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La fuga.. | 201 |
Un profondo terrore si leggeva sui loro volti e anche la voce del capo aveva un legger tremito che tradiva la sua paura.
Doveva essere ben terribile quel rettile per impressionare quegli uomini che godevano fama di essere i più audaci di tutti gli abitanti del Brasile.
— Hanno paura e che paura! — mormorò Alvaro che se n’era accorto e che li vedeva avanzare sempre più lentamente. — Che abbiano perduta la loro fiducia in me? Eppure il fucile l’ho in mano e hanno veduto come uccide.
Che razza di bestione sarà questo liboia per atterrire questi uomini? Comincio a essere inquieto anch’io. —
Si erano avanzati di altri cinquanta passi, quando fra le folte foglie delle palme si udì a echeggiare un grido stridente che fece tacere di colpo i pappagalli che schiamazzavano sulle più alte cime d’un enorme paiva.
Gl’indiani s’erano arrestati guardandosi intorno e dando segni d’una profonda agitazione.
— Che cos’è? — chiese Alvaro al ragazzo. — Il grido del serpente?
— No signore, dell’anhima.
— Una bestia?
— Un uccello che si tiene sempre presso i luoghi frequentati dai serpenti delle cui carni si nutre. Quell’uccello deve aver scorto il liboia ma non oserà assalirlo. È troppo piccolo per provarcisi e avrebbe subito la peggio.
Un liboia non è già un ibiboca.
— Tanto coraggio ha un uccello per affrontare i serpenti?
— È bene armato signore e coraggioso. Eccolo lassù, fra le foglie di quel paiva: guardatelo. —
Alvaro alzò la testa e scorse, appollaiato su una foglia, un bell’uccello, grosso quanto una ottarda, che aveva sul capo un corno aguzzo e alle estremità delle ali due specie di uncini.
Sbatteva le ali e gridava a piena gola come se avesse voluto chiamare l’attenzione degl’indiani e mostrare loro il luogo dove si teneva celato il formidabile rettile.
— Se è vicino andiamo a cercarlo, — disse Alvaro. — Sono curioso di vedere questo serpente.
Gl’indiani però parevano invece poco disposti a farsi innanzi e guardavano i loro pyaie con visibile inquietudine, come se non sapessero decidersi ad avanzare.