L'Ulisse/Canto primo

Canto primo

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L'Ulisse Canto secondo
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ARGOMENTO.

DEL CANTO PRIMO.

Distrvtta Troia, ogniun velocemente
     A le sue case volentier ritorna,
Vlisse sol, che da Calisso, ardente
     D’amore, è ritenuto, a’ suoi non torna,
Piglia Pallade l’habito di Mente
     E sconosciuta in Itaca soggiorna.
E da nuova à Telemaco, ch’il padre
     Presto vedrà Penelope sua madre.


ALLEGORIE.

Per vlisse, che nel tornar alla patria sva dopo la rotta di Troia, è ritenuto ingiustamente da Calisso, si conosce, ch’à gli huomini virtuosi, dopò le cose gloriosamente operate, non mancano delle disgratie, e de gli infortunij, per cagion de’ quali, non posson godere interamente delle loro felicità, e dell’honor che si deve loro.

Per calisso, che ritiene vlisse, per cavarsi i suoi appetiti, si comprende la sfacciatezza e libidine d’una femina, la quale non guarda all’infamia ch’ella dà ad un’huomo da bene e uirtuoso, per tenerlo in sì vile essercitio, pur ch’ella si cavi le sue sfrenate voglie.

Per minerva, che sotto forma humana, essendo tenuta Dea, dà speranza à Telemaco del ritorno d’Vlisse, ci si mostra che gli huomini sono qualche volta avvisati di molti secreti da gli spiriti divini, sotto specie di persone da loro conosciute.


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CANTO PRIMO.

ERANO TUTTI i Greci ritornati
     A le lor patrie, à le natie contrade;
     Tutti quelli dico io, che fur campati,
     Ò d’altre morti, ò da le Frigie spade.
     Sol vivea lunge à i cari tetti amati
     Ulisse, e non per sua sceleritade:
     ma sol perché Calisso lo teneva,
     Seco per forza, e di lui tutta ardeva.

Costei ch’era una fata, o Ninfa audace
     Data à i diletti, e ne’ suoi amor fervente
     Desiava goderselo con pace
     Infin ch’egli vivea, perpetuamente
     Onde percossa d’amorosa face
     Con inganni, e lunsinghe, era possente
     Di trattener, havendolo sì caro,
     Un Re prudente, un cavalier sì raro.

Ma non solo ad Ulisse era la sorte
     Contraria lunge alla sua propria terra,
     Ma da gli amici dentro à la sua corte
     gli era resa molestia, e fatto guerra.
     E Nettunno oltre à ciò l’odiava forte
     Sì, che ’l ritorno à la sua patria serra.
     Il quale in Ethiopia un dì fu gito
     À un solenne a lui fatto alto convito.

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Intanto sù, nel regno almo, e celeste
     Gli Dei sendo a consiglio radunati,
     Si ricordò dell’homicida Oreste
     Giove Signor, e padre dei beati;
     Il qual, per far degne vendette, e honeste
     Del suo gran padre, e primo fra i lodati
     Levò di vita da giust’ira scorto
     Lui, che ’l proprio cugino havea già morto.

Giove dunque formò parole tali
     E disse: O quanto ingannano la mente
     À creder gl’ignoranti egri mortali
     Che i mal, ch’eßi patiscano sovente,
     Procedano da noi santi, e immortali,
     Da’ quai cosa non viene ingiustamente
     Perché cagion de’ loro affanni, e doglie
     È l’ignorantia, e le lor torte voglie.

Com’è avenuto al traditor d’Egisto,
     Il qual fuor d’ogni debito, e ragione,
     Come crudel, come malvagio, e tristo,
     La mogliera sposò d’Agamennone,
     E uccise lui per non perder l’acquisto,
     Che fatto havea della Real magione.
     Onde Oreste, benché non molto in fretta,
     Fè della morte sua degna vendetta.

