L'Uomo di fuoco/19. Le vittime della guerra

19. Le vittime della guerra

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18. I pyaie bianchi 20. L'Uomo di fuoco
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CAPITOLO XIX.

Le vittime della guerra.

Quell’abitazione, che aveva forse prima servito di dimora al pyaie della tribù distrutta o fugata dagli Eimuri, era molto più spaziosa dell’altra, e molto più oscura non avendo che un piccolo pertugio aperto nel letto e le pareti senza fessure.

Anche a prima vista si capiva che doveva essere stata abitata da qualche stregone pel numero infinito di amuleti appesi alle travi del tetto, di collane d’ogni specie formate per lo più di denti d’animali e di vertebre di serpenti che s’incrociavano bizzarramente, formando degli strani trofei.

Quello però che aveva subito attratto l’attenzione dei due naufraghi era stata una collezione di teste umane che ornava la parete trovantesi di fronte alla porta e che erano meravigliosamente conservate.

Al pari dei maori della Nuova Zelanda, i selvaggi brasiliani ci tenevano ad avere le teste dei capi nemici che erano caduti sul campo di battaglia o che avevano divorati.

Per conservarle non ricorrevano, come gl’isolani del grand’Oceano Pacifico al fuoco ed al vapore acqueo.

Ne levavano prima il cervello, che come si può ben immaginare non gettavano via, essendo un boccone troppo squisito e troppo ricercato da quei ributtanti mangiatori di carne umana, poi immergevano la testa in una pentola ripiena d’olio amaro vegetale, conosciuto sotto il nome di antiroba, quindi le esponevano per qualche tempo al fumo.

In seguito levavano gli occhi mettendo invece al loro posto due denti incisivi d’un roditore, cucivano le labbra e ornavano gli orecchi con fiocchetti formati da ciuffi di penne gialle o nere.

La collezione del defunto pyaie era abbastanza ricca, componendosi di una ventina di teste e tutte benissimo conservate. [p. 183 modifica]

Quello invece che difettava era il mobilio. Non vi erano che delle amache di cotone filato grossolanamente, delle zucche vuote, delle noci di cocco che dovevano servire da vasi, e tre o quattro coppe che trasudavano acqua in quantità, lasciandola raccogliersi entro un recipiente d’argilla di dimensione enormi.

Sembrerà strano eppure quasi tutti i selvaggi brasiliani avevano una cura estrema nella scelta dell’acqua e per ottenerla leggera e pura da ogni sedimento, facevano uso di certi vasi porosi che servivano ottimamente da filtri.

— Come la trovi la nostra casa? — chiese Alvaro al mozzo, dopo aver visitato tutti gli angoli.

— È un po’ oscura, signore e poi, quelle teste che pare ci sogghignino non la rendono troppo allegra. A chi apparterranno?

— A gente divorata, suppongo.

— Potevano mangiare anche quelle teste senza mettercele qui. Ma, dite signor Alvaro, spero che non avrete già l’idea di prolungare per molto tempo il vostro ufficio di stregone. Io ne ho già abbastanza e vorrei tornarmene nei grandi boschi.

— Provati, ragazzo mio, — rispose il portoghese. — Io non te lo impedirò.

— Se potessi non me lo farei dire due volte, signore.

— Per ora accontentiamoci di essere pyaie, mio povero Garcia. Anch’io non ho già il desiderio di rimanere sempre fra questi antropofagi che non m’ispirano fiducia alcuna. Diaz ci farà avere, in qualche modo, sue notizie. A quest’ora deve essersi immaginato che noi ci troviamo nelle mani degli Eimuri.

— Che ci sorveglino anche di notte, questi selvaggi?

— Non ne dubito. Non si fideranno di noi e terranno un occhio aperto.

E poi anche fuggendo, che cosa potremmo fare ora che siamo senza fucili.

Se potessi riavere il mio e anche le munizioni! E perchè no?

Qui le armi da fuoco sono sconosciute e forse potremo farci consegnare l’uno e le altre.

Ah! La bell’idea! Daremo ad intendere a questi bricconi che sono amuleti potenti per vincere i nemici.

In quell’istante udirono al di fuori echeggiare dei suoni acuti che parevano mandati da alcuni pifferi e un fragor strano come [p. 184 modifica]se migliaia di sassolini sbattessero contro le pareti sonore di qualche istrumento.

