Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte III/Capitolo XVIII
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CAPITOLO XVIII.
Le speranze dei liberali d’Italia non furono lungamente, deluse. L’intervento dei piemontesi nella famosa campagna di Crimea diede occasione al celebre Camillo Cavour) nel rinomato congresso di Parigi, di ritrarre al vivo le miserande condizioni dell’Italia, assumendo in certa guisa la difesa dei popoli oppressi, e niente omettendo per convincere i rappresentanti delle grandi potenze che, per assicurare stabilmente la pace dell’Europa, facea d’uopo assecondare i giusti desiderii degli italiani che, divisi in sette stati discordi, e privi di eque leggi, di libertà civile e dell’indipendenza, erano naturalmente intesi a cospirare, e a cogliere ogni occasione per tentare nuovi rivolgimenti politici. E poi con raro accorgimento seppe quel sommo statista tirare a sè l’imperadore Napoleone III. il quale, checchè se ne dica, fu il principale promotore del nostro risorgimento nazionale, sicchè, quali che siano stati i suoi errori politici e i compensi chiesti all’Italia, ha dritto alla perpetua riconoscenza della nazione. Egli sia per la tema delle cospirazioni, dopo gli attentati dell’Orsini e di Agesilao Milano, e i fatti di Livorno, di Genova e di Sapri, sia per le sue future mire contro l’Austria, si mostrò propenso alla idea di aggiungere al Piemonte gli stati lombardi, il che si effettuava dopo la memoranda battaglia di Solferino e il trattato di Villafranca. Questo non soddisfece punto gli italiani, i quali, specialmente dopo la morte di Ferdinando II. non tralasciarono alcun mezzo per conseguire l’unificazione d’Italia. E prima furono aggregate felicemente al Piemonte le provincie della Toscana, del Modenese, e del Parmense. E poi, per opera di comitati, furono aggiunte al regno sardo anche le quattro legazioni di Bologna, Ravenna, Forlì e Ferrara.
Ma l’ostacolo maggiore a costituire la nazione consisteva nel reame di Napoli, ove un esercito numeroso ed agguerrito dava scarsa lusinga ai liberali di poter tentare con fausti auspicii una generale sommossa; perdo che gli uomini politici del Piemonte tenean l'occhio intento sulla Sicilia, la quale, insofferente del giogo, e bramosa di vendetta, anelava il momento di. poter insorgere contro il Borbone, e le sue speranze non tardarono ad avverarsi.
Nell’aprile del 1860 la Sicilia si ribellava nuovamente al re di Napoli, e Garibaldi nella sera del 5 maggio salpò da Genova, e nel giorno 10 approdò a Marsala co’ suoi mille volontarii. Indi con una serie di prosperi combattimenti ridusse in suo potere nel corso di tre mesi l’isola intera che lo proclamò dittatore. Egli è vero che nella guerra di Sicilia non tutte le truppe napoletane e i loro condottieri combattettero con ogni sforzo gli insorti e le bande dei volontari ma ciò non fu opera di corruzione e di setta come si scrisse, ma la naturale conseguenza dell’abborrimento che moltissimi soldati ed ufficiali dell’armata reale nutrivano per una guerra fratricida, che mirava a impedire l’unità italiana, nel fine di difendere una dinastia che fu sempre propugnatrice in Europa delle idee di servitù e di regresso.
Compita con si fausto successo l’impresa della Sicilia, Garibaldi pose l’animo a sollevare le province napoletane, e nell’agosto del medesimo anno, allorchè ritenne che il momento era propizio, mandò una schiera di volontarii a modo d’avanguardia in Calabria, ed egli nel giorno 17, insieme a Bixio, si diresse a Reggio, che si arrese ai garibaldini nel dì 20 del mese. E poscia alle rivolture della Calabria successero quelle del salernitano, essendosi proclamato il governo dittatoriale in Sala, ove Garibaldi giunse nel 2 settembre, e nominò il Matina governadore della provincia.
Intanto in Napoli erasi fondato un comitato nazionale, nel fine di agevolare l’impresa di Garibaldi, e da esso prendevano norma gli altri comitati istituiti nelle provincie. I Signori Giuseppe de Marco di Paupise, impiegato nella dogana di Pontelandolfo, Filippo Iadovisio, ricevitore della stessa dogana, e Achille Iacobelli di S. Lupo, concessionario del ponte del Calore al Torello, il quale avea il comando delle Guardie Urbane del suo paesello, composero un comitato ne’ luoghi posti tra Molise e l’Avellinese, da cui propagavano il clandestino giornale Ordine, e, per mezzo dei loro agenti, le segrete deliberazioni del sebezio comitato. Questo, bramoso di sottrarre Benevento al papa, ed occuparla col consenso della maggioranza dei cittadini, se la intese con diversi liberali, e costituì un comitato composto dei Signori Salvatore Rampone, ora Consigliere di Prefettura collocato in riposo, Giacomo Venditti, che fu poi nominato governadore di Aquila, e Domenico Mutarelli, a cui si aggiunsero alcuni altri. Essi non rimasero inoperosi, ma riuscirono agevolmente a comporre un numeroso e concorde partito nazionale, che si divise in sezioni, e il quale sulle prime agì latente, e tenne segrete adunanze, ma in proceder di tempo, rinfrancato, ebbe a vile di più infingersi, e, congiurando alla scoperta, attese con fiducia che battesse l’ora della tanto sospirata annessione di Benevento al regno d’Italia.
In quel mentre il comitato nazionale detto Ordine erasi modificato per opera dei fuorusciti, che, spediti dal Cavour a bella posta per attuare indilatamente l’annessione, ne mutarono in parte l’indirizzo. Ciò increbbe ai giovani più animosi, che, indignati anche di vedersi trascurati, mandarono messi a Garibaldi, e composero un altro comitato che appellarono Azione. Amendue i comitati intendevano in fondo al medemo scopo; ma si dividevano in ciò, che il primo più cauto e sospettoso divisava di offrire il regno delle due Sicilie al re Vittorio Emmanuele prima dell’entrata di Garibaldi, e l’altro stimava necessario di affidare precariamente a questi l’assoluto potere col titolo di dittatore. Amendue questi comitati aveano in Benevento i loro seguaci, e coloro che aderivano al comitato Ordine, che dipendeva in tutto dal Cavour, e che poi si disse partito conservatore, dichiararonsi avversi ad una prematura ribellione. Ma il comitato di azione credette invece opportuno che l’insurrezione delle province prossime a Napoli avesse avuto principio in Benevento; e il nostro comitato si propose di secondare i disegni del comitato centrale, purchè fosse avvalorato dagli sforzi delle provincie limitrofe. E con ciò il comitato di azione nutria lusinga di rendersi giovevole al suo nativo paese, il quale con la pronta rivoluzione avrebbe acquistato un’importanza che nel nuovo ordine di cose poteva agevolmente conservare. E non gli fallirono le speranze, poichè fu assicurato che qualora la rivoluzione, prima che in altre provincie limitrofe a Napoli, fosse cominciata in Benevento, questa città, ricca di antiche tradizioni storiche, sarebbe stata dichiarata capoluogo di provincia.1
Convenuta adunque ogni cosa, il comitato di Benevento, vuoi per essere sprovveduto di forze bastevoli a compiere l’impresa, vuoi per lodevoli motivi di prudenza, fece invito al Sig. Giuseppe de Marco, di associarsi ai liberali di Benevento. Questi accordatosi col nostro comitato intorno ai modi da usare per il felice successo della insurrezione, nel giorno 2 settembre mise in armi qualche centinaio di volontarii, misti ai quali erano parecchi soldati di linea della truppa pontificia disertati da Benevento, e nel giorno 3 settembre si avviò verso Benevento, e a qualche chilometro dalla città fu ricevuto dai componenti il comitato, ai quali si aggiunsero l’avv. Nicola Vessichelli — surrogato a Giacomo Venditti nativo di Gambatesa, provincia di Molise, giudice regio deposto — e i Signori Gennaro Collenea e il marchese de Simone.
