L'Esclusa/Parte Seconda/Capitolo IX
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IX.
— Quando, quando ritornerai? — le domandò con fuoco l’Alvignani stringendola forte tra le braccia, su la scala.
Ella si lasciò stringere, senza rispondere: inerte, come insensata. A voler parlare, non avrebbe trovato la voce. Ritornare? Ma ora ella non arebbe più voluto andar via; non già per non sciogliersi da quelle braccia, ma perchè lì ormai si sentiva come giunta al suo fine, piombata nel suo fondo, dove tutti, tutti, tutti la avevano spinta, quasi a furia d’urtoni alle terga, e precipitata. Come ritrarsene? come ritornare più indietro? come riprendere più la lotta ormai? Era finita! Dove tutti avevano voluto ch’ella arrivasse, era arrivata. Ed egli che l’aspettava, se l’era presa; era venuto a prendersela, così, semplicemente, come se tutte le ingiustizie da lei patite gli avessero creato questo diritto su lei. Ecco perchè subito, fin dal primo vederlo, non aveva potuto resistergli e si era trovata senza volontà innanzi a lui così sicuro. Senza volontà! Questa era la sua più forte impressione.
— Mia.... mia.... mia.... — insisteva l’Alvignani, stringendola vie più forte.
Sì; sua! Cosa sua. Cosa data a lui.
Non intendendo quell’abbandono, o piuttosto, interpretandolo altrimenti, egli, com’ebbro, si chinò a susurrarle all’orecchio di trattenersi, di trattenersi ancora un poco....
— No, vado, — diss’ella, riscotendosi improvvisamente e quasi sguizzandogli dalle braccia.
Egli le prese una mano:
— Quando ritornerai?
— Ti scriverò....
E andò via. Appena sola per la strada, che circa un’ora avanti aveva percorso accanto a lui, si senti come riassalita dai proprii sentimenti, smarriti, perduti lungo l’andare, quasi che essi si fossero posti in agguato, aspettando il ritorno di lei su i proprii passi.
Si voltò a guardare, quasi sgomenta, la via da cui era uscita; poi prese ad andare in giù, frettolosa, con la mente scombuiata. E, andando, chiamava in soccorso, a raccolta, ragioni, scuse che sostenessero innanzi a lei medesima il concetto della propria onestà, quasi per farsene forte contro colui che così improvvisamente glie l’aveva tolta, e per sottrarsi nello stesso tempo all’idea che l’avviliva e la schiacciava, di essere stata tratta, cioè, quasi passivamente, a quella stessa colpa, di cui — innocente — era stata accusata. Volle costringersi a vedere, proprio, a sentire, ad assaporare in quella sua subitanea caduta, che la sconvolgeva, una vendetta, voluta, voluta da lei, la vendetta della sua antica innocenza, contro tutti.
Alla vista del collegio alla sua destra, volle con uno sforzo risollevar lo spirito. Rientrava ora in quel tratto del corso per cui era solita di passare ogni giorno. Rallentò il passo, proseguì più calma e più sicura, come se veramente si fosse lasciata dietro le spalle la colpa, solo perchè la gente, ora, vedendola, poteva pensare: “Ella torna dal collegio„. Tuttavia si sentiva ancora addosso qualcosa d’indefinibile, che avrebbe potuto tradirla, se qualcuno avesse respirato molto vicino a lei, guardandola e parlandole. Procurò di sottrarsi alla molestia di questa sensazione, guardando le note insegne delle botteghe, i noti volti di quelli ch’era solita d’incontrare ogni giorno. La colse a un tratto il timore che, parlando, le avrebbe tremato la voce; e subito le venne alle labbra questo sospiro: — “Ah, che stanchezza!„ — Pronunziò le parole tenendo attentissimo l’udito, ma come se esse esprimessero veramente quel che sentiva, e non fossero una prova immediata, suggerita dal timore improvvisamente concepito. Era la sua voce consueta, sì; ma le parve come non uscita dalla propria bocca, o come se lei stessa avesse voluto imitarla.
Notò con sollievo che nulla di nuovo era avvenuto nella vita di tutti i giorni per quella strada, che tutto insomma era come prima, e volle costringersi ad accordarsi anche lei alla uniformità consueta dei comuni casi giornalieri. Ecco, ella adesso passava sotto Porta Nuova, come jeri, come l’altro jeri. E man mano che s’appressava a casa, sentiva, così per forza di riflessione e di volontà, crescer la calma.