— La musica! — esclamò Garcia. — Che gli Eimuri vengano a offrirci un concerto? Veramente io avrei preferita una colazione. —

Si affacciarono alla porta e videro una dozzina di selvaggi dirigersi verso la loro capanna, preceduti dal giovane tupinambi che serviva d’interprete.

Quattro suonavano certi flauti che parevano formati con tibie umane e due altri agitavano certe frutta legnose che dovevano essere state quasi riempite di sassolini.

Un settimo invece portava una specie di astuccio di pelle, abbellito da grani d’oro e da conchigliette e gli altri dei cesti che parevano assai pesanti.

— Che cosa vogliono questi uomini? — chiese Alvaro al ragazzo indiano.

— Consegnarti innanzi a tutto il tushana del capo e affidarlo alla tua vigilanza...

— Il tushana! Che cos’è?

— Lo scettro della tribù. Gli altri ti portano la colazione e anche dell’eccellente taroba che era stato preparato appositamente dalle più vecchie donne degli Eimuri, pel defunto pyaie.

— Metti in un canto il tuo tushana che per ora non c’interessa e fa’ posare la colazione. I pyaie bianchi non vivono già d’aria. —

Il ragazzo lo guardò un po’ sorpreso, prese poi il tubo contenente lo scettro che depose sotto le teste conservate, poi fece mettere a terra i canestri.

Alvaro con un gesto congedò musicanti e portatori e si mise a levare ciò che contenevano i pagara, paventando che potesse trovarsi dentro qualche pezzo d’arrosto umano.

I cuochi del capo, avvertiti che i pyaie dalla pelle bianca non potevano mangiare che nemici della loro razza, avevano surrogata la carne umana con una magnifica traira, un pesce che abbonda nelle savane sommerse, con delle gallette di mandioca e con dei banani cucinati sotto la cenere.

Vi avevano poi aggiunti due grossi vasi pieni di un liquido lattiginoso che esalava un acuto odore d’alcool.

— All’attacco, Garcia, — disse, con voce allegra. — L’arrosto umano non figura nella minuta, nè bianco, nè nero, nè rosso. — [p. 185 modifica]

Per nulla inquietati dalla presenza del ragazzo, si misero a mangiare con appetito invidiabile, poi servendosi di due cornetti fatti con foglie di palma si provarono ad assaggiare il taroba.

— Non c’è male, — disse Alvaro. — Non credevo che questi antropofagi fossero capaci di fabbricare dei liquori.

Ma, ora che mi rammento, aveva già parlato del taroba e...

— E anche di denti di vecchie, signore, — disse Garcia.

Caracho!... Sì, di denti... — rispose Alvaro, lasciando cadere il cornetto. — Ehi, ragazzo, si può conoscere la ricetta usata per fabbricare questo liquore?

— Non vi piace? — chiese il giovane indiano.

— Ti domando da che cosa lo ricavano.

— Dai tuberi di mandioca, signore, — rispose l’indiano. — Si fanno prima bollire, poi si danno a masticare alle donne più vecchie della tribù...

— Dici! — esclamò Alvaro, che si sentiva rivoltare le budelle.

— Poi quando li hanno bene triturati, si fanno nuovamente ribollire, si mettono entro vasi e si lasciano fermentare sepolti nella terra umida.

— Puah! E questa porcheria la bevete? Garcia, butta fuori questi vasi! Alla malora il taroba! Questi indiani sono dei veri porci!

— Perchè dite ciò? — chiese l’indiano.

— Io bere questa porcheria, masticata prima dalle vecchie!

— Ma signore, se i tuberi non venissero masticati, il taroba non riuscirebbe eccellente.1

— Porta via quei vasi o li scaravento sulla testa del primo indiano che passa. I pyaie dalla pelle bianca non bevono di questi liquori. Ecco guastata la digestione!

— Signore, — disse il mozzo che rideva a crepapelle. — Non vale la pena di scaldarsi tanto. Dopo tutto quel liquore non era poi cattivo. —

L’indiano, un po’ mortificato per la cattiva accoglienza fatta dal gran pyaie al più squisito dei liquori brasiliani, prese i due [p. 186 modifica]vasi e li portò fuori, chiedendosi quali bevande spiritose usavano quegli uomini dalla pelle bianca, per disprezzare quel taroba che era stato ben preparato dalle vecchie della tribù.