I sollevati furono accolti in Benevento con gioia indicibile del partito nazionale, e non trovando resistenza negli altri cittadini, dichiararono decaduto il governo papale, e nella città ebbero luogo in sulla sera grandi acclamazioni a Garibaldi, a Vittorio Emanuele, e al futuro regno d’Italia, serbandosi il massimo ordine in ogni cosa, e senza che si fosse verificato il menomo inconveniente, esempio piuttosto unico che raro in una rivoluzione. Dopo di ciò i sollevati deposero alcuni impiegati pontificii, che rifiutaronsi di riconoscere il nuovo governo; abbattettero lo stemma papale, proclamando sovrano di Benevento Vittorio Emanuele II e i suoi successori, e istituirono un governo provvisorio, composto dei Signori Salvatore Rampone, Domenico Mutarelli, Nicola Vessichelli, Gennaro Collenea e il marchese de Simone; e il primo di essi tenne il titolo di Presidente, assumendo in momenti difficili la qualità di capo del governo provvisorio. Essi occuparono il castello e il palazzo municipale, e nel giorno 5 settembre il Delegato pontificio Mons. Agnelli fu invitato a lasciare Benevento, e vi assentì dopo di avere emessa una protesta in nome del suo sovrano, e poco dopo i gesuiti ne seguirono l’esempio.
Il governo provvisorio emanò varii utili decreti, tra i quali quello dell’abolizione del nostro tribunale Ecclesiastico.
Il collegio dei gesuiti fu precariamente trasformato quasi in una caserma di garibaldini, poichè avendolo questi occupato nel primo giorno della rivoluzione, non seppero trovare altro alloggio che fosse pari a quello accomodato al loro numero e ai loro bisogni. E in quei tempo appunto venne abbellita la chiesa del Gesù col ritoccarne le dipinture, col dar luogo a varii restauri, e anzitutto col rifarne l’intero pavimento, e ciò si fece eseguire a sue spese dalla Signora Maddalena Luigia Mosti. Per la espulsione dei gesuiti non avanzarono in Benevento altre scuole pubbliche, in quanto concerne il corso classico, che quelle degli scolopii, i quali ostentavano sentimenti liberali, ma in essi facea difetto quella unione di voleri tendenti al medesimo segno che formò un tempo la potenza dei gesuiti. E dippiù essi erano divisi in due partiti, dei quali uno era devoto ai borboni di Napoli e sommesso ai provinciali dell’Ordine, e l’altro aspirava a libere forme di governo. Per ciò che spetta al loro insegnamento io non posso che lodare la massima parte degli insegnanti scolopii, poichè sebbene essi per mancanza di studentato nell’ordine. principiassero quasi il loro tirocinio agli studii cui si addicevano coll’insegnamento, pur tuttavolta, per essere forniti d’ingegno, e vogliosi dei buoni studii, riuscivano spesso a bene, e istruivano i loro allievi con metodo regolare, e con sincere e calde convinzioni; sicchè il loro insegnamento era per fermo preferibile a quello dei gesuiti. Ma pure, ad onta di ciò, per essere in Benevento limitate le loro scuole a sole quattro classi, non poteva quell’insegnamento non apparire manchevole ed incompiuto, e per questo gli scolopii nutrivano speranza di sottentrare in Benevento ai gesuiti, invisi a tutto il partito liberale, e di recarsi in mano l’intero insegnamento classico; ma furono tosto disingannati dal decreto che prescriveva l’abolizione dell’insegnamento monastico privilegiato.
Intanto il De Marco, dopo la costituzione del governo provvisorio in Benevento, seguito dalla sua banda, e da molti volontarii beneventani e della provincia, con a capo il Sig. Pietro Rampone, germano del presidente del governo provvisorio, col grado di capitano, e il mio germano Domenico Isernia con la qualità di Commissario civile, percorse la campagna beneventana, e dopo alcune escursioni nei prossimi comuni, trasse ad Ariano di Puglia, ove dimorò pochi giorni e quindi fece ritorno in Benevento. In seguito la stessa banda si recò a S. Agata dei Goti e a Frasso Telesino, e poscia s’in ter tenne alcuni giorni sulla montagna di S. Michele presso Maddaloni, ove trovò in una specie di caverna un deposito di viveri, ivi lasciato dalle truppe borboniche, e infine si avviò alla volta d’Isernia. Ma quivi il De Marco, investito dai cittadini e dalla truppa borbonica, non seppe evitare un serio fatto d’armi, nel quale perirono parecchi dei nostri concittadini.
L’insurrezione di Benevento non deve considerarsi come un fatto di poco rilievo, poichè essa fu efficace a risolvere il generale Garibaldi, che allora guerreggiava nella Calabria, a marciare su Napoli. E in quel mentre il re Francesco II, pei consigli di Liborio Romano capo del ministero, affine di risparmiare alla metropoli del regno la guerra civile, trasse a Capua con l’intera armata di 40 mila uomini, per attendere alla difesa del suo regno, e per questo Garibaldi potè senza colpo ferire entrare in Napoli in sembianza di amico nel memorabile 7 Settembre.
E qualche giorno dopo una deputazione della città di Benevento, composta dal sig. Salvatore Rampone, presidente del governo provvisorio, e dall’avvocato sig. Nicola Vessichelli, fu presentata al generale Garibaldi, che l’accolse con molta festa ed onoranza. Il sig. Rampone lesse il seguente indirizzo:
«Generale Dittatore
«A voi che sempre combatteste per la indipendenza e libertà dei popoli con tale un’abnegazione da rendervi maggiore degli eroi di Plutarco, si volgono i cittadini beneventani, che sotto la vostra dittatura fin dai giorno 7 di questo mese proclamarono nella loro provincia la sovranità di Vittorio Emanuele II re d’Italia.
