L'Anarchia
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PENSIERO - n. 5
RECLUS
l’Anarchia
Settima Edizione Edita a cura della Casa Editrice CAMILLO DI SCIULLO in Castellamare Adriatico |
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L'Anarchismo non è una teoria nuova. Il termine medesimo «anarchia», nel senso di assenza di governo, società senza capi, è assai antico ed era adoperato molto tempo prima di Proudhon.
Del resto, la parola che importa? Vi furono gli «acrati» prima degli anarchici; e gli acrati non avevano ancora trovato il proprio nome scientifico, che già innumerevoli generazioni si succedettero l'un l'altra. In tutti i tempi vi sono stati uomini spregiudicati, disprezzanti ogni idea di legge, individui che vissero senza padroni in virtù del loro naturale diritto all’esistenza ed al pensiero.
Fin nelle epoche più remote rinveniamo notizie di tribù che vissero all'infuori di ogni legge confezionata dagli uomini, sene altra regola alla loro condotta che la propria volontà e discernimento, come direbbe Rabelais, e spinte anche dal desiderio di creare una fede profonda, al pari dei pii cavalieri e delle dame gentili che s’erano adunati nella abbadia di Theleme.
Ma pur essendo l'anarchia antica così quasi come l'umanità stessa, i seguaci odierni di questa idea insegnano ciò nullameno sempre qualche cosa di nuovo. Essi hanno una concezione precisa di ciò che si propongono di raggiungere, e da un capo all’altro del mondo sono all’unisono col loro ideale, nel negare ogni forma di governo. Il sogno di una libertà universale, ha finito di essere una mera utopia filosofica e letteraria, come era il caso dei sognatori della Città del Sole e della Nuova Gerusalemme; bensì è divenuto l'aspirazione attiva, nella vivente realtà, di una moltitudine di uomini compatti che uniti collaborano risolutamente alla fondazione d’una società, in cui non ci saranno nè padroni, nè conservatori ufficiali della moralità pubblica, nè carceri, nè carnefici, nè ricchi, nè poveri, ma solo degli uguali di diritto, tutti fratelli a nessuno dei quali manchi la sua parte di pane quotidiano e che vivranno in pace ed armonia fra loro, non per obbedienza alla legge che è accompagnata sempre da minacce e da pene, ma per il reciproco rispetto degli interessi e la scientifica osservanza delle leggi naturali.
Senza dubbio questo ideale sembra chimerico a molti di voi, ma son sicuro anche se vi parrà desiderabile; che anche voi, cioè, avrete qualche volta pensato, sia pure alla lontana, ad una società pacifica, in cui gli uomiui, riconciliati alfine, lasceranno arruginire le spade, fonderanno i cannoni e disarmeranno le navi da guerra. Del resto, non siete voi quelli che da lungo tempo, da migliaia di anni come dite, lavorano a costruire il tempio della uguaglianza?
Voi siete liberi muratori1 al solo scopo di fabbricare un edificio di perfette proporzioni in cui non possano entrare che uomini liberi uguali e fratelli, lavoratori senza riposo per il proprio funzionamento, rinati per virtù dell'amore ad una nuova vita di giustizia e di bontà.
Se è così, voi non siete soli2.
Voi non pretenderete, spero, al monopolio dello spirito di progresso e di rinnovamento; non commetterete così l’ingiustizia di dimenticare i vostri avversari naturali, quelli che vi maledicono e vi scomunicano, i cattolici che dannano al fuoco eterno i nemici della Chiesa, ma che non hanno meno di voi profetizzato l’avvento di un tempo di pace definitiva. Francesco d’Assisi, Caterina da Siena, Teresa D’Avila, e tanti altri tra i fedeli di una fede che non è affatto la nostra, amarono certo l’umanità dell’amore il più sincero e noi dobbiamo contarli fra coloro che vissero per un ideale di benessere universale. Ed anche milioni e milioni di socialisti, a qualunque scuola appartengano, lottano per un avvenire in cui la potenza del capitale sarà distrutta e gli uomini potranno dirsi «eguali» senza ironia.
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Così le aspirazioni degli anarchici hanno parecchi punti di contatto con quelle di molti uomini di cuore e generosi delle differenti religioni, sette e partiti; ma si distinguono da tutti nella scelta dei metodi da seguire, in modo, come lo dice lo stesso nome, il meno ambiguo.
La conquista dei pubblici poteri: ecco il pregiudizio maggiore di tutti i rivoluzionarii di ieri e di oggi, anche i meglio intenzionati. La educazione ricevuta non permette loro di concepire una società libera, senza un governo regolare; e seguendo le proprie idee preconcette, non appena riescono ad abbattere i padroni odiati, si affrettano a sostituirli con altri, destinati secondo la formola consacrata, a «far la felicità del loro popolo».