Et io che conosceva il suo pensiero
     Esser così perverso, e così rio:
     L’avisai pel celeste messaggiero,
     Eloquente, e fedel, ministro mio,
     Che non facesse l’adulterio, e fiero
     Fosse al cugin, che pagherebbe il fio:
     Perché vendicator ne fora degno
     Il figlio, e racquistar vorrebbe il Regno.

Così fece Mercurio interamente
     L’officio, che da me gli fu commesso;
     Ma non gli pote dar sì buona mente
     Ch’ei lasciasse di far l’indegno eccesso.
     Hor con giusto gastigo pate, e sente
     Quel mal, di ch’egli fu ministro espresso.
     Conchiudo, che non debbono i mortali
     Recar à noi le cause de i lor mali.

La bella Palla con parole accorte
     Al padre de gli Dei così rispose:
     Padre, e rettor de la celeste corte,
     Che solo opere fai giuste, e pietose:
     Egisto si perì di degna morte,
     poiché la mano à sì rio fatto pose:
     E così pera ancor ciascun, che fia
     Ripien di crudeltate, e fellonia.

Ma io gelosa del mio Ulisse sono,
     Nè potrei dir quanto mi pesa, e dole,
     Ch’un cavalier sì valoroso, e buono,
     Quant’altro veggia raggirando il Sole,
     Calisso Ninfa (à cui già non perdono)
     Con arte, e con lusinghe, e con parole,
     Lo ritiene in un’isola serrata
     Da l’onde, e da costei sola habitata.

E pur vorria ch’Ulisse si scordasse
     De la patria à perpetuo suo piacere,
     Sì, che tutto ’l suo tempo consumasse
     Da lui sbandito, et in altrui potere.
     Cui più caro saria, che gli lasciasse
     Il fumo solo d’Itaca vedere,
     Che viver immortal presso à colei,
     Ch’ei non ama diletti, e manco lei.

Per questo gli saria la morte grata
     Più tosto, che gradir le costei voglie.
     Intanto gli è la casa depredata,
     Et ogni sua sostanza gli si toglie
     Da gli amici, che tengon molestata
     La sua cara, fedele e casta moglie:
     Che, come s’egli fosse giunto à morte
     Cercano à gara haverla per consorte.

Ond’ella per levar tal peste via,
     E allontanar queste pungenti spine,
     Voluto ha, che da loro à lei si dia
     Spatio, pria ch’à le nozze l’alma inchine,
     Ch’una tela, che tesse tuttavia,
     Con le sue mani, sia condotta al fine:
     Ma quanto il giorno la pudica tesse,
     Tanto la notte accortamente stesse.

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Così conserva la sua castitate
     Pur aspettando, che ’l marito torni;
     Nè resta, che non vengan consumate
     Le cose sue fra tante notti, e giorni.
     Tu sai pur padre, ch’ami la bontate,
     Come i tuoi sacri altar fe sempre adorni
     Delle vittime usate, Ulisse mio,
     È sempre fu religioso, e pio.

Dunque perché sei verso lui sdegnato,
     se dir conviensi, ò sempiterno sire?
     Sappi ò Palla, ch’Ulisse ho sempre amato,
     Giove rispose, e sian lontane l’ire,
     Ch’osservator l’ho sempre ritrovato,
     Del culto mio, quanto si possa dire.
     Seco Nettunno è irato, et odia lui,
     Più che giammai mortale odiasse altrui.

E l’odio à lui fin da quel giorno prese,
     Nè d’altronde maggior prender potea,
     Alhor che qui privo dell’occhio rese
     Polifemo, che solo in fronte havea:
     E di tanto favor gli fu cortese,
     Che se ben navigare ei lo vedea,
     Uccider non lo volse, ò farli guerra,
     Mà sol lo tien lontan dalla sua terra.

Hor voglio ben, che ponga giù lo sdegno
     Nettunno, e lo porrà, voglia, ò non voglia,
     E che ritorni Ulisse nel suo Regno,
     E in tutto da quell’Isola si toglia.
     E perche tu, sei di fiorito ingegno,
     Permetto a te, che questo nodo scioglia:
     À cui più d’altro un tale ufficio lice,
     Che l’hai sì caro, e sì li sei fautrice.