«A voi che siete il braccio di quel re tanto desiderato fin da tre secoli dal gran Macchia velli, si rivolgono fidenti, e nel silenzio aspettano il compimento dei loro voti.
«Mancipii clericali, con islancio unanime, cercarono l’attuazione di un concetto finora dai nostri nemici tenuto per folle ed inattuabile, sol perchè non isperavano che fossero per nascere al mondo due cuori magnanimi come quelli di Vittorio Emanuele e di Giuseppe Garibaldi.
«Ma ora che queste catene sono infrante, ed ogni redento si volge al suo redentore per offrirgli la vita e gli averi in sostegno dei nuovo ordine di cose, abbiatevi da parte dei beneventani un’eguale interminabile profferta.
«Voi siatene l’interpetre presso il nuovo nostro Re, ditegli che i figli di questa sua nuova provincia, mercè i loro rappresentanti, han giurato al vostro cospetto di spendere fino all’ultimo obolo, e spargere tutto il sangue loro per la patria al grido di
- «Viva l’Unità italiana!
- «Viva il Re Vittorio Emanuele!
- «Viva il Dittatore Garibaldi!»
Il Dittatore ordinò al colonnello Bertani che s’inserisse l’indirizzo nel giornale ufficiale, e chiese di essere pienamente istrutto sulle condizioni della provincia beneventana.
Il Vessichelli prese allora la parola, ed acconciamente favellò sul proposito, raccomandandogli la sua cara patria, la quale sperava risorgere a nuova vita, mercè quel potente alito rigeneratore con cui Garibaldi disse: l’Italia sia, e l’Italia fu. E infine, prendendo la mano che il Dittatore gli porgeva, riprese:
«Stringo quella destra che fiaccò l’orgoglio dell’Austria, spietata nemica d’Italia, che ha umiliato e vinto il potere dispotico dei Borboni, e che, spero, imporrà fine alla tirannide clericale, allorché si risolverà di deporre la temporale potestà, per addirsi davvero alla pratica dei fraterni; e santi precetti dell’Evangelo, ed alla sublime apostolica missione che ai suoi sacerdoti affidava il Cristo, divino e primo Redentore dei popoli.»
Garibaldi, lieto oltremodo di un tal fatto, promise alla Commissione beneventana che si sarebbe tosto provveduto alla costituzione della nuova provincia e alla nomina del governadore, e, con decreto del 25 ottobre 1860, dichiarò Benevento capoluogo di provincia di prima classe, e anzi, trasmodando nel suo zelo pel nostro bene, prescrisse, che fossero restituiti a Benevento i confini dell’antico ducato, ignorandone probabilmente la estensione. E certamente, per riuscire prontamente nel fine che ci eravamo proposto, contribuì efficacemente il partito di azione con la rivolta promossa in tempo tanto opportuno in Benevento, e però non gli si potrebbe giammai con giustizia negare un tanto merito.
Indi non essendosi potuto ottenere dal cardinale Carafa2 l’adesione al nuovo governo, il prete Pantaleo, cappellano di Garibaldi, lo menò seco, prima in Napoli, e poi a Civitavecchia, insieme al suo segretario Feuli, che fu nominato varii anni dopo arcivescovo di Manfredonia, e non andò molto che, mediante un solenne plebiscito, si procedette all’annessione di Benevento al regno d’Italia.
Indi fu nominato Prefetto di Benevento il conte Carlo Torre. Una tal nomina increbbe al partito d’azione, il quale crasi dichiarato avverso a quello dell’Ordine, di cui era uno dei fautori il Torre; e alcuni gregarii del partito, traendo profitto della lontananza del Torre e del Rampone, con a capo un audace popolano, detto Cenerazzo, aggiravansi pel paese, dichiarando essere volontà dei cittadini che fosse nominato il Rampone Prefetto di Benevento. E quelli del partito avverso con mezzi meno rumorosi, ma certo più efficaci; cioè con liste di sottoscrizioni e commissioni si adoperavano a dimostrare il contrario. Laonde un nucleo di popolani, istigato dal Cenerazzo, togliendo occasione dal dualismo dei due partiti, trascese a serie minacce contro i principali aderenti del partito dell’Ordine, e mise in forse la tranquillità pubblica. In tanto pericolo i cittadini fecero noti i loro timori e lo stato delle cose al Dittatore, e questi non fu tardo a mandare in Benevento l’egregio colonnello Bentivenga Siciliano, con un sufficiente numero di volontari], a rimettere l’ordine nella città, e la sicurezza turbata da pochi faziosi. Il Bentivenga assunse tutto il potere di un dittatore, che seppe però usare con delicatezza e giustizia, scrutò ed apprese i bisogni ed i desiderii della maggioranza dei liberali, e, dopo aver dato un nuovo assetto alle cose, tornò in Napoli. E dopo qualche giorno fece la solenne entrata in Bebè vento il governadore Carlo Torre, che fu accolto con indicibile festa dalla maggior parte dei beneventani, sia per essere loro concittadino, e sia perchè avea fama di senno pratico e di molta prudenza.
Il Torre si accinse con ardore nei primi mesi del suo governo alla circoscrizione della nuova provincia, la quale si compose di comuni delle contermini province di Terra di Lavoro, Molise, Avellino e della Capitanata, Egli è vero che, per la necessità delle cose, la circoscrizione della nostra provincia riuscì difettosa, ma è a sperare che col volgere dei tempo potrà essere migliorata, senza eccitare la gelosia delle altre province. La luogotenenza di Napoli, con decreto emesso nel 17 febbraio 1861, rifermava il decreto di Garibaldi che dichiarava Benevento capoluogo di provincia; imperocchè sin da quando ebbe termine la Dittatura, avea fatto intendere al governadore Torre che non si sarebbero violati i precedenti accordi, non potendo sconoscere le promesse fatte dal Comitato Unitario nazionale e dal Dittatore al governo provvisorio di Benevento per i dritti, direi quasi, che a questa nobilissima città derivarono dalla rivoluzione del 3 settembre 1860.
