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186 | Capitolo Diciannovesimo. |
vasi e li portò fuori, chiedendosi quali bevande spiritose usavano quegli uomini dalla pelle bianca, per disprezzare quel taroba che era stato ben preparato dalle vecchie della tribù.
— Vediamo ora questo tushana che hanno affidato alla nostra sorveglianza, — disse Alvaro. — Deve essere qualche cosa d’importante, come un sigillo reale o giù di lì. —
Prese il cilindro che era formato da una grossa canna di bambù, alta quasi un metro e come abbiamo detto, adorna di collane e di grani d’oro e l’aprì.
Conteneva un bastone di legno pesantissimo, probabilmente paò de fero, alto sessanta centimetri, con un ciuffo formato di penne di tucano da una parte e dall’altra con un ciuffo di penne d’arà rossa.
— Lo si direbbe un bastone di comando, — disse Alvaro, osservandolo curiosamente. — Se affidano a noi il tushana della tribù, vuol dire che noi siamo diventati personaggi importantissimi. Diaz mi ha narrato che non si affidava che a gente d’alto bordo. Ciò mi tranquillizza.
— E perchè signore?
— Perchè avevo paura che questi bruti aspettassero che fossimo ben grassi per mangiarci. Eh! La carne bianca poteva tentare quei mangiatori di carne umana.
— E dovremo continuare molto a rappresentare la parte di stregoni?
— Di che cosa ti lagni, ragazzo incontentabile? Siamo diventati di punto in bianco grandi dignitari e grandi sacerdoti, mentre avremmo dovuto finire su una graticola e non sei ancora contento?
— Preferirei la libertà nei grandi boschi, insieme al marinaio.
— Pazienza per ora, Garcia. Nemmeno io ho il desiderio di finire la mia vita fra questi selvaggi. Per ora restiamo stregoni, poi vedremo. —
In quel momento il ragazzo indiano rientrò, dicendo:
— Gran pyaie il capo vi prega di assistere alla morte del prigioniero che dovrà servire questa sera per cena dei sotto-capi e dei più valenti guerrieri.
Dice che la carne, guardata dai vostri occhi, diventerà più eccellente.
— Se ci lasciasse tranquilli sarei più contento. Non amo veder assassinare un povero diavolo e tanto meno a mangiarlo.