Io sò, diss’ella, che ’l ritorno grato
     Sarà d’Ulisse à tutti quanti i Dei,
     Però che sia da te padre mandato
     Mercurio entro quell’Isola vorrei:
     Che ’l tuo fermo volere, e ’l tuo mandato
     Del ritorno di lui spieghi a colei,
     Che ’ntanto n’andrò in Itaca, e ’l figliuolo
     D’Ulisse ritrarrò d’affanno, e duolo.

Io farò che Telemaco, diletto
     Da me, come figliuol d’un huomo tale
     Ottenga, ch’à malvagi sia interdetto
     Di più seguir in fargli danno, e male:
     E fatto questo così buono effetto,
     Che forse è ’l più importante, e principale,
     In Pilo manderollo, ò in Sparta bella,
     Per intender di lui qualche novella.

Ciò detto havendo, ella dal ciel discese,
     Essendo armata, e havendo un’hasta in mano,
     E di Mente la forma intera prese,
     Ch’era un famoso, e degno Capitano.
     Và in Ithaca, ch’alcun non gliel contese,
     Che ’l contender sarebbe stato vano:
     E con quell’hasta in man si fu fermata
     Del palagio d’Ulisse in sù l’entrata.

E mentre mira, una gran turba vede,
     Ch’eran quei, che cercavan per mogliera
     La bella donna, che con tanta fede
     Serbava à Ulisse castitate intera.
     Vede, che questo, e quel superbo siede
     Nella gran sala, che le nozze spera.
     Poste le mense, e da diverse bande,
     Vede, che s’apprestavan le vivande.

Chi mesce il vino, chi divide e parte
     Le carni, ch’eran rare, et odorate:
     Chi questa cosa, e chi quella comparte,
     In vasi d’oro, e in tazze ricche, e ornate,
     E giunge l’una, quando l’altra parte
     E son più d’una volta replicate;
     E fra costor Thelemaco sedea,
     Guardando pur se ’l padre suo vedea.

Guardava pur, se ’l padre suo vedesse,
     Che giorno, e notte, il giovane bramava;
     Che sgombrar quell’Harpie tosto facesse,
     Onde sua facultà si consumava:
     E con la sua venuta si potesse
     Quetar la madre, ch’ogn’hor sospirava,
     E mentre il suo ritorno aspettar vuole
     Si consumava, come ghiaccio al Sole.

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Mentre, che così pensa gli occhi gira,
     E star con l’hasta in sù la porta aßiso
     Mentre, qual buono augurio, vede, e mira,
     Onde subito fé sereno il viso.
     Lassa la mensa, et à lui si ritira,
     Perché troppo d’offenderlo gli è aviso,
     Lassando lui sù quella porta stare,
     Che molto era tenuto d’honorare.

Come gli è appresso, per la destra il prende,
     E lo abbraccia, accarezza, e se gl’inchina,
     Gli tol l’hasta di mano, e la sospende
     À una rastella, ch’ivi era vicina.
     E questo fatto, seco i passi stende,
     Mentr’ella il segue, et ci innanzi camina,
     E la conduce, ov’era incominciato
     il convito, ma in luogo più appartato.

Sopra à un ricco sedil l’adagia, e pone,
     Come io vi dico in parte più riposta,
     Acciò, quando facesse alcun sermone
     Del padre, in cui sua speme havea riposta,
     Non fosse inteso da l’empie persone,
     Onde in ruina era sua casa posta.
     E dice, amico vi ristorerete
     Prima col cibo, e poi ragionerete.

Quivi un leggiadro, e vago giovenetto
     Diede a la santa Dea l’acqua à le mani
     In un bacin d’argento puro, e schietto
     Con vaso d’oro in bei sembianti humani.
     Recati i cibi poi fur di perfetto
     Sapor, più ch’altri, od esterni, ò nostrani,
     E ’l vino in larga copia, e parimente
     Ogni cosa più rara, et eccellente.