Eppure, malgrado tali assicurazioni, sin dallo scorcio del 1860 si tentò con ogni sforzo dalle province confinanti, cui faceva ombra la nostra nascente prosperità, di togliere a Benevento la qualità di capoluogo di provincia, e di ridurla invece a un capoluogo di circondario. E la quistione si animò in guisa che dopo il decorrere di più mesi si fece ricorso alla Camera dei Deputati, che se ne occupò di proposito nella tornata del 3 aprile 1861. I Deputati Caso, Massari, Contorti e Cardente presero a sostenere la convenienza di annullare il decreto del 17 febbraio 1861; ma per lo contrario altri non meno distinti deputati perorarono con zelo in favore della provincia di Benevento, e l'ex ministro Liborio Romano conchiuse a un di presso con queste parole «Benevento ha un’importanza storica, e può vantarsi di un fatto moderno.
«Al primo sventolare dell’insegna Sabauda si sottrasse al giogo clericale, e contribuì potentemente al movimento unitario delle province napoletane.
«Questa eroica città ci schiude le porte al seggio della città eterna, ci mena al Campidoglio.
«Per tutti questi titoli, spero, si rigetti la proposta di sospendere l’esecuzione della legge».
La Camera, dopo una lunga discussione, respinse la proposta Caso con gran maggioranza. Poscia il conte Torre volse l’animo all’insegnamento del liceo, e fece pensiero che dovessero anteporsi agli altri insegnanti i nativi della nuova provincia; ma il seguìto suo tramutamento in Lecce mandò a monte ogni progetto da lui ideato intorno alla pubblica istruzione in Benevento,3 e nel 1863 fu inaugurato nel collegio dei soppressi gesuiti l’attuale Liceo ginnasiale al quale fu dato nel 1865 il titolo di Liceo Giannone, dal nome del celebre storico napoletano. Esso fu nei primi anni assai poco frequentato per la seguente ragione.
I clericali in Benevento erano già da un pezzo dominati dall’idea, e ciò non fa specie in un paese che avea scosso di fresco il giogo dei preti, che, mediante il novello insegnamento governativo, s’intendesse combattere la religione cattolica. Ciò era evidentemente falso, ma pure allorchè si vide che la maggioranza degli insegnanti, mandati in Benevento dal Settembrini, direttore della pubblica istruzione in Napoli, si componea di religiosi e preti apostati, questo sospetto si accrebbe, e quindi moltissimi padri di famiglia si astennero e non a torto, d’inviare i figli alle scuole del nostro Liceo-ginnasiale. E in verità non può negarsi che i preti ed i frati i quali apostatarono dopo la rivoluzione in età non giovanile, fecero ragionevolmente dubitare se a ciò s’inducessero per mutate convinzioni, o per la leggerezza con cui elessero lo stato ecclesiastico, e per meglio godersi la vita. E con un timore così giusto e fondato chi mai potrebbe censurare con giustizia i nostri concittadini, se nei primi anni del novello insegnamento non riposero in tali insegnanti la stessa fiducia che non esitarono a riporre negli altri? Inoltre bisogna convenire che, essendosi verificato sottosopra lo stesso in tante altre province, un tal fatto debba essere interpetrato, come la manifestazione di un sentimento pressochè universale. E fu per queste ragioni specialmente che allorquando il Preside del nostro Liceo-Ginnasiale Sig. Romoaldo Bobba si fece a pretendere dal Municipio di Benevento la continuazione dell’annuo pagamento di quei medesimi ducati 1500 che dal 1825 al 1860 furono pagati al collegio gesuitico sulla gabella del vino, il Consiglio Comunale nella seduta del 27 aprile del medesimo anno rigettava ad unanimità la sua domanda.
Intanto al Torre era succeduto alla Prefettura di Benevento il Gallerini, e, durante il governo di questo, fu la nuova provincia funestata dal brigantaggio e dalle reazioni. Le condizioni anormali del regno, la selvaggia ignoranza dei contadini, e la scarsa truppa destinata alla tutela dell’ordine pubblico, diedero origine al brigantaggio nel mezzodì d’Italia. E nel tempo stesso il partito clericale e il borbonico, scorgendo che le orde brigantesche travagliavano molto il nuovo governo, levarono il capo, e istigati dai fanatici, suscitarono delle reazioni in varii punti del regno. Laonde per qualche mese il brigantaggio serbò un carattere politico in queste province, e i reazionarii se la diceano coi briganti a un di presso come ai nostri giorni si veggono i clericali far buon viso ai repubblicani, malgrado che, in quanto ai principii, li divida un abisso, sol perchè gli uni e gli altri sono avversi alla regnante Casa Savoia.
Il primo comune prossimo alla nostra provincia che insorse contro il governo del re galantuomo fu Isernia. Era ivi sottointendente quel Giacomo Venditti, che, come innanzi si è detto, fu uno dei componenti il governo provvisorio di Benevento. Costui, bravissimo uomo in fondo, ma imprudente nel suo liberalismo, avendo nell’8 settembre spezzata con vitupero l’insegna di Francesco II, vietò che alcun cittadino serbasse segno o immagine del re di Napoli. Per questo fatto e per altre esagerazioni eccitò nella popolazione corrucci e livori, per il che chiamò in sua difesa una mano di Garibaldini, i quali trascesero anche a peggiori eccessi, e infine, avendo essi avuto notizia che il maggiore Achille De Liguoro, con un drappello di gendarmi, moveva da Mignano su Venafro, posero in abbandono il Venditti. Questi allora chiamò a proprio scampo le guardie nazionali, ma non venne a capo di nulla, per modo che sconfortato aprì le carceri, arringando ai delinquenti, e tentò di persuaderli a prendere la difesa del popolo e della libertà. Costoro sulle prime composero delle pattuglie per il mantenimento dei buon ordine; ma poi vedendo che la popolazione erasi dichiarata del tutto avversa alla casa Savoia, si associarono ad essa, svelando alla turba i timori del sottintendente. Gli insorti gridando: viva Francesco, spezzarono le armi Sarde. Fuggì il Venditti, e il de Luca, Governadore di Campobasso, a spegnere la reazione sul nascere, corse sopra Isernia con gran numero di garibaldini, sciolse la Guardia Nazionale, e aggravò la città d’una tassa di dodici mila ducati. In quel mentre il generale Marulli, a ristabilire la tranquillità in Isernia, mandò due battaglioni di gendarmi e granatieri, alcuni volontarii e due cannoni, cosicchè il de Luca e il Venditti, sicuri del loro trionfo, si accingevano a istituire una giunta marziale; ma udendo che si appressavano i regii, (cosi erano chiamati in quel tempo i fautori di Francesco II) se la battettero; senza essere seguiti dai garibaldini, che rimasero spensierati nei caffè e nelle bettole. Trascorso breve tempo, un tal Nullo colonnello dei volontari, uno dei mille di Marsala, partì da Campobasso con tre battaglioni, e con più d’un migliaio di volontari, e dopo di aver divisa la sua gente in due schiere, una delle quali salì il monte sulla dritta, è l’altra lo seguì in capo a un colle sulla china settentrionale del Matese, non andò oltre, per attendere il de Marco da Maddaloni, e il Pateras da Abruzzo, nel fine di circondare Isernia da due lati. Ma quelle bande, venute alle mani coi regii, furono messe in rotta, e i fuggitivi in gran parte trucidati dai villani, e anzi narrasi che ventisette di essi, dando nelle donne fanatizzate, furono uccisi — tranne cinque soli — con ispiedi, e, insieme agli altri, venne massacrato il bravo giovane Ludovico Limata di Benevento. Poscia la popolazione, sollevatasi in un attimo, trasse contro Giuseppe de Marco, che accorreva da Maddaloni, ma questi, appena giunse a Boiano, vedendo il grave pericolo che incorreva, dopo una breve stanza, eseguì con molta celerità la ritirata, perdendo parecchi dei suoi seguaci, tra i quali il capitano Pietro Rampone, fratello del capo del governo provvisorio di Benevento.