Per solito non si osa preparare un cambiamento di dinastia o di governo, senza far omaggio di obbedienza al sovrano futuro: «Il re è ucciso! viva il re!» gridano gli schiavi, che rimangono schiavi anche nella ribellione.
Durante secoli e secoli, tale è stato immancabilmente il corso della storia. «Come si farebbe a vivere senza padrone?» domandansi i sudditi, le donne, i fanciulli, i lavoratori della città e delle campagne e, deliberatamente, hanno piegata sempre la testa e offerto il collo al nuovo gioco, come il bue che tira l’aratro. Chi non ricorda gl’insorti del 1830, che dicevano di volere la migliore delle repubbliche, nella persona del nuovo re, ed i repubblicani del 1848 che modestamente ritornavano ai loro tuguri dopo aver messi «tre mesi di miseria a servizio del governo provvisorio!» In quel tempo stesso scoppiò una rivoluzione in Germania, e nel parlamento che si riunì a Francoforte uno dei rappresentanti avendo esclamato: «l’antica autorità è ridotta un cadavere,» il presidente dell’assemblea gli rispose: «Noi la risusciteremo! Chiameremo nuovi uomini, che sapranno riconquistare al governo la fiducia della nazione».
È proprio il caso di ripetere il verso di Victor Hugo: «Gli istinti vecchi dell'uomo lo riconducono all'infamia».
Contro questo istinto l'ananchia rappresenta veramente lo spirito nuovo. Voi non potete accusare gli anarchici di voler sbarazzarsi di un governo per sostituirsi a lui. Il levati di lì, ci vo star io, è la frase di cui essi hanno più orrore, ed a priori disprezzano, o almeno sentono pietà per chiunque, preso dalla tarantola del potere, briga per conquistarlo sotto il pretesto di fare, anche lui, il bene del popolo.
Gli anarchici, appoggiandosi alla esperienza storica ed alla osservazione, concepiscono lo Stato non come una pura entità, o formula filosofica, ma come un certo numero di persone poste in un ambiente speciale e destinate quindi a subirne l’influenza.
Queste persone elevate a maggiori dignità, al potere, ad un trattamento superiore a quello degli altri cittadini, sono perciò solo forzati, per così dire, a credersi essi stessi superiori alla gente comune; e frattando le seduzioni che li assediano e le tentazioni li fanno cadere fatalmente al disotto del livello generale.
Ciò noi ripetiamo, senza stancarci mai, ai nostri fratelli — troppo spesso fratelli-nemici — i socialisti autoritari: «In guardia dai vostri capi e dai vostri rappresentanti! Essi sono certamente come voi inspirati dai migliori propositi; desiderano ardentemente l’abolizione della proprietà privata e della tirannia dello Stato; ma le relazioni e le occasioni nuove li cambiano a poco a poco: la loro morale in stretta connessione col loro interesse si altera, e, pur credendosi sempre fedeli alla causa dei loro rappresentati, le divengono per forza di cose infedeli.
Anche essi, divenuti detentori del potere, dovranno servirsi degli strumenti di potere: esercito, preti, magistrati, carabinieri, poliziotti e spie.
Sono già passati più di tremila anni, dacchè il poeta degli Hindu che scrisse il Maha Bharata, riassunse in queste parole l'esperienza dei secoli: «L’uomo che va in carrozza non sarà mai l'amico dell’uomo che va a piedi».
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Gli anarchici hanno, a proposito dei governi, l'opinione che si informa ad un principio reciso di negazione.
Secondo loro la conquista dai pubblici poteri non può servire che a prolungarne la vita insieme con la schiavitù corrispondente. Non è dunque senza ragione che il nome di anarchici, il quale dopo tutto non ha che un significato negativo, resta quello con cui noi siamo universalmente designati e conosciuti.
Potremmo anche dirci, come infatti qualcuno preferisce, libertari, ovvero armonisti, dal libero accordo delle volontà che, secondo noi, sarà la base della società futura; ma questi nomi non ci differenziano abbastanza dagli altri socialisti.
Ciò che ci distingue è la lotta contro ogni potere ufficiale; ciascuna individualità, essendo per dir così, centro dell’universo, e ciascuno avendo lo stesso diritto al proprio sviluppo integrale, all’infuori dell’intervento di un potere che lo diriga, lo disciplini e lo castighi.
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Voi conoscete il nostro ideale. La prima obbiezione che ad esso si fa è, innanzi tutto, questa: «È desso veramente nobile, e merita il sacrificio degli uomini a lui devoti ed il rischio terribile di una rivoluzione? È pura la morale anarchica? e nella società libertaria, se si costituirà, l'uomo sarà migliore che non in una società basata sul timore del potere e della legge?