— Vediamo ora questo tushana che hanno affidato alla nostra sorveglianza, — disse Alvaro. — Deve essere qualche cosa d’importante, come un sigillo reale o giù di lì. —

Prese il cilindro che era formato da una grossa canna di bambù, alta quasi un metro e come abbiamo detto, adorna di collane e di grani d’oro e l’aprì.

Conteneva un bastone di legno pesantissimo, probabilmente paò de fero, alto sessanta centimetri, con un ciuffo formato di penne di tucano da una parte e dall’altra con un ciuffo di penne d’arà rossa.

— Lo si direbbe un bastone di comando, — disse Alvaro, osservandolo curiosamente. — Se affidano a noi il tushana della tribù, vuol dire che noi siamo diventati personaggi importantissimi. Diaz mi ha narrato che non si affidava che a gente d’alto bordo. Ciò mi tranquillizza.

— E perchè signore?

— Perchè avevo paura che questi bruti aspettassero che fossimo ben grassi per mangiarci. Eh! La carne bianca poteva tentare quei mangiatori di carne umana.

— E dovremo continuare molto a rappresentare la parte di stregoni?

— Di che cosa ti lagni, ragazzo incontentabile? Siamo diventati di punto in bianco grandi dignitari e grandi sacerdoti, mentre avremmo dovuto finire su una graticola e non sei ancora contento?

— Preferirei la libertà nei grandi boschi, insieme al marinaio.

— Pazienza per ora, Garcia. Nemmeno io ho il desiderio di finire la mia vita fra questi selvaggi. Per ora restiamo stregoni, poi vedremo. —

In quel momento il ragazzo indiano rientrò, dicendo:

— Gran pyaie il capo vi prega di assistere alla morte del prigioniero che dovrà servire questa sera per cena dei sotto-capi e dei più valenti guerrieri.

Dice che la carne, guardata dai vostri occhi, diventerà più eccellente.

— Se ci lasciasse tranquilli sarei più contento. Non amo veder assassinare un povero diavolo e tanto meno a mangiarlo. [p. 187 modifica]

— È l’uso della tribù e voi non potete sottrarvi agli obblighi spettanti ai pyaie.

— È un tuo compatriota il condannato?

— No, un tupy.

— Se mi provassi a salvarlo?

— Non fatelo, gran pyaie. Anche il mio padrone si era provato da principio e per poco non venne mangiato assieme alla vittima.

— Non opponetevi alle usanze della tribù se volete salvare la pelle. Ecco il prigioniero che ha cominciata la sua danza guerresca. Udite? Egli non tremerà quando la mazza gli sfracellerà il cranio e si difenderà vigorosamente. —

Sulla piazza si udivano a suonare i pifferi e strepitare le maraca che venivano agitate furiosamente per accrescere il baccano e tratto tratto una voce umana, poderosa, echeggiava coprendo quei suoni.

— Giacchè non possiamo farne a meno senza screditarci, andiamo, — disse Alvaro. — Anche la carica di pyaie più o meno grande, ha le sue spine. —

Uscirono preceduti dal ragazzo indiano.

La piazza era già stata occupata da parecchie centinaia di selvaggi, fra i quali si vedevano anche parecchie donne, miserabili creature dai lineamenti non meno bestiali di quelli degli uomini, colle capigliature arruffate, l’orribile barbotto e gli orecchi prodigiosamente allungati e adorni di piccole file di ossicini bianchi, probabilmente di falangi umane e di pietre colorate che ricadevano fino sulle spalle.

— Il tupy che doveva servire da cena al capo ed ai sotto-capi, era già giunto sulla piazza e s’avanzava scortato da un gruppo di suonatori, ballando e cantando per dimostrare il suo coraggio e la nessuna paura che aveva della morte. Era un bel giovane guerriero, di forse venticinque anni, colle membra ben tornite e tatuato in vari luoghi, coi lineamenti più fini e più regolari di quelli degli Eimuri.

Dietro di lui, una vecchia megera, orribilmente dipinta, portava la liwara-pemme, ossia la terribile mazza che i brasiliani usavano adoperare per uccidere i loro prigionieri.

Presso tutte le tribù brasiliane, i nemici che cadevano vivi nelle mani dei vincitori, fino al giorno del supplizio venivano trattati coi più grandi riguardi, come persone quasi sacre. [p. 188 modifica]

Invece di tenerli rinchiusi e legati, accordavano a loro la massima libertà, non cessando però di sorvegliarli onde impedire che fuggissero.