Alla reazione d’Isernia succedettero parecchie altre, finché man mano il tristo esempio, fomentato anche dal brigantaggio, si propagò in diversi comuni della nostra provincia. Sul principio di agosto del 1862 si alzarono le insegne borboniche in S. Marco de’ Cavoti, Molinara, S. Giorgio la Molara, Pago, Pietralcina, Paduli e altri paeselli. Appena Francesco concedette la costituzione, i faziosi di S. Giorgio la Molara divulgarono che il governo acconsentiva alla divisione dei terreni ex feudali dei principe di S. Antimo, e tosto elessero un nuovo sindaco, devastarono il bosco Mazzocca, venderono il legname e ne usurparono il suolo. Dopo un tal fatto un contadino del comune di Colle, noto col nomignolo di Pelorusso, nei 6 agosto, a capo di cinquanta uomini a cavallo, entrò in S. Marco de’ Cavoti, e con l’aiuto della popolazione mandò via gli accorsi soldati del Re Galantuomo, rimettendo ivi il governo di Francesco, e nel prossimo comune di Molinara. I liberali di tali luoghi fuggirono, ricoverandosi nelle case dei loro amici in S. Giorgio la Molara; ma poi, presentendo l’arrivo anche colà dei reazionarii, trassero in Benevento. Infatti nel giorno 8 agosto il Pelorusso entrò da vincitore in S. Giorgio con le popolazioni dei dintorni, tolse il denaro comunale, che assommava a ducati otto mila, e divisava anche di saccheggiare molte case, ma ne fu stornato dalla parte più savia dei suoi aderenti. Egli, dopo aver rimesso anche a S. Giorgio il governo borbonico, passò a Pago, e in ultimo a Pietralcina con più di mille uomini armati di spiedi e mazze. Ma sull’alba del 10, investito dai piemontesi e battuto, trasse altrove non inseguito,4 e i soldati del re, rimesso l’ordine pubblico in S. Giorgio, si recarono a Paduli, che erasi nel giorno 9 ribellato, e fucilarono cinque cittadini creduti i caporioni della sommossa.
Intanto i liberali di S. Giorgio la Molara, che erano fuggiti in Benevento accusarono taluni loro conterranei di aver chiamati i briganti, e indussero i piemontesi a recarsi in quel comune per verificare lo stato delle cose. Essi vi arrivarono di notte, e uccisero alcuni degli insorti che osarono di resistere, e poi, non trovando ivi altro da fare, trassero altrove. Ma di lì a poco il Prefetto Gallerini, e un tal Lupo, delegato di pubblica sicurezza, uomo di equivoca fama, sospettando che gli abitanti di S. Giorgio cospirassero nuovamente in favore dei Borboni, e giudicando perciò indispensabile qualche esempio, accorsero con molti soldati in S. Marco dei Cavoti, bramosi di aver in mano l’ex capo Urbano cav. Nicola Ielardi, ricchissimo possidente, e, non trovatolo, gli saccheggiarono la casa. E di là si avviarono rapidamente alla volta del comune di San Giorgio la Molara, giungendovi la notte del 4 settembre. Ivi, tolte alcune informazioni, il Gallerini fece prendere i pretesi capi della sedizione, mentre erano immersi nel sonno, e, dopo di aver conferito con alcuni delatori e col tristo giudice Aufiero, furono scelti per vittime Michele Pappone ex capo Urbano, Luigi Germano sindaco, e un tal Giovanni Paradiso, fratello di un gesuita e padre del giudice di Carbonara, incarcerato come cospiratore. E nel mattino seguente i soldati, che seguivano il Prefetto Gallerini, trassero legati gli infelici prigionieri sul largo della fiera, e, mentre questi, consci della loro innocenza, procedevano con fermo viso per l’additato cammino, li fecero segno ad una salva di fucilate, e a terrore del pubblico ne esposero i cadaveri sulla piazza. Ed io storico imparziale di questi fatti non debbo astenermi di gravemente biasimare la condotta del Prefetto Gallerini, contro il quale si levò unanime la pubblica opinione, benchè a sua discolpa potrebbero addursi la ragione dei tempi, la necessità di qualche esempio, e più di tutto i pessimi suggerimenti dei suoi consiglieri, e in ispecial guisa del delegato Lupo e del giudice Aufiero.
Altri lacrimevoli fatti accaddero in Pontelandolfo e Casalduni, terre a tre miglia l’una dall’altra; quella ha circa cinquemila abitanti e questa tremila, poste a mezzodì del Matese sulla strada Sannitica. I monti da un pezzo formicolavano di reazionaria I popolani aveano in odio i piemontesi. Molti cittadini sparivano dalle loro case, e si susurrava ovunque della probabilità di una reazione. Arrivava il primo agosto il de Marco con una banda di volontarii, ma nel dì seguente udendo che i briganti ingrossavano sul Matese, prese altra via, e fu seguito dai liberali, dal sindaco, dal delegato di pubblica sicurezza, dai capitani e dai tenenti. Il Delegato, soffermatosi a Casalduni, cercò di rattenere cinquanta guardie mobili che da Benevento recavansi a Cerreto, ma esse non gli diedero ascolto, onde il Delegato coi pochi liberali, che erano ivi, si refugiava in Benevento.