Rispondo con tutta sicurezza, e voi lo affermerete con me ben tosto: «Sì! la morale anarchica è quella che maggiormente corrisponde alla concezione moderna della libertà e della giustizia».
Il fondamento della vecchia morale, lo sapete, non era che il timore e lo spavento, come dice la Bibbia, e come vi hanno insegnato in gioventù. «Il timor di dio è il principio d’ogni virtù»; tale è stato fino a poco tempo fa il concetto da cui si partiva per la educazione degli spiriti. La società insomma era fondata sul terrore.
Gli uomini non erano cittadini, ma sudditi e pecore; le spose erano serve; i fanciulli piccoli schiavi, su cui i genitori avevano un resto dell’antico diritto di vita e di morte.
Dappertutto, in tutte le relazioni sociali, si rivelavano i rapporti avvilenti di superiorità ed inferiorità.
Ed anche oggi il principio stesso dello Stato, e di tutte le altre autorità subordinate che lo costituiscono, riposa sulla gerarchia: è la sacra autorità propriamente detta.
E questa dominazione sacrosanta porta con se tutta una serie di classi sovrapposte l’una all’altra, di cui quelle che stanno più in alto hanno il diritto di comandare, e le altre, in basso, tutto il dovere di obbedire.
La morale ufficiale vuole che ci si inchini davanti ad un superiore, salvo poi ad esser superbi con gl’inferiori. Ciascuno deve avere due faccie, come Giano, due sorrisi, l’uno premuroso e spesso servile, l’altro superbo e pieno di degnazione. Il principio d’autorità — così ha nome questa morale — esige che il superiore non abbia mai torto, e che in ogni discussione sia sempre l’ultimo a dire la sua. Sopratutto bisogna che sia ubbidito.
Ciò semplifica tutto: in tal modo non v’è bisogno di ragioni, di spiegazioni, di dubbi, di discussioni, di scrupoli. Gli affari camminano da sè, bene o male che vadano! È anche quando non c’è presente un padrone a comandare, non ci sono formule belle e fatte, ordini, decreti, regolamenti e leggi, compilate da padroni assoluti o legislatori di gradi diversi?
Queste formule costituiscono gli ordini diretti ed immediati; e devono essere osservate senza cercare se sono o no conformi alla voce interna della propria coscienza.
Mentre invece tra uomini uguali la cosa è diversa; più difficile è per ciascuno la sua funzione nella società, ma è più degna. Occorre cercare con un pò di sacrificio la verità, sapere ciascuno il suo dovere, imparare a conoscer sè sfosso, curare continuamente la propria educazione, condursi in modo da rispettare il diritto e gli interessi dei compagni.
Solo a questo modo si può divenire un essere veramente morale, e si può acquistare l’esatta coscienza della propria responsabilità.
La morale non è un comando cui si ubbidisce, una parola che si ripete, una cosa puramente esteriore all’individuo; bensì una parte dell’essere stesso, quale diviene, ed un prodotto della vita. Così noi anarchici comprendiamo la morale; e non abbiamo dunque il diritto di paragonarla con soddisfazione alla morale vecchia trasmessaci dagli avi?
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Mi darete voi ragione? No! Piuttosto molti fra voi pronuncieranno in risposta la parola «chimera!»
Per intanto siamo soddisfatti che nel nostro ideale vediate una nobile chimera; ma io vo anche più lungi, e vi dico e sostengo che il nostro ideale, il nostro concetto sulla morale, è completamente nel dominio della logica storica, un risultato naturale della evoluzione dell’umanità.
Oppressi dal terrore dell’ignoto, come pure dal sentimento della loro impotenza nella ricerca delle cause, gli uomini hanno in passato creata una o più divinità provvidenziali nel loro intenso desiderio, le quali rappresentavano per loro, volta a volta, un ideale più o meno informe ed il punto d’appoggio, il fulcro di tutto questo mondo misterioso, visibile ed invisibile, che ne circonda.
Tali fantasmi della immaginazione, rivestiti di onnipotenza, divennero agli occhi degli uomini il principio d’ogni giustizia ed autorità; padroni del cielo, ebbero per conseguenza, interpreti sulla terra, maghi, consiglieri, capitani, davanti ai quali gli uomini si prostrarono come se quelli fossero davvero emanazione dall’alto.
