Istoria delle guerre vandaliche/Libro primo/Capo X
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Libro primo - Capo IX | Libro primo - Capo XI | ► |
CAPO X.
I. Giustiniano godendo pace entro e fuori del suo imperio propose in consiglio la spedizione d’Africa, ma fattone il volgo partecipe destossi a borbottamento e stizza, rimembrando tutti con ira le disgrazie avvenute al navilio dell’imperator Zenone1 e la sconfitta da Basilisco riportata colla perdita di poco meno che l’intiero esercito e col pubblico sagrificio di moltissimo danaro; e vie meglio rafforzava i comuni lamenti il pensiero di quanto richiederebbene tantosto il prefetto dell’aula, detto pretore dai Romani, ed il questore dell’erario, senza lusinga di grazia o d’indugio, per gli apprestamenti e le altre bisogne della guerra. E fin gli stessi duci, nessuno eccettuato, cui poteva toccarne il comando tremavano di spavento alla grandezza del pericolo, ricorrendo alle menti loro i rischi gravissimi della navigazione, e del dare in terra colla soldatesca, e delle molte battaglie da incontrare colle ragunate forze d’un potente regno. Che più, la truppa medesima, or di ritorno dall’ardua e lunga guerra persiana e non giunta per anche a fiatare nelle proprie case o ad avere alcun riposo, al vedersi esposta a nuovi disagi con una guerra marittima, ed al considerare l’imminente suo passagio dall’orto all’occaso per muovere le armi contro feroci barbari, cadeva nella massima costernazione. Il resto però del popolo era bramoso, giusta la umana consuetudine, che si macchinassero senza proprio danno così malagevoli imprese. Nè ebbevi tra quanti disapprovavano quella guerra chi osasse farne cenno all’imperatore, fuor di Giovanni prefetto del pretorio, ed a nessuno inferiore di coraggio e talento, il quale venuto a lui tennegli questo discorso:
«La benignità ed amorevolezza con che reggi i popoli soggetti ci anima, o imperatore, ad esporti in quanto riputiamo utile a te ed alla repubblica, avvegnachè il dir nostro non sia per essere conforme a tuoi desiderj; e vie più coraggiosamente il facciamo scorgendoti sapientissimo nel temperare in guisa la potenza colla giustizia da non lasciarti indurre a credere di te amantissimo chiunque è ognora plaudente alle tue proposte, nè a comportare con fastidio chi osa talvolta discordarti: ma tenendo mai sempre nel giudicare l’animo lontano da ogni passione, ci conforti a nulla temere mostrandoci teco sinceri. Quindi è, o Giustiniano, che vengo ad aprirti liberamente il cuor mio, affatto convinto che sebbene avessi tu ora a dolerti del consiglio, non tarderai però a ravvisarvi una manifesta pruova di rispettoso affetto, del quale non vorrò mai altra testimonianza che la tua; e di vero se non avendo io forza di persuaderti moverai contro i Vandali, la sola molesta durata della guerra, affè di Dio lunghissima, ti chiarirà la rettitudine de’ miei sentimenti. Che se tu fossi certo di uscirne vincitore, potresti di buon grado chiudere un occhio sopra i disastri inseparabili dall’impresa, la mortalità intendomi delle truppe, il rifinimento del pubblico erario, le gravissime fatiche ed i pericoli sommi, bastando una gloriosa meta ad immergere nell’obblio tutti i mali sofferti. Ma se il Nume è l’arbitro della vittoria, e se l’esperienza del passato ne costrigne a paventare di continuo la sorte delle armi, perchè anteporrai ad una vita sicura e tranquilla un pelago immenso di rischi e travagli? Vuoi tu guerreggiare Cartagine, ma non pensi che hannovi cenquaranta giornate d’un cammino pedestre, o la navigazione dall’un capo all’altro del Mediterraneo avanti d’arrivarvi? che vedrai correre quasi un anno prima di saper dell’esercito? e che eziandio trionfatore dei barbari non potrai contare sul dominio dell’Africa sinchè Italia e Sicilia ubbidiranno ad altri padroni? Ne guardi poi il cielo da sciagure in quel cimento, sendo che allora i rotti accordi attirerebbonti il nemico nel cuor dell’imperio. Sa l’uomo saggio antivenire i mali, e pentesi lo stolto dell’operato al provarne le triste conseguenze. Guardati adunque dal mettere il piede in fallo non ponderando lungamente la cosa, e non rinunciare al vantaggio sommo che si procaccia chi attende la opportunità del tempo».
II. L’imperatore dopo questo parlar di Giovanni parve meno fervente alla guerra; se non che poscia un vescovo orientale venuto in Bizanzio e chiestagli udienza espose: che Iddio col mezzo di notturna visione comandavagli di presentarsi a lui e rimproverarlo d’empietà perchè senza motivo alcuno avea posto dall’un de’ lati la pia risoluzione di liberare i cristiani d’Africa dalle mani dei barbari; che però dandovi opera e’ concederebbegli il suo potente aiuto nel ricuperarne il dominio. Giustiniano udito il sogno fece, non potendo più vincersi, approntare sollecitamente l’esercito, dandone a Belisario la capitananza, e fornito di vittuaglia e di navi.
