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184 Capitolo Diciannovesimo.

se migliaia di sassolini sbattessero contro le pareti sonore di qualche istrumento.

— La musica! — esclamò Garcia. — Che gli Eimuri vengano a offrirci un concerto? Veramente io avrei preferita una colazione. —

Si affacciarono alla porta e videro una dozzina di selvaggi dirigersi verso la loro capanna, preceduti dal giovane tupinambi che serviva d’interprete.

Quattro suonavano certi flauti che parevano formati con tibie umane e due altri agitavano certe frutta legnose che dovevano essere state quasi riempite di sassolini.

Un settimo invece portava una specie di astuccio di pelle, abbellito da grani d’oro e da conchigliette e gli altri dei cesti che parevano assai pesanti.

— Che cosa vogliono questi uomini? — chiese Alvaro al ragazzo indiano.

— Consegnarti innanzi a tutto il tushana del capo e affidarlo alla tua vigilanza...

— Il tushana! Che cos’è?

— Lo scettro della tribù. Gli altri ti portano la colazione e anche dell’eccellente taroba che era stato preparato appositamente dalle più vecchie donne degli Eimuri, pel defunto pyaie.

— Metti in un canto il tuo tushana che per ora non c’interessa e fa’ posare la colazione. I pyaie bianchi non vivono già d’aria. —

Il ragazzo lo guardò un po’ sorpreso, prese poi il tubo contenente lo scettro che depose sotto le teste conservate, poi fece mettere a terra i canestri.

Alvaro con un gesto congedò musicanti e portatori e si mise a levare ciò che contenevano i pagara, paventando che potesse trovarsi dentro qualche pezzo d’arrosto umano.

I cuochi del capo, avvertiti che i pyaie dalla pelle bianca non potevano mangiare che nemici della loro razza, avevano surrogata la carne umana con una magnifica traira, un pesce che abbonda nelle savane sommerse, con delle gallette di mandioca e con dei banani cucinati sotto la cenere.

Vi avevano poi aggiunti due grossi vasi pieni di un liquido lattiginoso che esalava un acuto odore d’alcool.

— All’attacco, Garcia, — disse, con voce allegra. — L’arrosto umano non figura nella minuta, nè bianco, nè nero, nè rosso. —