Sul vespro del giorno 7 agosto il capobanda Cosimo Giordano con pochi uomini entra in Pontelandolfo gridando: viva Francesco, e gli fa eco l’intera popolazione, la quale fece cantare il Te Deum al clero, che era in processione alla cappella di S. Donato. I popolani suonarono le campane a stormo, abbattettero le croci sabaude, stracciarono le bandiere, alzarono l’insegna del Borbone, arsero gli archivii del giudicato, aprirono le carceri del Comune, e si bruttarono di tre omicidii. L’esempio di Pontelandolfo fu imitato da Casalduni, ove si gridò: viva Francesco e Sofia, si fecero sventolare le bandiere bianche da tutte le case, e i rivoltosi ridussero a pezzi le immagini di Vittorio Emanuele e di Garibaldi, e gli stemmi sabaudi, sostituendo ad essi quelli dei borboni, Si tentò egli è vero di mantenere la quiete pubblica, affidandone il carico ai soldati del prosciolto esercito napoletano, ai quali si fece capo con retti intendimenti un tal Filippo Corbo; ma i reazionarii levarono loro le poche armi raccolte, e corsero incontro a una nuova turba che traeva dai luoghi vicini con rami di olivo gridando: viva Francesco. E anche in Fragneto Monforte e Campolattaro, paesi finitimi, si ruppero stemmi e bandiere, e i faziosi derubarono alcuni cittadini che si giudicavano liberali, e il giorno 10 cantarono il Te Deum. Il capobanda Cosimo Giordano, nel giorno 9, svaligiata la posta, ne prese i cavalli, e rientrato in Pontelandolfo pose le mani addosso a un tal Libero D’Occhio, corriere secreto del de Marco, e ne ordinò la fucilazione. Indi i suoi seguaci si fornirono d’armi, munizioni, vesti e denari, chiedendone ai possidenti dei dintorni.
Nel giorno 11 giunsero da Campobasso a Pontelandolfo 40 uomini del 36° di linea con un tenente nominato Bracci e 4 carabinieri. Uno di quei soldati fu tosto ucciso dai popolani a legnate, di che gli altri atterriti, avendo ricevuto delle munizioni dal Vice Sindaco, si chiusero nella torre baronale.posta in alto, donde poteano far difesa, senonchè essendosi dato l’assalto alla rocca, il tenente, vedendola malamente munita, tenne assai più sicuro di uscirne per combattere all’aperto. I soldati, investiti dal popolo, piegano verso S. Lupo, ma trovano chiusa la via dai napoletani sbandati, con a capo un certo Angelo Pica. Messi così tra due fuochi, fecero testa per qualche tempo ai rivoltosi. Prima cadde morto uno di essi, per un sasso vibratogli da una donna sulla fronte, poi altri cinque vennero uccisi con colpi di moschetto, e gli altri, divampando d’ira, trucidarono lo stesso tenente che li avea cavati dalla torre, e poi divennero agevole preda dei reazionarii, che li condussero a Casalduni, meno un sergente che rimase celato dentro una fratta. La plebe fanatica gridava morte agli scomunicati, e il Pica, dopo un breve e segreto colloquio con il Sindaco di Casalduni sig. Luigi Ursini, avvedendosi che la terra di Casalduni era disadatta alla difesa, volgeva verso Pontelandolfo. La plebe finì a colpi di mazze quei prodi e infelici soldati; ma il sergente, nascosto tra le fratte, fu scoperto dai contadini di Ponte, e menato sull’imbrunire a Pontelandolfo, ove fece sacramento di non più combattere contro Francesco, e in tal modo ebbe salva la vita, benchè poi non tenesse il giuramento. Indi le bande radunate in Pontelandolfo sospettando del Pica lo deposero, e, dopo aver garrito un pezzo, si azzuffarono per la scelta di un altro capo, finchè convennero di affidare il comando a Cosimo Giordano, ma i più si ritrassero scontenti sul Matese.
Sull’alba del giorno 14 pervenne a Pontelandolfo il colonnello Negri con un drappello di cinquecento soldati guidati dal de Marco. La banda Giordano, ridotta a soli cinquanta uomini, appiattata in un boschetto, fece fuoco uccidendo alcuni soldati sardi, ma poi, soverchiata dai numero, prese la fuga. Il Negri entrò in Pontelandolfo, e i suoi soldati confondendo, come sovente accade in simili casi, l’innocente col reo, commisero vendette e depredazioni. Il Negri, dopo di avere arsi i cadaveri dei suoi soldati uccisi avanti la cappella di S. Rocco, fece ritorno per Fragneto a Benevento. E quasi nel tempo stesso quattrocento piemontesi guidati dal cav. Iacobelli, partendosi da S. Lupo, entrarono da più parti in Casalduni, esplodendo in aria i fucili per incutere spavento alla popolazione. La maggior parte degli abitanti di Casalduni d’ogni condizione, età e sesso, antivedendo la vendetta dei soldati piemontesi, sin dal giorno precedente eransi fuggiti, onde non avvennero in quel comune gli stessi luttuosi fatti di Pontelandolfo; ma tuttavia furono saccheggiate ed arse varie case, e in prima quella del Sindaco Luigi Ursini, il quale prese la fuga, traendosi dietro la sua numerosa famiglia.5
Dopo gli atroci fatti di Pondelandolfo e Casalduni ebbero fine le reazioni, ma proseguì per qualche tempo nel beneventano a infierire il brigantaggio, che, omettendo ogni scopo, e, come suoi dirsi, colore politico, intese solo al saccheggio e alla rapina. Le bande brigantesche mancavano di un capo unico, e agivano divise, senza aiutarsi a vicenda. E perciò tra noi il brigantaggio consisteva in una serie di zuffe alla spicciolata, campo ogni valle, parapetto ogni maceria, agguato ogni fratta. Le bande a minuzzoli, pronte ai movimenti, a dividersi, a raccogliersi, a celarsi, e a tornar di fianco o a tergo improvvise, viveano per lo più nei territorii, ove niun albero ignoravano, di leggieri trovavano viveri e munizioni, con vantaggio assalivano, senza rischio si ritraevano, tagliavano i telegrafi e le strade, infestavano i passi, rapivano vettovaglie, uccidevano i resistenti, e dalle vette dei monti, scorto da lungi il nemico, facevano fuoco e sparivano. Dopo alcuni mesi il brigantaggio prese in molti comuni della provincia proporzioni tremende per opera del famigerato capobanda Domenico Caruso, che sparse in ogni dove lo spavento e la costernazione. Quel tigre, non pago dei saccheggi, degli incendi, e delle depredazioni d’ogni maniera, prese ad uccidere non solo per odio o vendetta; ma anche senza scopo alcuno, sicché per qualche tempo la provincia trepidò pel suo avvenire. Ma infine il Caruso, tradito da un suo fidato, venne in potere della forza pubblica, e fu condannato alla fucilazione da un consiglio militare insieme a un suo seguace, un giovanetto non più che trilustre; ma che avea già dato prova d’animo più che ferino, col prendere diletto di versare celiando il sangue dei prigionieri. La sentenza si esegui in Benevento sul largo di Porta Rufina, ove sogliono tenersi le quattro fiere annuali.
