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6 CANTO


E i nostri antichi hanno vaghezza grande
     D’esser Stati co i vostri amici rari:
     E dimandar potete in queste bande,
     Quanto gia furo gli uni à gli altri cari.
     E puoi far, ch’un messaggio hora si mande
     À Laerte, cui furon pochi pari,
     C’hora per esser grave di vecchiezza
     Stà ne la villa, e la città disprezza .

Hor sappi, che tuo padre è vivo, e sano,
     Ma di questo paese, ov’egli nacque,
     È gia più mesi figlio assai lontano
     In un luogo selvaggio, e cinto d’acque.
     Ma ben ti voglio dir, nè sarà vano
     L’aviso mio, se ben non mi compiacque
     Il cielo in farmi intendente, e indovino,
     Si come il suo ritorno è gia vicino .

E se ben fosse à forza ritenuto
     Con salde e con fortissime catene,
     Egli è tanto prudente, e tanto astuto,
     Che sperar il ritorno si conuiene .
     Ma tu però, ch’io non t’ho conosciuto,
     Sei suo figliuol? ch’io lo vo creder bene
     E gli sei tanto simile d’aspetto,
     Ch’io t’ho per tal, senza che l’habbi detto.

E seco molte volte praticai
     Pria ch’ei n’andasse à la città infelice.
     Et ei: la madre mia, c’honoro assai,
     Et amo, quando amar si deve, e lice,
     (Per satisfar à quel, che detto m’hai)
     Ch’io sia suo figlio mi conferma, e dice:
     E cosi parimente anco la fama,
     Me figliuolo d’Ulisse afferma, e chiama.

Ma di questo io non tengo altra chiarezza,
     Nè darne altra nè può la lingua mia:
     Però, che non è alcun, c’habbia contezza
     Di chi suo padre veramente sia:
     Ma come di valor’, e d’accortezza
     Avien che par’à Ulisse non si dia;
     Cosi vorrei trouarmi generato
     Di genitor di lui più fortunato.

Questa risposta è veramente saggia,
     Disse la Dea, nè da tenersi à vile.
     Ma basti, che tua madre è la più saggia
     Matrona, e la più casta, e più gentile
     Che per questa mortal fallace piaggia
     Trovar si possa infin da l’Indo à Tile.
     Ma che vogliono dir queste vivande,
     Questo convito, e questa turba grande?

Ove mi par di veder molte cose
     Indegne certo à la tua maestate.
     Telemaco, da capo de rispose,
     Per dirti, amico mio, la veritate
     La casa nostra era de le famose,
     Che vedesse giamai veruna etate
     Di bontade non men, che di richezza,
     Cosi di cortesia, di gentilezza.

E questo fu, mentre vivea colui
     Che mio padre si chiama, ed io lo creggio:
     Hor ch’è fama, ch’ei sia ne’ regni bui
     Sempre è andata,e nè và di male in peggio.
     Volesse Dio, che fra gli amici sui
     Prima, che de’ Troian cadesse il seggio,
     Ei fosse morto; ch’ei gloria n’havria,
     Nè io privo di lode anco saria.

Hor, s’egli vive, è senza lode vivo,
     E s’egli è morto, à l’una e l’altra guisa
     E d’honor ueramente ignudo, e privo,
     E veggio seco ogni sua fama uccisa,
     Lasciando meco sempre un largo rivo,
     Di pianto, quando la mia mente fisa,
     In costor, che sì come ingorde Harpie
     Consuman tutte le sostanze mie.

Però, che quanti più honorati accoglie
     Dulichio, Samo, e il Silvoso Zante:
     Et altri lochi, d’amorose voglie
     Ardendo tutti, ogniuno essendo amante,
     La madre mia dimandano per moglie.
     Come donna, che piace à genti tante.
     E intanto, come vedi tuttavia.
     Molestano ad ogni hor la casa mia.