L'Esclusa/Parte Seconda/Capitolo X
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X.
— Oh, mia cara, quando io dico: “La coscienza non me lo permette„, io dico: “Gli altri non me lo permettono, il mondo non me lo permette„. La mia coscienza! Che cosa credi che sia questa coscienza? È la gente in me, mia cara! Essa mi ripete ciò che gli altri le dicono. Orbene, senti: onestissimamente la mia coscienza mi permette d’amarti. Tu interroga la tua, e vedrai che gli altri t’hanno ben permesso di amarmi, sì, come tu stessa hai detto, per tutto quello che t’hanno fatto soffrire ingiustamente.
Così sofisticava l’Alvignani per ammansar gli scrupoli, i rimorsi e la paura di Marta, e spesso ripeteva sott’altra forma il ragionamento, perchè appar isse più chiaro e più convincente anche a lui, e la crescente foga delle parole stordisse anche i suoi scrupoli, i suoi rimorsi e la paura non manifestati nè apertamente nè segretamente ancora a sè medesimo.
Marta ascoltava in silenzio, pendeva dalle labbra di lui, si lasciava avvolgere da quel linguaggio caldo e colorito, persuasa a credere, non convinta. Purtroppo sapeva quanto le costasse quel venir di furto in casa di lui, e che tortura al collegio, e che smanie, che angoscia, le notti! Certo quello smarrimento, in cui si agitavano dissociati tutti i suoi pensieri, tutti i suoi sentimenti, la avrebbe tradita, un giorno o l’altro. Ella avrebbe voluto essere sicura del domani. Sicura di che? Non avrebbe saputo dirlo a sè stessa; ma sentiva che non era possibile durare a lungo in quello stato, protrarre quell’esistenza. Non trovava più luogo ove stare in pace un momento: nella propria casa, la menzogna; nel collegio, la tortura; nella casa di lui, il rimorso e la paura. Dove fuggire? che fare?
Andava dall’Alvignani unicamente per sentirlo parlare, per sentirsi dire ciò che, pensando fra sè, avrebbe voluto credere: che ella non era stata vinta; che quell’uomo non s’era impadronito di lei per violenza altrui; ma che ella lo aveva voluto, e ormai doveva starci, poichè gli s’era data. L’anima ne soffriva, smaniosamente, e soltanto nelle parole di lui riposava alquanto.
— Se tu amassi più, penseresti meno, — le diceva egli. — Bisogna dimenticare tutto nell’amore.
— Ma io non vorrei pensare! — diceva Marta, con stizza.
— Vedi, io penso questo soltanto: che tu sei mia e che noi dobbiamo amarci. Guardami negli occhi: mi ami tu?
Marta lo guardava un po’, poi abbassava gli occhi, le guance le s’invermigliavano e rispondeva:
— Non sarei qui....
— E allora? — le domandava egli e le prendeva una mano e la attirava a sè.
Ella non reluttava: si abbandonava vergognosa e tremante alla carezza; poi fuggiva, credendo, al destarsi dal momentaneo oblio del tempo, che si fosse trattenuta troppo da lui.
Egli intanto non rimaneva più su l’ultimo gradino della scala, fin dove soleva accompagnarla, insoddisfatto e affascinato, come il primo giorno. Ora, appena ella svoltava per l’androne, mandandogli con la mano un ultimo triste saluto, traeva spontaneamente un sospiro, come se provasse sollievo, o forse per pietà di lei, e risaliva lentamente la scala, pensieroso.
Svaniva così a poco a poco il primo stupore quasi di sogno, il primo turbamento cagionatogli dalla vista di Marta e dalla insperata facilità con cui il suo improvviso ardentissimo desiderio s’era effettuato. Ora egli si rendeva conto del perchè e del come fosse riuscito così d’un tratto ad averla; si rendeva conto dei sentimenti di Marta per lui. No: ella non lo amava: non gli si era abbandonata per virtù d’amore. Forse in altre condizioni, sì, lo avrebbe amato; non ora che, nello scompiglio dell’improvvisa caduta, s’aggrappava a lui come un naufrago s’aggrappa ad un altro, senza probabilità di scampo, disperatamente.