Morto il Caruso, si diradò la sua banda, nè andò molto che dileguaronsi del tutto i rimasugli di quel brigantaggio, che costò forse alla nazione più sangue, sperpero di roba e denaro che la gloriosa campagna del 1860. Dopo quel tempo le condizioni della città di Benevento cominciarono notevolmente a migliorare, e siccome fondamento d’ogni bene civile si è l’istruzione; così il Municipio pose ogni cura ad aprire nuove scuole elementari per amendue i sessi, e infusi nuova vita a quelle dei fratelli delle scuole cristiane, dette degli ignorantelli, che vennero fondate dal cardinale Bussi nel 1834, 6 mediante un capitale preso dal Monte dei pegni, e col destinare per uso di scuola e residenza degli insegnanti una casa che appartenne alla soppressa badia Sofiana. Ai fratelli delle scuole cristiane fu sempre affidata l’istruzione del popolo, ed essi insegnarono con zelo ed accuratezza, ma il lor metodo era per altro assai poco adatto allo sviluppo della intelligenza, oltrechè i loro alunni, usciti di scuola, stavano in sul grande, come se già fossero dottori, e non più si piegavano all’esercizio delle arti meccaniche. Il nostro comune aprì anche una scuola serale e una scuola tecnica, e al liceo Giannone fu aggiunto un convitto provinciale con i mezzi posti senza pagamento, istituzione cotanto necessaria nella nostra provincia, dopo la soppressione del convitto tenuto già dagli scolopii, e la perdita dei posti gratuiti nel Seminario. Ma anche il convitto provinciale fu nei primi tempi assai poco numeroso per le medesime ragioni di cui si è toccato più innanzi. E si abbia per certo che nè il liceo, nè il convitto acquisteranno giammai la fiducia del pubblico, se all’insegnamento non saranno addetti professori secolari e preti diligenti nell’adempiere ai doveri del loro ministero. Ed anche il seminario riaprì le sue scuole, come nel 1848, con insegnanti ecclesiastici forniti di certificato di idoneità, ma tali scuole dopo poco tempo furono chiuse, poichè coloro che reggeano in quel tempo la diocesi beneventana non acconsentirono che fossero visitate dalle autorità scolastiche della provincia, vogliosi di sottrarsi a qualunque ingerenza del governo, ma indi a poco le scuole del seminario si riaprirono con migliori auspicii, poichè i nuovi capi degli istituti ecclesiastici credettero utile di adottare un sistema di maggiore prudenza, e fare, come si dice, di necessità virtù.
Ma appena fu provveduto ai più urgenti bisogni della P. Istruzione si vide la necessità di alcune opere pubbliche giudicate indispensabili dalla civiltà dei tempi, e di cui non avrebbe potuto più a lungo, senza grave biasimo e pencolo, esser priva una sì illustre città, capoluogo d’una nuova e fiorente provincia, e perciò innanzi tutto si pose mano al compimento dèi teatro lasciato a mezzo nel 1855, e il quale, benché non molto ampio, riuscì uno dei più belli ed eleganti delle provincie meridionali, e dopo attese il comune alacremente alla costruzione del Camposanto.
Tra tutte le città italiane la sola Benevento quasi costumava inumare i suoi cadaveri nelle chiese, la quale usanza fu creduta sempre nocevole alla salute pubblica, e a tale opinione si attennero gli antichi nell’ordinare che le sepolture comuni, ove s’interravano molti cadaveri, fossero poste nelle adiacenze delle città e dei villaggi, ed è però ammirevole la sapienza delle dodici tavole che, gelose della salute pubblica, primamente prescrissero di non seppellire ed ardere cadaveri nel recinto di Roma. Laonde il Comune di Benevento, reputando indispensabile di costruire un Camposanto, divisò di non badare a spesa, per fare che non riuscisse secondo ad alcun altro Camposanto delie prossime provincie. E, dato termine ai primi studii ordinati a tal fine, si ritenne dannoso il progetto di ampliare l’antico camposanto di S. Clementina, che servì nel 1837 per dare sepoltura ai colerosi, non solo per essere ivi il terreno argilloso, ma anche perchè trovandosi la sua superficie a livello quasi del prossimo fiume e pregna di acqua, non sarebbe stato possibile di cavare le fosse da sotterrare gli estinti a quella profondità che si raccomanda dalle leggi sanitarie. E perciò parve un luogo più accomodato a tale destinazione il declivio occidentale della collina che si dimanda Capodimonte, presso il cui vertice era un tronco della via Appia, che negli antichi tempi fu appellata Traiana o Traiannale.7 Ed il nuovo camposanto, prescindendo dalla questione sulla maggiore o minore opportunità del sito, si ornò tosto di lapidi, monumenti e cappelle, da sostenere il paragone di qualunque altro camposanto delle provincie meridionali.
E alla costruzione del camposanto tennero dietro altre opere di gran rilievo, nel tempo che resse la provincia di Benevento l’ottimo Prefetto Emilio Cler, il quale, se non fece buona prova in politica, allorchè, in virtù della legge Pica, mandò a una specie di domicilio coatto diversi preti innocui, fu sempre solerte e ineguagliabile amministratore da meritare la perpetua riconoscenza dei beneventani. Egli promosse e mandò felicemente a termine l’asilo d’infanzia, istituzione nuovissima in questa provincia, combattendo inveterati pregiudizi!, e vincendo gli ostacoli suscitati dalla gente
A Dio devota, e al ben oprar restia,
fondò il nuovo carcere, l’asilo di mendicità, e ottenne che il governo facesse dono alla nostra città del convento dei
soppressi scolopii, per allogarvi il Consiglio e la Deputazione provinciale e altri pubblici ufficii, E qui è a lamentare che il nostro Municipio, nei primi anni che seguirono la rivoluzione, non mise in opera tutti i mezzi più acconci per ottenere la concessione gratuita dei conventi dei soppressi ordini religiosi, poichè probabilmente il governo italiano — il quale con l’annessione della città di Benevento acquistò il possesso di circa un mezzo milione di franchi, che costituiva il patrimonio dei luoghi pii — non sarebbe stato avverso a siffatta concessione; tanto più che volendo creare la novella provincia, e mancando il comune di entrate, bisognava che non gli facessero difetto i locali per allogarvi i pubblici uffici. E invece il nostro comune, per essere stato astretto ad acquistare dal Demanio i conventi dei soppressi luoghi pii, vide esaurite per qualche anno le sue tenui entrate, e non gli fu possibile di provvedere celeremente ad altri non lievi bisogni del paese. Ma intanto non ristette imperoso, e in breve tempo condusse a termine l’amenissima villa, posta ove ha principio la deliziosa strada del Castello, in un sito incantevole, benchè a dire il vero, sarebbe stato più conveniente estenderla sin quasi al carcere della città. E finalmente, mediante l’operosità e gli sforzi del Sindaco cav. Manciotti Giuseppe, si videro compite nel giro di pochi anni altre tre opere di gran momento: 1. il nuovo palazzo di Giustizia che accoglie quasi tutti gli uffici giudiziari, che prima erano sparsi in diverse parti della città, e questo edifizio, non ostante varii difetti di costruzione, non ha forse l’eguale per la grandiosità in niun altra delle provincie confinanti; 2. la derivazione nella città di nuove e copiose acque potabili, la cui penuria era fonte di gravissimi danni; 3. e in ultimo s’intraprese l’allargamento del corso principale della città, opera quasi colossale, stante le modiche entrate del comune e i suoi molteplici bisogni, ma che si giudicò indispensabile; poichè senza di essa la città di Benevento non avrebbe potuto giammai prendere l’aspetto di una bella ed importante città italiana.