Nè i Prodi Penelope restaro
     Di seguir il convito lietamente;
     Anzi tanto egualmente, e più mangiaro,
     Che troppo fora ad una grossa gente.
     E poi che molto satij si trovaro,
     Si trastullar con canti parimente,
     E con suoni, e con danze; i quali inviti
     Son proprio le delitie de’ conuiti.

Fecer sonar con una cetra d’oro.
     Femio, che mal suo grado à questo scese;
     E così il ventre loro ampio ristoro,
     E non picciol piacer l’orecchia prese.
     Mentre così facevano fra loro,
     A Palla disse il giovene cortese:
     E ’l pensier di costor la cetra, e ’l canto
     Però, che ’l cibo altrui mangiano intanto.

Io dico di colui, che forse il mare
     (E voglia Dio, ch’io non m’opponga al vero)
     Nasconde, e copre, ò candide ossa appare
     In qualche terra del nostro Hemispero.
     Ma s’egli si vedesse ritornare,
     O’ come caderia lor nel pensiero
     Desiderio d’haver le piante preste
     Più che debil non son d’oro, e di veste.

Ma certo à lui più vita non avanża
     Che son molt’anni, ch’è lontan da nui
     Nè se n’intende noua, che possanza
     Habbia di far, che più s’aspetti lui,
     Si, ch’amico perduta ho la speranza
     Di riveder l’aspetto, e gli occhi sui,
     Ma tu dimmi per gratia quel; che sei;
     E perch’hoggi venuto à i tetti miei.

Che forse esser potresti amico ancora
     Del mio buon padre à qualche tempestato;
     Il qual peregrinando infino ad hora,
     Se vive, in molte parti ha conversato.
     Con dolce aspetto gli rispose allhora
     Pallade, e con parlar soave, e grato:
     Io mi glorio, e mi vanto d’esser Mente,
     Che fu figliuol d’Antiloco prudente.

E signoreggiò à Tasii, che periti
     Del navigar anticamente sono;
     E son venuto à questi nostri liti
     Per mar, havendo vento amico, è buono.
     Il mio viaggio e à Temese, ove giti
     Son molti nostri con non picciol dono
     E vi vado per rame, e parimente
     Vi porto ferro splendido, e lucente.

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E i nostri antichi hanno vaghezza grande
     D’esser Stati co i vostri amici rari:
     E dimandar potete in queste bande,
     Quanto gia furo gli uni à gli altri cari.
     E puoi far, ch’un messaggio hora si mande
     À Laerte, cui furon pochi pari,
     C’hora per esser grave di vecchiezza
     Stà ne la villa, e la città disprezza .

Hor sappi, che tuo padre è vivo, e sano,
     Ma di questo paese, ov’egli nacque,
     È gia più mesi figlio assai lontano
     In un luogo selvaggio, e cinto d’acque.
     Ma ben ti voglio dir, nè sarà vano
     L’aviso mio, se ben non mi compiacque
     Il cielo in farmi intendente, e indovino,
     Si come il suo ritorno è gia vicino .

E se ben fosse à forza ritenuto
     Con salde e con fortissime catene,
     Egli è tanto prudente, e tanto astuto,
     Che sperar il ritorno si conuiene .
     Ma tu però, ch’io non t’ho conosciuto,
     Sei suo figliuol? ch’io lo vo creder bene
     E gli sei tanto simile d’aspetto,
     Ch’io t’ho per tal, senza che l’habbi detto.

E seco molte volte praticai
     Pria ch’ei n’andasse à la città infelice.
     Et ei: la madre mia, c’honoro assai,
     Et amo, quando amar si deve, e lice,
     (Per satisfar à quel, che detto m’hai)
     Ch’io sia suo figlio mi conferma, e dice:
     E cosi parimente anco la fama,
     Me figliuolo d’Ulisse afferma, e chiama.

