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202 | Capitolo Ventunesimo. |
— Di’ a loro che mi precedano, — disse Alvaro al ragazzo indiano o che se ne tornino se non si sentono in grado di condurmi là dove il liboia si nasconde. Non sono già venuto qui per guardare le piante.
D’altronde che cosa temono? Non possiedo io il fuoco celeste o non sono più Caramurà?
I pyaie dalla pelle bianca hanno promesso di uccidere il rettile e manterranno la parola. —
Quando il ragazzo ebbe tradotte quelle parole, il capo fece un segno ed i suoi uomini si rimisero in cammino tenendo le mazze alzate e le gravatane pronte.
Non avanzavano che con estrema lentezza, guardando ora in alto ed ora al suolo e muovevano le liane ed i rami con molta precauzione, come se il rettile dovesse comparire da un momento all’altro, mentre invece si manteneva sempre invisibile.
— Che questi selvaggi l’abbiano già fiutato? — si chiese Alvaro. — Se camminano a quattro gambe come i cani può darsi che abbiano il fiuto come quegli animali. Teniamoci pronti ad approfittare del loro spavento. Garcia!
— Signore, — rispose il mozzo.
— Hai paura?
— Con voi mai, signor Alvaro.
— Pare che il rettile sia assai vicino. Sta sempre presso di me e preparati a prendere il largo se... —
Un urlo spaventevole gli aveva interrotta la frase. Una specie di cilindro, grosso come il corpo d’un uomo e lungo almeno una cinquantina di metri, colla pelle verde cupa sopra e gialla sotto, a grosse scaglie irregolari e la testa quasi gialla, era improvvisamente caduto da un albero, piombando addosso al capo degli Eimuri che precedeva di qualche passo il drappello.
Il disgraziato indiano era caduto sotto il peso del rettile e prima che avesse avuto il tempo di rialzarsi si era trovato avvolto fra le spire dell’enorme liboia.
Alvaro non badando che al proprio coraggio e dimenticando che quello era il momento migliore per fuggire, s’era slanciato innanzi, mentre i guerrieri invece fuggivano in tutte le direzioni urlando a squarciagola.
— Signore! — gridò il mozzo, cercando di trattenerlo. — Che cosa fate! Fuggiamo anche noi!