Era logico; ma l’uomo dura più delle sue opere, e questi iddii da lui creati non hanno cessato di trasformarsi continuamente, come ombre proiettate nell’infinito. Visibili da principio, animati da passioni umane, violente e terribili, rincularono a poco a poco nella lontananza immensa; finirono col diventare astrazioni, idee sublimi alle quali non si può dare un nome, finchè non arrivarono gradatamente a confondersi con le stessi leggi naturali del mondo; e rientrarono così nell’universo materiale, che secondo la leggenda avevano creato dal nulla.
Così l’uomo oggi si vede solo sulla terra, al disopra della quale aveva già innalzato la immagine colossale di un Dio.
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La concezione delle cose va sempre più cambiando. Se Dio si dilegua, coloro che da lui derivano il diritto di comandare vedono anch’essi sparire il proprio falso splendore, e sono costretti a rientrar nelle file e accomodarsi all’ambiente. Oggi non sarebbe possibile trovare un Tamerlano capace di comandare ai suoi quaranta cortigiani di gettarsi dall’alto di una torre e sicuro di vedere, in un batter d’occhio, di tra i merli, quaranta cadaveri informi e sanguinolenti.
La libertà di pensare ha reso anarchici tutti gli uomini, senza che questi se ne sieno accorti. Chi mai, ora, non si riserba un cantuccio del proprio cervello per riflettere e pensare a suo modo? Ed ecco precisamente il più grande dei delitti, il peccato per eccellenza simbolizzato dal frutto dell’albero che rivelò all’uomo la scienza del bene e del male. Di qui viene l’odio che la chiesa ha sempre portato alla scienza; e qui aveva origine il furore con cui Napoleone, un Tarmerlano moderno, trattava sempre gli «ideologi».
Ma gli ideologi sono venuti! essi hanno soffiato sulle illusioni di un tempo come su bolle di sapone, ricominciando daccapo tutto un lavoro scientifico di osservazioni ed esperienze. Uno di essi, nichilista prima dei tempi nostri, e anarchico se ve ne fu mai, almeno a parole cominciò col fare «tabula rasa» di tutto quanto aveva imparato. Ed ora non vi è scienziato o letterato che non sostenga di essere egli stesso il proprio maestro modello, il pensatore originale del proprio pensiero, il moralista della propria morale.
«Se tu vuoi elevarti, elevati da te» disse Goethe.
E gli artisti non cercano anche loro di riprodurre la natura tal quale la vedono, la sentono e la comprendono? È vero che ordinariamente per essi trattasi di una specie di «anarchia intellettuale» non rivendicante la libertà che per la classe privilegiata dei Musageti arrampicatasi sul Parnaso! Ciascuno di essi vuol pensare liberamente e cercare a suo piacere un ideale nell’infinito, pur dicendo però che occorre «una religione per il popolo». Desidera vivere da uomo indipendente, ma, secondo lui, «l’obbedienza è fatta per le donne»; vuol creare opere originali, ma la «folla dei bassifondi» deve rimanere asservita come una macchina all’ignobile funzionamento della divisione del lavoro.
Tuttavia questi aristocratici del gusto e del pensiero non hanno più la forza di tener serrate le cateratte traverso le quali si riversano i flutti. Se la scienza, la letteratura e l’arte sono divenute anarchiche, se ogni progresso, ogni nuova forma di beltà sono dovuti all’espandersi del libero pensiero, questo pensiero esercita la sua influenza anche nei più bassi strati della società, ed ora non è più possibile rattenerlo. È troppo tardi ormai per poter arrestare il diluvio.
La diminuzione del rispetto e della riverenza non è forse un fenomeno tutto proprio della società contemporanea? Io ho veduto un tempo in Inghilterra migliaia di persone affollarsi per veder passare l’equipaggio vuoto di un gran signore; questo oggi non sarebbe più possibile. Nell’India, poco fa, i paria si arrestavano devotamente a cento quindici passi di distanza, regolamentari, dall’orgoglioso bramino; ma da quando si affollano insieme nelle stazioni ferroviarie, non sono più separati che da una semplice sala d’aspetto.
Esempi di bassezza e di vigliaccheria non sono certamente rari anche oggigiorno; ma nondimeno vi è un notevole progresso verso l’eguaglianza. Prima di umiliare si avviene di esaminare se l’oggetto della propria venerazione, uomo o istituzione che sia, la meriti o no; si studia il valore degli individui, l’importanza delle opere. La fede nella grandezza è finita; e, dove non c’è più fede, anche le istituzioni scompaiono alla loro volta. Questo estinguersi del sentimento di rispetto implica come conseguenza pratica la soppressione dello Stato.