Ma di questo io non tengo altra chiarezza,
     Nè darne altra nè può la lingua mia:
     Però, che non è alcun, c’habbia contezza
     Di chi suo padre veramente sia:
     Ma come di valor’, e d’accortezza
     Avien che par’à Ulisse non si dia;
     Cosi vorrei trouarmi generato
     Di genitor di lui più fortunato.

Questa risposta è veramente saggia,
     Disse la Dea, nè da tenersi à vile.
     Ma basti, che tua madre è la più saggia
     Matrona, e la più casta, e più gentile
     Che per questa mortal fallace piaggia
     Trovar si possa infin da l’Indo à Tile.
     Ma che vogliono dir queste vivande,
     Questo convito, e questa turba grande?

Ove mi par di veder molte cose
     Indegne certo à la tua maestate.
     Telemaco, da capo de rispose,
     Per dirti, amico mio, la veritate
     La casa nostra era de le famose,
     Che vedesse giamai veruna etate
     Di bontade non men, che di richezza,
     Cosi di cortesia, di gentilezza.

E questo fu, mentre vivea colui
     Che mio padre si chiama, ed io lo creggio:
     Hor ch’è fama, ch’ei sia ne’ regni bui
     Sempre è andata,e nè và di male in peggio.
     Volesse Dio, che fra gli amici sui
     Prima, che de’ Troian cadesse il seggio,
     Ei fosse morto; ch’ei gloria n’havria,
     Nè io privo di lode anco saria.

Hor, s’egli vive, è senza lode vivo,
     E s’egli è morto, à l’una e l’altra guisa
     E d’honor ueramente ignudo, e privo,
     E veggio seco ogni sua fama uccisa,
     Lasciando meco sempre un largo rivo,
     Di pianto, quando la mia mente fisa,
     In costor, che sì come ingorde Harpie
     Consuman tutte le sostanze mie.

Però, che quanti più honorati accoglie
     Dulichio, Samo, e il Silvoso Zante:
     Et altri lochi, d’amorose voglie
     Ardendo tutti, ogniuno essendo amante,
     La madre mia dimandano per moglie.
     Come donna, che piace à genti tante.
     E intanto, come vedi tuttavia.
     Molestano ad ogni hor la casa mia.

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E forse ancor me Stesso finalmente
     Consumeranno, e smembreranno un giorno.
     Pallade,che gran duol di queslo sente,
     Certo dice hai bisogno del ritorno
     D’Vlisse, il qual saria solo possente
     Di levar questo danno, e questo scorno
     E questa temeraria empia licenza
     Subito nel mostrar la sua presenza.

Ch’io l’ho veduto, e conosciuto tale,
     Che sperar non si può minor effetto.
     Ma tal cura haverà Giove immortale,
     Il cui secreto è nel suo santo petto
     Hor m’ascolta, che quanto puote, e vale,
     (che puote, e vale assai) nostro intelletto,
     Io ti darò con se, figlio un consiglio,
     Che buon sarà, se tu vi dai di piglio.

Chiedi à i Prencipi Greci il dì seguente
     Vna gratia honestissima, e l’havrai,
     Che questa temeraria avara gente
     Faccian sgombrar de la tua casa homai.
     E se tua madre havesse nella mente
     Di maritarsi, ch’io no’l credo mai,
     Vada à casa del padre, ch’è signore
     Ricco, e fu sempre cavalier d’honore.

E ciascun, che la vuol, la chieggia’à lui;
     Ch’à lui si fatto officio,si conviene:
     Et egli à lei de’ larghi beni sui:
     Farà la dote à Strette mani, ò piene:
     E cosi lascieran la roba altrui,
     Eleuaranti di molesie, e pene.
     Poi ch’ottenuta tal dimanda havrai,
     Un’altra cosa figlio anco farai.