Maria era al terrazzo e, guardando di tra i vasi dei fiori imbasati in fila su la balaustrata, scorse giù nella via la sorella. Marta le fe’ cenno con la mano, e Maria sorrise. Nulla di nuovo, neppure in casa.
— Come.... più presto oggi? — le domandò la madre.
— Più presto? Sì.... ho tralasciato una lezione particolare.... Mi faceva un po’ male il capo.
Diceva la verità. La voce, ferma. Si rammentava del mal di capo a proposito. Sorrise alla madre e aggiunse:
— Vado a svestirmi. Maria è sul terrazzo.... L’ho vista dalla strada....
Sola, in camera, si stupì della propria calma, come se non se la fosse imposta lei stessa, a forza; si stupì di saper fingere così bene; e lo stupore era quasi soddisfazione. Si mostrò allegra quel giorno, come la madre e la sorella non la vedevano più da molto tempo.
Venuta la sera però s’accorse che non tanto per gli altri aveva bisogno di fingere, quanto per sé. Subito, per non badare alla propria inquietudine, per non star sola seco, trasse dal cassetto i compiti scolastici da correggere, come soleva ogni sera, tolse in mano la matita per segnare gli errori, e si mise a leggere, concentrando sul primo scritto tutta l’attenzione. Lo sforzo fu vano: una gran confusione le si fece nel cervello. Non potè rimaner seduta, e andò ad appoggiare la fronte che le scottava su i vetri gelidi del balcone.
Lì, con gli occhi chiusi, volle rifarsi lucidamente i minimi particolari della giornata. Ma la lucidezza dello spirito le s’intorbidava anche adesso, ricordando la passeggiata con l’Alvignani fino alla casa di lui. Egli abitava lassù, e la aveva trascinata, ignara, fino a casa sua! Ella avrebbe dovuto sciogliersi da lui, pervenuta lassù all’angolo della via. Ma come? se non aveva saputo proferire neanche una parola? Rivide la corte piena di colombi; la scala scoperta. Ecco: se la scala non fosse stata così scoperta, forse ella non sarebbe salita.... Ah, sì: certo! Le si riaffacciò innanzi lo spettacolo dell’ampia chiostra dei monti. Poi provò una strana impressione, suscitata dal ricordo d’aver cercato con gli occhi, dal terrazzo dell’Alvignani, il tetto della propria casa presso il Duomo: le parve di trovarsi ancora a guardare da quel terrazzo e di vedersi com’era adesso, lì, nella sua camera, con la fronte su i vetri del balcone.
— Tutti l’hanno voluto.... — mormorò fra sé, duramente, per ricacciar la commozione che già le stringeva la gola. — Gli scriverò, — aggiunse, aggrottando le ciglia; poi, con repentino mutamento d’animo, scrollando le spalle, terminò:
— Ormai! Così doveva finire....
E scrisse una lunga lettera che s’aggirava tutta, smaniosamente, su queste due frasi: ““Che ho fatto?„ e “Che farò?„. Il rimorso del subitaneo fallo vi si mostrava in uno slancio aggressivo di passione, nella frase appositamente ripetuta e sottolineata: — Ora son tua! — quasi per fargli paura.
“Andando in su, accanto a te, io non sospettavo.... Avresti dovuto dirmelo: non sarei venuta. Quanto, quanto sarebbe stato meglio per me e per te! Se tu sapessi quel che ho sofferto al ritorno, sola; come soffro adesso, qui, tra mia madre e mia sorella! E domani? Io mi trovo sbalzata fuori d’ogni traccia di vita, e non so come farò, quel che avverrà di me. Sono il sostegno unico di due povere donne; e io stessa sono senza guida, perduta.... Senti com’è amaro il frutto del nostro amore? Tanti e tanti pensieri v’infiltrano questo veleno. Ma com’è possibile non pensare, nella mia condizione? Tu sei libero: io no! La libertà delle anime, che tu dici, si riduce a un supplizio per il corpo incatenato....„
La lettera terminava improvvisamente, quasi strozzata dalla mancanza di spazio, a pie’ del foglietto. “Bisogna che ci rivediamo. Ti avviserò quando.... Addio„.