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L’azione di critica irrispettosa, alla quale è sottoposto lo Stato, si esercita ugualmente contro tutte le istituzioni sociali. Il popolo non crede, proprio non crede più in nessun modo, all’origine pura della proprietà privata, prodotta, dicevano gli economisti (ora non osano più ripeterlo) dal solo lavoro personale dei proprietari; sa bene che il lavoro individuale non ha mai creato milioni sopra milioni, e che gli arricchimenti mostruosi dei nostri giorni sono tutti una conseguenza del falso assetto sociale, che dà ad un solo il diritto di appropriarsi il prodotto del lavoro di mille altre persone. Questo popolo rispetterà il pane che il lavoratore faticosamente s’è guadagnato, la capanna che s’è costruita con le proprie mani, il giardino che coltiva, ma perderà certamente ogni rispetto per le mille proprietà fittizie rappresentate dalle carte d’ogni specie depositate nelle banche.
Giorno verrà, io non ne dubito, che egli riprenderà tranquillamente possesso di tutti i prodotti del comune lavoro, miniere e poderi, officine e castelli, ferrovie, navigli e mercanzie.
Quando la moltitudine, questa moltitudine «vile» di una vigliaccheria che è la conseguenza fatale della ignoranza, avrà cessato di meritare l’aggettivo con cui la si insulta, e si sarà convinta che l’accaparramento di tanti averi immensi riposa unicamente sur una finzione chirografica sulla fede di innumerevoli e inutili carte bleu, lo stato sociale sarà minacciato molto seriamente!
In presenza della profonda evoluzione, irresistibile, che si determina in ciascun cervello d'uomo, come sciocche e senza senso comune sembrano le grida ostili da forsennati che si lanciano contro i novatori! Che importano le parole turpi rovesciate loro addosso da una stampa obbligata a compensare con tanta prosa sussidi inconfessabili, che importano anche gli insulti proferiti in buona fede contro noi da quei devoti «santi ma semplici» che portavano legna da ardere sul rogo di Giovanni Huss?
Il movimento che ci trascina non è determinato da semplici energumeni e da poveri sognatori, ma da tutta la società intera. Esso è divenuto necessario alla evoluzione del pensiero, ormai fatale, ineluttabile, come la rotazione della terra e degli astri.
Tuttavia un dubbio potrebbe sorgere, se cioè l’anarchia può mai esser altro che un ideale, un esercizio intellettuale, o un elemento di dialettica; se può avere una realizzazione concreta; se è possibile un organismo spontaneo in cui le forze libere dei compagni che lavorano in comune possano svilupparsi senza un padrone che loro comandi.
Questo dubbio può essere facilmente dissipato. Organismi libertari sono esistiti in tutti i tempi; e se ne formano incessantemente di nuovi, ogni anno più numerosi, secondo il progresso delle iniziative individuali.
Potrei, fra l'altro, citare alcune popolazioni, dette selvaggie, le quali anche ai giorni nostri vivono in una perfetta armonia sociale senza bisogno di capi, di leggi, di barriere e di polizia. Ma non insisto su questi esempi, che pure hanno la loro importanza, poichè temo che mi si obbietti la poca complessività di quelle società primitive, in paragone al nostro mondo moderno, organismo immenso in cui si intersecano altri innumerevoli organismi con una complicazione infinita.
Lasciamo dunque da parte queste tribù primitive per occuparci soltanto delle nazioni già formate, aventi tutto un sistema di organizzazione politica e sociale.
⁂
Certo, nei tempi storici, io non saprei citarvi alcun popolo che propriamente sia stato costituito in società del tutto anarchica, perchè in tali periodi gli uomini si sono trovati sempre in uno stato di lotta fra elementi diversi non ancora solidali; ma ciò che facilmente può essere constatato è che ciascuna società parziale, benchè non fusa in un insieme armonico, tanto più era prospera e produttrice quanto più era libera, quanto meglio vi si riconosceva e stimava il valore personale di ciascun individuo.
Dopo le età preistoriche in cui le società nacquero alle arti, alla scienza, all’industria, senza che annali scritti abbiano potuto conservarcene la memoria, i più grandi periodi della vita delle nazioni sono stati quelli nei quali gli uomini, commossi e sollevati dalle rivoluzioni, meno ebbero a soffrire delle lunghe e pesanti strettoie di un governo regolare.
Due grandi periodi infatti nella umanità ci sono stati, insigni per il movimento di scoperte, per la efflorescenza del pensiero, per la magnificenza dell’arte, e questi furono appunto in tempi torbidi, in momenti di «pericolosa libertà». L’ordine regnava nell’immenso impero dei Medi e dei Persiani, ma nulla di grande ne usci, mentre la Grecia repubblicana, agitata senza requie, tormentata da continue scosse, ha dato la luce agli iniziatori di tutto ciò che abbiamo di alto e di nobile nella civiltà moderna: ci è impossibile pensare, oggi, elaborare un’opera qualsiasi, senza che il nostro spirito sia ricondotto verso quei Greci liberi che furono i nostri precursori e sono ancora i nostri modelli.