III. In que’ giorni medesimi un tal Pudenzio indigeno africano, ribellatosi dai Vandali presso la città di Tripoli, mandò all’imperatore nunziandogli che se venisse con prontezza aiutato di truppe soggiogherebbe di leggieri tutta la regione; e Giustiniano di botto fe partire il duce Tattimul con qualche soldatesca, la quale maestrevolmente condotta dal ribelle pervenne a riconquistare quelle terre intanto che i Vandali eranne lontani; e quando il costoro duce Gilimero volea prenderne le vendette fu costretto a rivolgere l’animo a più gravi faccende, conciossiachè uno de’ suoi capitani nomato Goda, della stirpe de’ Goti, d’animo sagace, diligente nelle imprese e tenuto fedele al suo re, stato essendo prescelto a reggere la Sardegna2 coll’obbligo d’un tributo annuale, e non sapendosi temperare nella prosperità di tanta fortuna, bramò addivenirne sovrano, al qual uopo scioltosi da ogni vincolo principiò con manifesta ribellione a signoreggiare l’isola; fatto di più consapevole che Giustiniano era per combattere Gilimero nell’Africa gli scrisse del tenore seguente: «Non per ingratitudine e perfidia ho mancato di fede al mio re, ma testimonio del giogo crudele ed inumano da lui imposto a’ suoi popoli non posso volonterosamente obbedirgli, e preferisco fermar lega con un giusto imperatore anzi che essere ministro degli ordini atroci d’un tiranno; amicandomi pertanto ora teco dimandoti un pronto aiuto per valermene all’occorrenza contro chiunque oserà turbare la mia quiete».
IV. Giustiniano contentissimo della nuova non indugiò punto a mandargli l’ambasciatore Eulogio con la risposta, ove commendavane la prudenza, la giustizia, e l’ottima volontà di confederarsi seco: gli promette di più duci e truppe, acciocchè possa non solo conservarsi quell’isola, ma fare ben anche nuove conquiste senza timore alcuno de’ Vandali. Partitosi Eulogio per la Sardegna trovò, al dare in terra, il ribelle con regali vestimenta e nome, e con guardia d’attorno, il quale trascorso leggendo il foglio imperiale disse che molto aggradiva le truppe, ma essere ben fornito di capitani; e dell’egual tenore vergò eziandio il foglio di rimando a Giustiniano col ritorno dell’inviato.
Note
- ↑ Così il mio testo ed il Cousin; da quanto però si narra al cap. 6 di questo libro sembrami doversi leggere Leone.
- ↑ Intorno al nome di quest’isola scrivea Pausania: «La Sardegna per grandezza ed abbondanza non la cede alle isole più lodate: quale fosse l’antico nome, che dai nazionali avea, nol so; que’ Greci però che navigarono per commercio la chiamarono Icnusa (Ιχνοσ, orma), perchè la figura dell’isola è molto simile all’impronta del piede umano. La sua lunghezza è di mille e cento venti stadj; di quattrocento settanta la sua larghezza. Si dice che i primi a passare con navi nell’isola furono Africani, e loro condottiere fu Sardo di Maceride di Ercole, al quale si dà il soprannome di Egizio e di Africano. Molto celebre fu il viaggio di Maceride a Delfo. Sardo poi portò gli Africani in Icnusa, e perciò l’isola cangiò il nome nel suo... I Cartaginesi quando eran forti nella marina, soggiogarono tutti quelli che nella Sardegna trovavansi, ad eccezione degli Iliesi e de’ Corsi, ai quali per non essere posti in ischiavitù bastò la sicurezza de’ monti. Edificarono nell’isola i Cartaginesi medesimi città Carnali ( detta parimente Carali o Calari, ora Cagliari) e Silli... Le parti dell’isola rivolte a settentrione ed al continente dell’Italia, sono monti di difficile accesso, i quali uniscono le loro falde gli uni agli altri; che se li passerai navigando, l’isola dà porti alle navi, e le cime de’ monti mandano al mare venti irregolari e forti. Nel mozzo di essa s’ergono monti più bassi: l’aria però di questa parte e torbida e malsana, e ne sono causa i sali che vi si condensano, e lo scirocco grave e violento a cui è esposta, e l’altezza de’ monti all’Italia rivolti, che impedisce di soffiare nella stagione estiva i venti boreali, i quali l’aria e la terra di questa parte rinfreschino...... Ad eccezione d’un’erba l’isola è pura di veleni, che danno la morte: l’erba mortifera è simigliante all’appio, e dicono che coloro che la mangiano muoiono ridendo. Perciò Omero e gli uomini che lo seguirono quel riso, in cui per niuna cosa sana si prorompe, riso sardonico lo nomano. Quest’erba nasce specialmente intorno alle fonti, ma non comunica nulla del suo veleno all’acqua» (Delle cose Fociche, o sia lib. x, cap. 17, trad. del Nibby). V. inoltre Strabone, il quale dà all’isola 120 miglia di lunghezza e 98 di larghezza (lib. v); Isidoro, lib. xiv; Plinio, lib. iii, cap. 7; Solino, cap. 10; Dionisio (Perieg.) ed il suo commentatore Eustazio; Diodoro, lib. iv e v; Suida alle voci - Riso sardonico; Polibio, lib. i, delle Istorie, ed Orosio, lib. i. Stefano poi dice che «Sulchi è città nella Sardegna, creatura de’ Cartaginesi».