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PRIMO 7


Intanto sù, nel regno almo, e celeste
     Gli Dei sendo a consiglio radunati,
     Si ricordò dell’homicida Oreste
     Giove Signor, e padre dei beati;
     Il qual, per far degne vendette, e honeste
     Del suo gran padre, e primo fra i lodati
     Levò di vita da giust’ira scorto
     Lui, che ’l proprio cugino havea già morto.

Giove dunque formò parole tali
     E disse: O quanto ingannano la mente
     À creder gl’ignoranti egri mortali
     Che i mal, ch’eßi patiscano sovente,
     Procedano da noi santi, e immortali,
     Da’ quai cosa non viene ingiustamente
     Perché cagion de’ loro affanni, e doglie
     È l’ignorantia, e le lor torte voglie.

Com’è avenuto al traditor d’Egisto,
     Il qual fuor d’ogni debito, e ragione,
     Come crudel, come malvagio, e tristo,
     La mogliera sposò d’Agamennone,
     E uccise lui per non perder l’acquisto,
     Che fatto havea della Real magione.
     Onde Oreste, benché non molto in fretta,
     Fè della morte sua degna vendetta.

Et io che conosceva il suo pensiero
     Esser così perverso, e così rio:
     L’avisai pel celeste messaggiero,
     Eloquente, e fedel, ministro mio,
     Che non facesse l’adulterio, e fiero
     Fosse al cugin, che pagherebbe il fio:
     Perché vendicator ne fora degno
     Il figlio, e racquistar vorrebbe il Regno.

Così fece Mercurio interamente
     L’officio, che da me gli fu commesso;
     Ma non gli pote dar sì buona mente
     Ch’ei lasciasse di far l’indegno eccesso.
     Hor con giusto gastigo pate, e sente
     Quel mal, di ch’egli fu ministro espresso.
     Conchiudo, che non debbono i mortali
     Recar à noi le cause de i lor mali.

La bella Palla con parole accorte
     Al padre de gli Dei così rispose:
     Padre, e rettor de la celeste corte,
     Che solo opere fai giuste, e pietose:
     Egisto si perì di degna morte,
     poiché la mano à sì rio fatto pose:
     E così pera ancor ciascun, che fia
     Ripien di crudeltate, e fellonia.

Ma io gelosa del mio Ulisse sono,
     Nè potrei dir quanto mi pesa, e dole,
     Ch’un cavalier sì valoroso, e buono,
     Quant’altro veggia raggirando il Sole,
     Calisso Ninfa (à cui già non perdono)
     Con arte, e con lusinghe, e con parole,
     Lo ritiene in un’isola serrata
     Da l’onde, e da costei sola habitata.

E pur vorria ch’Ulisse si scordasse
     De la patria à perpetuo suo piacere,
     Sì, che tutto ’l suo tempo consumasse
     Da lui sbandito, et in altrui potere.
     Cui più caro saria, che gli lasciasse
     Il fumo solo d’Itaca vedere,
     Che viver immortal presso à colei,
     Ch’ei non ama diletti, e manco lei.

Per questo gli saria la morte grata
     Più tosto, che gradir le costei voglie.
     Intanto gli è la casa depredata,
     Et ogni sua sostanza gli si toglie
     Da gli amici, che tengon molestata
     La sua cara, fedele e casta moglie:
     Che, come s’egli fosse giunto à morte
     Cercano à gara haverla per consorte.

Ond’ella per levar tal peste via,
     E allontanar queste pungenti spine,
     Voluto ha, che da loro à lei si dia
     Spatio, pria ch’à le nozze l’alma inchine,
     Ch’una tela, che tesse tuttavia,
     Con le sue mani, sia condotta al fine:
     Ma quanto il giorno la pudica tesse,
     Tanto la notte accortamente stesse.