Duemila anni più tardi, dopo tante tirannie, tanto tempo di tetra oppressione che pareva non dovesse mai finire, l'Italia, la Fiandra, la Germania, tutta l'Europa del tempo dei Comuni tenta e riesce a prender lena di nuovo; rivoluzioni strepitose scossero il mondo. Ferrari non conta meno di settemila sommosse locali nella sola Italia: ma anche il fuoco del pensiero libero avvampò con le insurrezioni, e fece rifiorire l’umanità, la quale con i Raffaello, i Leonardo da Vinci, i Michelangelo si sentì giovane per la seconda volta.
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Venne poi il secolo illustre della Enciclopedia con le rivoluzioni mondiali che la seguirono, e la proclamazione dei diritti dell’uomo.
Tentate, se potete, enumerare tutti i progressi che si sono compiuti dopo quella grande scossa dell’umanità. Non si direbbe forse che in questo ultimo secolo si è concentrata più della metà della storia? Il numero degli esseri umani si è accresciuto di più che mezzo miliardo; i commerci sono dieci volte raddoppiati, l’industria si è come trasfigurata, e l’arte di modificare i prodotti naturali si è arricchita meravigliosamente scienze nuove sono apparse, e, checchè se ne dica, un terzo periodo per l’arte è incominciato; il socialismo cosciente e mondiale è noto e si è manifestato in tutta la sua ampiezza. Abbiamo, insomma, coscienza di vivere in un secolo di grandi problemi e di grandi lotte.
Sostituite col pensiero questi cento anni, saturi della filosofia del secolo XVIII, con un periodo senza storia in cui quattrocento milioni di pacifici cinesi abbiano vissuto sotto la tutela di un «Padre del popolo», di un tribunale dei riti, e mandarini con tanto di diplomi. Lungi dal vivere la vera vita, come abbiam fatto, saremmo stati gradualmente ricondotti verso la inerzia e la morte.
Se Galileo, rinchiuso nel carcere dell’Inquisizione, non potè che mormorare sordamente: Eppur si muove! noi oggi grazie alle rivoluzioni e alle violenze del libero pensiero, possiamo gridar invece sui tetti e per le piazze a gran voce: Il mondo si muove e continuerà il suo cammino!
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All’infuori del movimento generale che trasforma grado a grado la società intiera nella direzione del pensiero libero, della morale libera, dell’anarchia insomma nella sua vera essenza, esiste anche un lavoro di esperienze diretta che si manifesta per mezzo della fondazione di colonie libertarie e comuniste: sono piccoli tentativi che si possono paragonare alle esperienze di laboratorio che fanno i chimici e gli ingegneri.
Questi saggi di comuni modelli hanno il torto maggiore di esser fatti al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e cioè lontano dalle città, in cui si ammassano gli uomini, sorgono le idee e si rinnovano le intelligenze. Però si possono citare parecchi di questi tentativi riusciti completamente; fra gli altri quello della «Giovane Icaria», trasformazione della colonia di Cabet, fondata da più di mezzo secolo coi principii del comunismo autoritario: essa di migrazione in migrazione diventò puramente anarchica, ed oggi vive di una modesta esistenza nel territorio del Ioura, presso la riviera Desmoines (Stati Uniti).
⁂
Ma dove la pratica anarchica trionfa di più è nella vita ordinaria, fra la gente del popolo; la quale certo non potrebbe sostenere la lotta terribile dell’esistenza se non si aiutasse scambievolmente e spontaneamente, senza differenza o rivalità di interessi.
Quando uno di essi cade malato, altri poveri prendono con sè i figli di lui: lo nutriscono, gli fan parte della magra pietanza della settimana, cercano di soddisfarne i bisogni lavorando qualche ora di più. Tra vicini una specie di comunismo si stabilisce col prestito, il va e vieni degli utensili casalinghi e delle provvigioni. La miseria unisce i disgraziati in una lingua fraterna: insieme hanno fame, insieme si sfamano. Morale e pratica da anarchici sono perfino in certe riunioni di borghesi, da cui a prima vista, ci sembrano del tutto assenti. Immaginate, infatti, una festa di campagna in cui qualcuno, sia esso l’ospite o un invitato, affetti arie da padrone, permettendosi di comandare o di fare indiscretamente prevalere il suo capriccio! Non sarà forse ciò la morte di tutto il divertimento, la fine d’ogni piacere? Non può esservi gaiezza che fra uomini liberi, fra gente che può gioire a modo suo, a gruppi se così lor piace, ma vicini e mescolantisi a lor grado gli uni cogli altri, poichè soltanto così le ore passate insieme sembrano più dolci.