Vo, ch’in ordine metti un tuo legnetto
     Di quanto al navigar bisogno sia,
     E che te’n vadi à ritrovar l’aspetto
     Di Nestore per breve, e dritta via.
     E dimanda del padre à quel perfetto
     Vecchio, ch’egli potrà dartene spia:
     Poi vanne à Menelao, ch’ultimo fue
     A’ ritornar à le contrade sue.

E se tu intenderai de la sua vita,
     E parimente del ritorno ancora;
     Sia da te la tristezza dipartita,
     Che ti travaglia, e ti consuma ogni hora,
     Ma s’udirai, ch’ei l’habbia homai finita
     Fa che tornato ne la patria, alhora
     Gli facci quelle essequie, e quell’honore,
     Che si convien à un tanto genitore.

E se questi, che vogliono ottenere
     La tua honorata madre per consorte
     Verran di nuouo à farti dispiacere
     Ne le tue case, ò non aprir le porte
     Ò con inganni, come egli è douere,
     Tenta di gastigarli, e dar lor morte.
     Ma che’l facci scoverto, over con arti
     Homai non dei fanciul più dimostrarti .

Non odi tu, si come vien lodato
     L’ardito Oreste, che la vita tolse
     A colui, che di vita havea privato
     Il suo gran padre, e come à tempo il colse
     Ate conviene ancor mostrarti grato
     Al tuo, cui di ben far giamai non dolse:
     E cercar d’acquistarti alcuna loda,
     Acciò il tuo nome in tutta Grecia s’oda,

Ma ben ti torno à dir quel, ch’io dicea,
     Ch’io stimo, ch’ei sia vivo, e mi diletta:
     Ma tempo è, ch’io ritorni à la Galça,
     Che forse troppo d lungo ella m’aspetta:
     Fra tanto ti conforta, e ti ricrea,
     Et il mio buon consiglio adempi in fretta:
     Et haggi cura di te Steffo, poi
     Ch’altro non è, ch’attenda à beni tuoi.

La Dea ringratia il buon figliuol d’Ulisse,
     Non sapendo, che Dea fosse altrimente
     E pur volea, che pria che fi partisse
     Accettasse un leggiadro suo presente.
     Che tornerebbe un’altra volta, disse
     Pallade, e ne farebbe pārimente
     Un’altro à lui, che non saria men degno,
     E finse al fin di ritornarsi al legno.

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Rimase tutto lieto, e consolato
     Il giovane à le sue parole intento;
     E come spirto ella gli havesse dato,
     Riprese insieme forza, ardimento.
     Et in tal guisa à i Proci fu tornato,
     Ove Femio toccando il suo istrumento
     Formava accenti graui, e note rare,
     E quei stavano intenti ad ascoltare.

Cantava Femio le diverse offese,
     Che Pallade sdegnata à Greci feo,
     Mentre tornaro al lor natio paese,
     E ben lo seppe Aiace l’Oileo.
     Penelope di sopra il canto intese,
     E scese in sala e comd v’attendeo.,
     Pregò colui quanti son carnal diletti.
     Non pote far che con ardito core,
     Posti da parte álbor tutti i rispetti,
     Non parlasse Telemaco, che disse
     Parole degne di figlinol d’Ulisse.

Voi disse,ch’ogni giorno dimandate
     Per mogliera mia madre, e sotto tale
     Pretesto i nostri beni consumate,
     Che d’altrui danno non vv’incresce,ò cale:
     Per questa notte d nostra voglia fate
     Quel,che vi piace,ò che sia bene, ò male.
     Che nel giorno seguente io vi prometto
     Ch’io non vi voglio hauer punto rispetto.

Vo chiamar il consiglio, e voglio dire,
     Si come è giusta, e convenevol cosa;
     Che v’habbiate del tutto à dipartire
     De la mia casa afflitta, e dolorosa;
     E che vi procuriate di nutrire
     Del nostro, poi che consumata, erosa
     La facultà m’haveteà quasi tutta,
     Che fu dal padre, et avi miei costrutta.

