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PRIMO | 13 |
E, quando non vorreste anco accostarvi
A quello, che ragion tanta m’addita;
Io sarò buon con queste man privarvi,
Quando ne sia bisogno, anco di vita:
Ma voglio bene in ciò tutti avisarvi
Che pria di Giove io chiamerò l’aita;
Che v’invogli al partire: e quando questo
À me non vaglia, io farò poscia il resto.
Arsero allhor tutti di sdegno, e rabbia
Quei Greci, e diventar vermigli in volto;
E si meravigliar, come pres’habbia
Ei tanta audacia, e ’l giudicaro stolto:
E per grand’ira si morder le labbia:
Et un di lor, ch’era superbo molto,
Detto Antinoo, gli disse, troppo sei
Ardito, e presuppor tanto non dei.
Ma voglia Dio, che tu non venga mai
A la corona di tuo padre, poi
Che si tristo voler conservi, ed hai
Fuori d’ogni ragion contra di noi.
Io di venir à questa apprezzo assai,
E degno son più che non sete voi
Ornarmi di corona; il quale honore
Esalta l’huom di gloria, e di splendore.
È ver, che sono in Ithaca parecchi
Generosi, magnanimi, e da bene,
Così d’antichi, come ancor de’ vecchi:
De’ quali, se mio padre più non tiene
Luogo tra vivi, ò al tornar troppo invecchi
Alcun la potrà haver: ma non conviene,
Che voi con tanto oltraggio, e villania
Vi facciate Signor di casa mia.
Che di questa voglio esser’io padrone,
E di tutto l’haver del padre mio.
Questo (glidisse Eurimaco) è ragione,
Ma di chi sarà il Regno è in man di Dio:
Godi pur il tuo haver, che mai persone
No’l ti torran, che fora ingiusto e rio.
Ma dimmi chi è colui, c’hai si honorato
E se noua del padre ei t’ha portato.
Telemaco à colui, sappi ch’è morto
Mio padre, e ’l suo ritorno unqua non fia:
E chi dice altrimenti, per conforto
Di mia madre lo dice, ed è bugia.
E colui, che partito è sì di corto,
Fu di mio padre amico, e avien che sia
D’Antiloco figliuol, ch’in Tasio regna,
Et ivi ha corte assai stimata, e degna.
Cosi dicea Telemaco di fuore,
Ma nel suo cuor tenea ch’ei fosse un Dio.
Or guatando color l’ira, e’l furore,
Mostrarono d’hauer cura, e desio,
Che seguitasse, (cosi fe) il cantore,
E lo ascoltar, per fin che ’l dì finio:
E poscia tutti il tetto abbandonaro
E per dormir à le lor case andaro.
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Si ridusse Telemaco ancor esso
Ne la sua Stanza, ch’era ricca, e bella:
Ove la Bália sua gli venne appresso,
Che fu del padre, e pria de l’avo ancella:
E, perche questa lo serviva spesso,
(Che molto l’havea caro, e l’amav’ella)
Accompagnollo al letto: ov’ei fermosse,
E i drappi tutti ad uno ad un spogliosse.
Questa, che nominata fu Ericlea,
Gli prende, e di sua mano gli ripone
Al loco, ove riporli ella solea,
Disponendogli tutti con ragione.
Quindi si parte, e pria l’uscio chiudea,
Et ei sul letto à riposar si pone
Ma gia non dorme, anzi il pensiero inchina
À i ricordi di Pallade divina.
Và discorrendo entro la saggia mente
I consigli si buoni di colui,
Che dimostrava esser fallacemente
Huom ne l’aspetto, e ne’ sembiantı fui
Ma, come comprendeva, veramente
Mortal non era, anzi divin costui:
Ma quivi resti; ch’io lasciar lo voglio,
Per non giunger più carta à questo foglio.
IL FINE DEL PRIMO CANTO.