⁂
Permettete, per mostrarvi come anche dove si crede esser necessaria l’autorità, essa sia perfettamente inutile, che vi narri un ricordo personale.
Si viaggiava sopra uno di quei bellissimi piroscafi moderni, che fendono superbamente i flutti con una velocità di 15 o 20 nodi all’ora e che percorrono la loro strada in linea retta da continente a continente malgrado i venti ed i marosi. L’aria era calma, la sera era dolce e le stelle apparivano ad una ad una, scintillanti nel cielo nero. Si parlava sul cassero: e di che si doveva parlare se non della eterna questione sociale che ci tiene avvinti e stretti alla gola come la sfinge di Edipo? Il reazionario della comitiva era vivamente incalzato dai suoi interlocutori, tutti più o meno socialisti.
Ad un tratto egli si rivolge verso il capitano, sperando di trovare in lui, come capo e padrone, un difensore naturale dei «sani» principii. «Qui comandate voi, non è vero? ed il vostro potere è sacro. Che ne sarebbe del bastimento, se non fosse diretto dalla vostra costante volontà?».
«Ingenuo, che voi siete! — rispose il capitano — Io posso assicurarvi che d’ordinario la mia persona non serve proprio a nulla. L’uomo al timone tiene il naviglio sulla retta via; fra qualche minuto un altro timoniere prenderà il suo posto e noi continueremo lo stesso il cammino. A basso, i fuochisti e i macchinisti lavorano senza bisogno del mio aiuto senza mio consiglio, e fanno tutto meglio che se io stessi lì a guidarli. E tutti questi gabbieri, i marinai, sanno tutto ciò che loro spetta fare, e all’occassione io non posso far altro che aggiungere la mia piccola parte di fatica alla loro, più gravosa ed assai meno retribuita della mia. Veramente, si dice che io guido il piroscafo; ma non vedete voi stessi che questa è una vera e propria menzogna? Le carte geografiche sono là, nel mio gabinetto; ma non fui io a disegnarle. La bussola ci dirige; ma non sono stato io a inventarla o fabbricarla.
«Per noi si è scavato il porto da cui siamo partiti, e quello a cui siamo diretti. E questo naviglio superbo, che sotto i colpi furiosi del mare cigola appena, e maestosamente si dondola sui flutti, che fila tranquillamente con la massima velocità sotto la pressione del vapore, non fui io che lo costrussi».
«Che cosa sono dunque io, in confronto dei grandi morti, degli inventori e degli scienziati che ci hanno preceduto ed insegnato a traversare i mari? Siamo i loro associati, io ed i marinai miei compagni, ed anche voi, perchè mentre è per voi che traversiamo il mare, in caso di pericolo contiamo anche sul vostro aiuto fraterno per salvarci. L’opera nostra è comune e tutti siamo solidali gli uni cogli altri».
Tutti tacquero, ed io mi scolpii nella memoria le parole di quel capitano, simile al quale se ne trovan pochi. Quel piroscafo, dunque, quel piccolo mondo galleggiante, dove le punizioni erano sconosciute, portava a traverso l’Oceano una repubblica modello, malgrado le divisione gerarchiche nominali.
⁂
E questo non è un esempio isolato.
Tutti conoscono, almeno per averne sentito parlare, quelle scuole in cui il professore, malgrado la severità dei regolamenti, mai applicati, conta nei suoi allievi null’altro che amici e collaboratori. L’autorità competente ha tutto provveduto e immaginato per punire i piccoli cattivi, ma il maestro, che non è se non un amico più adulto, non sa che farsi degli arnesi di repressione, tratta i fanciulli come fossero uomini, facendo appello alla loro buona volontà ed intelligenza, al loro senso di giustizia, e tutti vi corrispondono con gioia.
Così una minuscola società anarchica, veramente umana, si trova formata, malgrado il mondo e l’ambiente tutto abbiano immaginato per impedirlo: leggi, regolamenti, esempi cattivi, pubblica immoralità.
Sempre nuovi gruppi anarchici sorgono senza posa, malgrado i vecchi pregiudizi ed il peso ingombrante, degli antichi costumi. Il nuovo mondo da noi auspicato spunta tutto intorno, come germinerebbe un nuovo fiore fra vecchie macerie. Non solo esso non è chimerico, come si ripete spesso, ma già vive e si mostra sotto mille forme. Cieco è chi non sa vederlo! Invece, se c’è una società chimerica, impossibile, è proprio questo pandemonio in cui viviamo noi.