Li nutrivano abbondantemente, onde facessero degna figura alla tavola dei capi, li fornivano di liquori e di tabacco in abbondanza.

Due giorni prima dell’epoca fissata pel supplizio, usavano dare delle feste e banchetti in onore della vittima, la quale vi prendeva parte attiva, sforzandosi di mostrarsi il più intrepido ballerino ed il più allegro di tutti.

Le donne intanto filavano espressamente le corde che dovevano legarlo, fabbricavano i vasi per cucinare le carni oppure la graticola ed i liquori che dovevano innaffiare il banchetto.

Il tupy si mostrava degno del coraggio tradizionale dei suoi compatrioti, i quali godevano fama di essere i più intrepidi guerrieri del Brasile.

Ballava con lena crescente, ridendo e scherzando cogli eimuri che lo circondavano, fingendo di non udire il canto di morte che aveva intonato la vecchia megera che portava la mazza fatale.

— Noi teniamo l’uccello pel collo, — cantava la vecchia, tentando di gettare sulle spalle del prigioniero una corda fatta a laccio. — Se tu fosti stato invece un pappagallo venuto a beccare nelle nostre campagne, saresti volato via.

Ma noi ti abbiamo ora recise le ali e ti mangeremo! —

Il guerriero allora s’interrompeva come preso da improvviso furore e rispondeva con voce tuonante:

— Voi mi mangerete, ma io ho ucciso il padre di quel guerriero che sta presso il capo e gli ho divorato il cuore. Io ho pure ucciso un capo vostro e ferito a morte suo figlio e anche quelli li abbiamo divorati. —

Era giunto nel centro della piazza, dove ardeva un gran fuoco e dove era stata già rizzata una enorme graticola formata con rami di alberi del ferro.

Il capo degli Eimuri, tutto adorno di collane e di penne di vari uccelli si avanzò verso il prigioniero, seguito da una dozzina di guerrieri e secondo l’uso lo invitò a guardare per l’ultima volta il sole, poi impugnò la mazza facendola volteggiare parecchie volte in aria per dare un saggio della sua forza e della sua abilità.

Quindi fissando sul tupy uno sguardo feroce, gli disse: [p. 189 modifica]

— Nega che tu hai divorato il padre di quel guerriero, il capo e suo figlio.

— Fammi libero e mangerò te e tutti i tuoi, — rispose fieramente il tupy.

— Noi ti proveremo ed io mi preparo a darti il colpo mortale, giacchè tu affermi di aver ammazzati i miei guerrieri e tu sarai divorato in questo giorno istesso.

— Questi sono i casi della vita, — rispose il prigioniero scrollando le spalle. — I miei amici sono numerosi e un giorno mi vendicheranno.

— Ha del coraggio quel giovane, — disse Alvaro al ragazzo indiano che gli aveva tradotte le risposte del prigioniero.

— Era un valoroso, signore, figlio d’un grande guerriero.

— Peccato che noi non possiamo far nulla per salvarlo.

— Gli Eimuri diverrebbero furibondi. Lasciateli fare. —

Due selvaggi avevano legato al prigioniero le gambe, lasciandogli però libere le braccia.

Il tupy si mise allora a dimenarsi come un forsennato sfidando tutti ad assalirlo, essendo concesso ai prigionieri il diritto della difesa.

Vedendo i guerrieri del capo avanzarsi, raccolse quanti sassi si trovavano presso di lui, scagliandoli contro i nemici. Ruggiva come una belva e quantunque avesse le gambe legate balzava coll’agilità d’una gazzella.

Il cerchio però si stringeva sempre più attorno a lui ed il capo aveva alzata la mazza.

Per qualche istante lo si vide roteare e tempestare di pugni gli avversari, poi risuonò un colpo secco.

La liwara-pemme del capo gli aveva fracassato il cranio, facendolo stramazzare al suolo fulminato.

— Andiamocene, — disse Alvaro, nauseato, mentre gli Eimuri si scagliavano, ruggendo come fiere, sul cadavere ancor caldo del tupy. — Questi assassini mi ributtano. —

E preso il mozzo per una mano lo trasse verso la capanna, mentre il disgraziato guerriero veniva gettato sulla graticola.

Note

  1. Gl’indiani sono convinti che se i tuberi non sono masticati dalle vecchie, il taroba perderebbe le sue proprietà.