Va ora a dire al capo, che il signor Caramurà è pronto a uccidere il serpente che divora i suoi guerrieri e che... — continuò poi, curvandosi verso Garcia e abbassando la voce, — giuocherà anche di gambe. —

Il capo, seguito da alcuni guerrieri, si era accostato a poco a poco ad Alvaro, tutto umile e tremante.

— Tu sei il pyaie più possente di quanti ne esistono, — gli fece dire dall’interprete. — Quello che possedevano i Tupinambi — che io avevo fatto inseguire per averlo come mio pyaie, non è nulla a paragone di te.

D’ora innanzi tu rimarrai sempre con noi e comanderai come un capo. [p. 198 modifica]

Coll’Uomo di fuoco, noi saremo invincibili e non ci mancheranno più prigionieri da divorare.

— Il birbante, — disse Alvaro a Garcia, quando il giovane indiano ebbe tradotte le parole del capo. — Ci nomina provveditori di carne umana! Aspetta questa sera e vedremo se domani avrai ancora i due pyaie dalla pelle bianca.

— Fuggiremo dunque questa sera, signore? — chiese il mozzo.

— Sono deciso. Approfittiamo dello spavento che ha prodotto il nostro fucile.

— E andremo in cerca del marinaio?

— Quell’uomo ci è più che mai necessario e poi ha il tuo fucile. Con due armi da fuoco noi diverremo invincibili e tenteremo anche la traversata dell’America fino agli stabilimenti spagnuoli.

Non ho alcun desiderio di finire la mia vita fra questi ributtanti antropofagi.

Andiamo a cenare, per ora, poi penseremo al serpente. —

Al capo ed ai suoi guerrieri che si curvavano fino a terra, fece un superbo gesto d’addio e tornò nella capanna, dopo aver avvertito il ragazzo che aspettava la cena prima di mettersi in caccia.

Il rispetto e la paura avevano fatto diventare gli Eimuri straordinariamente generosi. Pesci di ogni specie, pappagalli e tucani arrostiti e aromatizzati con certe erbe, ceste ricolme di gallette di mandioca, tuberi cucinati sotto la cenere e frutta d’ogni sorta, coprirono ben presto tutto il pavimento della capanna.

Tutti i più famosi guerrieri correvano a offrire qualche cosa al terribile pyaie possessore della folgore celeste.

— Che vogliano ingrassarci per poi divorarci? — disse Alvaro, ridendo. — Questa improvvisa abbondanza non mi garba troppo.

— Non oserebbero, signore, — disse Garcia. — Ora devono essere convinti che noi siamo due veri pyaie e ci adorano come due divinità.

— Eh! Conta tu sull’adorazione di questa gente! Non mi stupirei se giungesse al punto da mettere indosso a loro il desiderio di provare la carne degli dei.

No, è meglio andarsene, mio caro ragazzo, e rinunciare a tutta questa abbondanza.

Orsù, pranziamo e poi andremo a fare il nostro giuoco. Il serpente se lo ammazzeranno loro.