Voi riconoscerete che io non ho abusato della critica così facile a farsi della società presente, quale è costituita sulle basi del principio d’autorità e della lotta feroce per l’esistenza. Ma, insomma, se è vero, secondo la definizione della parola, che società significa un insieme di individui che si accostano e si accordano per il comune benessere, certo non si può dire, senza dire una assurdità, che la massa caotica umana odierna costituisca una società!.
Secondo i suoi avvocati, — ogni causa cattiva conta i suoi — la società odierna avrebbe per iscopo l’ordine perfetto per mezzo della soddisfazione degli interessi di tutti.
E non è una ironia sostener ciò, quando si assiste agli orrori della cosidetta civiltà europea, con tutta la serie continua dei suoi drammi intestini assassini e suicidii, violenze e fucilate, deperimento e fame, furti, inganni e delitti di ogni specie, truffe, fallimenti, disastri e ruine?
Chi di noi, uscendo di casa, non vede sorgersi vicino lo spettro del vizio e della fame?
⁂
Nella nostra Europa vi sono più di cinque milioni di uomini che non aspettano che un segnale, per scagliarsi su altri uomini, ucciderli, bruciarne le case e i raccolti. E ci sono altri dieci milioni della riserva, fuori delle caserme, pronti anche essi ad essere chiamati a compiere la stessa opera di distruzione.
Cinque milioni e più di sventurati vivono, o meglio vegetano, nelle prigioni, condannati a pene diverse: ogni anno muoiono in media dieci milioni di uomini di morte anticipata; e su trecentosettanta milioni di viventi, trecentocinquanta, per non dir tutti, fremono nell’ansia giustificata di un incerto domani. Chi può essere sicuro, malgrado la immensità delle ricchezze sociali, che un improvviso rovescio di fortune non possa mai gettarlo nella miseria?
Questi sono fatti che nessuno può contestare e che dovrebbero, mi sembra, ispirare a tutti la ferma risoluzione di cambiare uno stato di cose divenuto insopportabile.
Ebbi un giorno occasione di parlare con un alto funzionario, portato dalle necessità della vita nel mondo di coloro che fabbricano leggi e dettano pene: «Ma difendete dunque — io gli dissi — la vostra società!» «Come volete che la difenda — mi rispose — se la sua è una causa insostenibile?».
Nonostante, la società presente si difende lo stesso; ma con argomenti che non sono ragioni: col bastone, il carcere ed il patibolo......
D’altra parte coloro che lo attaccano possono farlo in tutta la intera e completa serenità della propria coscienza.
Certo, il movimento di trasformazione porterà con sè inevitabilmente violenze e rivoluzioni; ma la società attuale è forse qualche cosa di diverso da una organizzazione di continue violenze e di rivoluzione permanente? E nelle alternative della guerra sociale, quali saranno i responsabili? Coloro che proclamano un’era di giustizia e di uguaglianza per tutti, senza distinzione di classi o di individui — o gli altri che vogliono mantenere le separazioni e per conseguenza gli odi di casta e di classe, coloro che aggiungono leggi repressive, e non sanno risolvere le questioni che con la fanteria, la cavalleria e l’artiglieria!?
La storia ci permette di affermare con la massima certezza che una politica di odio non può generare che odio, che aggravare fatalmente la situazione generale, e trascinarci ad una rovina definitiva. Quante nazioni sono perite così, oppressori insieme ed oppressi! Vorremo dunque, alla nostra volta, perire anche noi?
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Io spero che no, in virtù del pensiero anarchico che si avanza di giorno in giorno, risvegliando e rinnovando l'iniziativa umana.
Voi stessi, non siete forse, se non anarchici, inconsciamente molto tendenti all’anarchismo?.
Chi di voi, nell’animo, nel segreto della propria coscienza, si crederà sul serio superiore al suo vicino, e non riconoscerà in lui un fratello ed un uguale?.
La morale che fu tante volte proclamata a parole diverrà certo realtà.
Noi anarchici sappiamo che questa morale di perfetta giustizia, di libertà e di uguaglianza è la vera, e crediamo in lei e di lei viviamo con tutto il nostro essere — mentre i nostri avversari si aggirano nell’incertezza.
Essi non sono sicuri di aver ragione; in fondo hanno, anzi la convinzione di essere nel torto, e anticipatamente, lasciano in poter nostro il mondo.
Note
- ↑ Questo lavoro doveva essere il testo di una conferenza da farsi in una loggia massonica.
- ↑ Non è così, però. Del resto Eliseo Reclus in una prefazioncina a questo lavoretto lo dice esplicitamente, raccontando che egli era massone da giovane, e che da allora non ha preso più parte ai lavori delle loggie. Per questo e per le sue idee è rimasto al primo grado di apprendistato sempre; cosa di cui egli non si cura affatto.