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E, quando non vorreste anco accostarvi
     A quello, che ragion tanta m’addita;
     Io sarò buon con queste man privarvi,
     Quando ne sia bisogno, anco di vita:
     Ma voglio bene in ciò tutti avisarvi
     Che pria di Giove io chiamerò l’aita;
     Che v’invogli al partire: e quando questo
     À me non vaglia, io farò poscia il resto.

Arsero allhor tutti di sdegno, e rabbia
     Quei Greci, e diventar vermigli in volto;
     E si meravigliar, come pres’habbia
     Ei tanta audacia, e ’l giudicaro stolto:
     E per grand’ira si morder le labbia:
     Et un di lor, ch’era superbo molto,
     Detto Antinoo, gli disse, troppo sei
     Ardito, e presuppor tanto non dei.

Ma voglia Dio, che tu non venga mai
     A la corona di tuo padre, poi
     Che si tristo voler conservi, ed hai
     Fuori d’ogni ragion contra di noi.
     Io di venir à questa apprezzo assai,
     E degno son più che non sete voi
     Ornarmi di corona; il quale honore
     Esalta l’huom di gloria, e di splendore.

È ver, che sono in Ithaca parecchi
     Generosi, magnanimi, e da bene,
     Così d’antichi, come ancor de’ vecchi:
     De’ quali, se mio padre più non tiene
     Luogo tra vivi, ò al tornar troppo invecchi
     Alcun la potrà haver: ma non conviene,
     Che voi con tanto oltraggio, e villania
     Vi facciate Signor di casa mia.

Che di questa voglio esser’io padrone,
     E di tutto l’haver del padre mio.
     Questo (glidisse Eurimaco) è ragione,
     Ma di chi sarà il Regno è in man di Dio:
     Godi pur il tuo haver, che mai persone
     No’l ti torran, che fora ingiusto e rio.
     Ma dimmi chi è colui, c’hai si honorato
     E se noua del padre ei t’ha portato.

Telemaco à colui, sappi ch’è morto
     Mio padre, e ’l suo ritorno unqua non fia:
     E chi dice altrimenti, per conforto
     Di mia madre lo dice, ed è bugia.
     E colui, che partito è sì di corto,
     Fu di mio padre amico, e avien che sia
     D’Antiloco figliuol, ch’in Tasio regna,
     Et ivi ha corte assai stimata, e degna.

Cosi dicea Telemaco di fuore,
     Ma nel suo cuor tenea ch’ei fosse un Dio.
     Or guatando color l’ira, e’l furore,
     Mostrarono d’hauer cura, e desio,
     Che seguitasse, (cosi fe) il cantore,
     E lo ascoltar, per fin che ’l dì finio:
     E poscia tutti il tetto abbandonaro
     E per dormir à le lor case andaro.
·
Si ridusse Telemaco ancor esso
     Ne la sua Stanza, ch’era ricca, e bella:
     Ove la Bália sua gli venne appresso,
     Che fu del padre, e pria de l’avo ancella:
     E, perche questa lo serviva spesso,
     (Che molto l’havea caro, e l’amav’ella)
     Accompagnollo al letto: ov’ei fermosse,
     E i drappi tutti ad uno ad un spogliosse.

Questa, che nominata fu Ericlea,
     Gli prende, e di sua mano gli ripone
     Al loco, ove riporli ella solea,
     Disponendogli tutti con ragione.
     Quindi si parte, e pria l’uscio chiudea,
     Et ei sul letto à riposar si pone
     Ma gia non dorme, anzi il pensiero inchina
     À i ricordi di Pallade divina.

Và discorrendo entro la saggia mente
     I consigli si buoni di colui,
     Che dimostrava esser fallacemente
     Huom ne l’aspetto, e ne’ sembiantı fui
     Ma, come comprendeva, veramente
     Mortal non era, anzi divin costui:
     Ma quivi resti; ch’io lasciar lo voglio,
     Per non giunger più carta à questo foglio.

IL FINE DEL PRIMO CANTO.