Come uscirne?
— “Vorrà venire con me a Roma?„ — pensava l’Alvignani.
Egli ne sarebbe stato contento. Ma, e la madre? la sorella? Insieme con lei? Nessuna difficoltà, da parte sua. Ma come proporglielo? Ella si mostrava così altera.... e certo non avrebbe voluto piegarsi alla condizione ch’egli poteva offrirle. Questa, e non altra. Che cosa infatti avrebbe potuto fare per lei? Era pronto a tutto: aspettava un cenno.
Così pensando, l’Alvignani credeva proprio di non aver nulla a rimproverarsi.
— Ti stanco, è vero? — gli domandava ella amaramente. — Tu pensi a partire....
— Ma no, Marta! Donde lo argomenti? Mi giudichi male.... Tranne che tu non voglia venire con me....
— Con te? Se fossi sola! Vedi intanto che è vero che tu pensi a partire?
Gregorio si stringeva ne le spalle. Sospirava.
— Se non vuoi capire ciò che ti dico! Sono qui, sarò qui, con te, fino a che tu non avrai preso una decisione per il nostro avvenire. Vorrei soltanto farti contenta. Non penso ad altro....
— E come? come? Se sapessi!
— Lo so: t’intendo. Ma vedi che per me non manca?
Sì; e Marta doveva convenirne. Ma che poteva ella volere? Aveva ognuno innanzi a sé una via, o triste o lieta; ella sola, no; ella sola non sapeva ciò che le restasse da fare.
Ormai da circa due mesi si trascinava così la loro relazione, aduggiata, intristita dall’ombra della colpa che la coscienza di lei continuamente vi proiettava. Invano egli aveva tentato di rimuovere, di scuotere quest’ombra con le sue parole appassionate. Ora ne soffriva in silenzio l’oppressione, accrescendo il peso della comune tristezza con la propria inerzia, per renderla ad entrambi alla fine insopportabile.
— Tocca a te di decidere. Io te l’ho detto: sono pronto a tutto.
Partirsene, tornarsene a Roma, adducendo per lettera una scusa qualsiasi: l’improvviso richiamo per qualche urgente affare professionale? Così ella avrebbe forse trovato un po’ di calma; e, nella calma, qualche decisione. No: dopo matura riflessione, aveva scartato questo partito come troppo violento. Sarebbe stato forse meglio proporle apertamente di finirla: non per lui; per lei che già ne soffriva tanto. Ma anche questo partito fu respinto da Gregorio Alvignani in previsione di qualche scena disgustosa. Meglio aspettare che a tal passo fosse venuta lei, da sè.
Sopraggiunse intanto una notizia inattesa, che sconvolse in diverso modo Marta e l’Alvignani. Anna Veronica annunziò in una lunga lettera che Rocco Pentàgora era gravemente ammalato, di tifo, e che già i medici disperavano di salvarlo.
Marta allibì nel leggere questa lettera che le giungeva come immediata, odiosa risposta ai voti disperati delle sue notti insonni, voti che la coscienza intimamente disapprovava, poichè ella ormai non si riconosceva più alcun diritto di sperare su la morte del marito. Eppure, quante volte, dibattendosi sul letto, non aveva pregato:
— Se morisse!
Moriva — ecco. Era per morire davvero.
In preda a una vivissima agitazione, ella si recò a comunicare la notizia all’Alvignani.
Questi restò perplesso a guardare Marta che lo spiava acutamente. Si guardarono un tratto, ed egli ebbe quasi l’impressione che il silenzio della stanza attendesse una sua parola, come se la morte fosse entrata e sfidasse il loro amore a parlare.