Anche l’agricoltura è notevolmente migliorata da parecchi anni in qua per gli sforzi di alcuni benemeriti cittadini, che han finalmente persuaso i coloni a vincere l’antico pregiudizio, pel quale a chi li consigliava di far uso dei nuovi stromenti agrarii, d’introdurre utili innovazioni nella coltura dei loro terreni, e di adottare i metodi seguiti ovunque è in fiore l’agricoltura, soleano, tenaci di antiche consuetudini e tradizioni, rispondere con infantile ingenuità: cosi fecero i nostri padri, e così faremo anche noi; il quale principio se fosse stato ammesso da tutti i popoli, noi saremmo ancora intenti a nutrirci di quelle ghiande.
« Le qual, fuggendo, tutto il mondo onora.
La provincia di Benevento ha ora, secondo la più recente statistica, 240,061 abitanti; e va divisa nei circondarii di Benevento, Cerreto Sannita e S. Bartolomeo in Galdo; i quali si compongono dei seguenti comuni:
Circondario di Benevento
Airola, Arpaia, Bucciano, Forchia, Moiano, Paolise, Arpaise, Benevento, Ceppaioni, S. Angelo a Cupolo, S. Leucio, Apollosa, Bonea, Montesarchio, Pannarano, Apice, Buonalbergo, Paduli, Fragneto l’Abate, Fragneto Monforte, Pago Veiano, Pescolamazza, Pietralcina, S. Giorgio la Montagna, S. Martino Sannita, S. Nazzaro Calvi, S. Nicola Manfredi, Campoli del Monte Taburno, Cautano, Castelpoto, Foglianise, Paupise, Ponte, Tocco Caudio, Torrecuso, Vitulano.
Circondario di Cerreto Sannita
Cerreto Sannita, Faicchio, S. Lorenzello, Cusano Mutri, Pietraroia, Amorosi, Castelvenere in Valfortore, Guardia Sanframondi, S. Lorenzo Maggiore, S. Salvatore Telesino, Morcone, Sassinoro, Campolattaro, Casalduni, Pontelandolfo, S. Lupo, Durazzano, Limatola, S. Agata dei Goti, Frasso Telesino. Meljzzano, Solopaca.
Circondario di S. Bartolomeo in Galdo
Baselice, Castelvetere in Valfortore, Castelfranco in Miscano, Ginestra, Montefalcone Valfortore, Circello, Colle Sannita, Reino, S. Bartolomeo in Galdo, S. Giorgio la Molara, S. Marco dei Cavoti, Molinara, Castelpagano, Cercemaggiore, S. Croce del Sannio.
La città di Benevento, a cui per più secoli fu tanto avverso il fato, si avvia ora a prendere il posto che le spetta tra le altre sue consorelle, e non potrà certamente fallire alla sua meta, malgrado i danni cui soggiacque in virtù delle nuove leggi finanziarie. Essa è ora intersecata da quattro linee di ferrovia, e copiosamente fornita di strade provinciali, per modo che da ogni comune quasi si rende facile l’accesso alle stazioni ferroviarie. E oltre alle strade nazionali e provinciali, il cui ufficio è quello di dar moto e vita al commercio, come le arterie al corpo umano, si è dato opera altresì ad accrescere il novero delle vie comunali e consortili, che tanto aiutano il progresso della civiltà. E infatti son desse che, agevolando i commerci, animano le minute industrie, e ravvicinano sempre più le popolazioni, le quali, a seconda che progrediscono nella coltura, amano di scambiare i prodotti specialmente agricoli, e di comunicare agevolmente le proprie idee, avvalendosi della comodità e sicurezza delle strade.
Nè debbo omettere che non solo ci furono conservate le più importanti e benefiche tra le antiche istituzioni, ma queste ricevettero non pochi miglioramenti ed innovazioni. Infatti i nostri Orfanotrofi ed Ospedali, il dovizioso Monte dei pegni, la pubblica Biblioteca, il Museo di antichità patrie, e lo splendido palagio di Prefettura, mirabile di grandezza e di ornato, che è tuttora in costruzione, sono istituzioni che ci potrebbero essere invidiate da diversi capoluoghi di provincia. E oltre a ciò la nostra città si avvantaggia di un estesa coltivazione di tabacco, e di avere un tribunale non limitato a un solo circondario, ma esteso all’intera provincia. locchè suole essere d’incitamento ai cittadini più degli altri comuni a recarsi con frequenta in Benevento, per assistere di persona alle contestazioni giudiziarie, riguardanti i loro affari di maggior rilievo, e avviva il commercio locale, mediante i tanti testimoni che da tutte le parti della provincia convengono nel capoluogo pei dibattimenti penali. E solo siamo privi di una Camera di Commercio indipendente, di un Istituto tecnico, di una scuola di arti e mestieri, e della tanto ambita e più volte promessa linea ferroviaria lungo la Valle Caudina. Laonde in un avvenire non remoto, conseguendo — come non appare difficile — tali vantaggi, la città di Benevento potrebbe attingere in pochi lustri quel grado di prosperità a cui la chiamano i tempi nuovi che le furono preparati dalla Provvidenza, e addivenire una delle più ricche e popolose città del mezzodì d’Italia.
E come nei secoli precedenti, così anche in questo, che ora volge al suo fine, Benevento non mancò d’uomini insigni, e volendo tacermi dei viventi, sento che mi corre in certa guisa l’obbligo di chiudere queste memorie storiche con un cenno sui mio concittadino ed amico Federico Torre; il cui nome può bene aggiungersi a quello dei più celebrali beneventani, che in altri tempi illustrarono la patria con le loro opere.
Federico Torre nacque in Benevento nell’anno 1815 e fece i suoi primi studii nel seminario arcivescovile di questa città, ove diede sin dalla più tenera età a divedere non comune ingegno e amore grandissimo allo studio. Toccata poi la giovinezza si recò a compiere i suoi studi nell’Università di Roma, ove, conseguita la laurea nella matematica, si addisse alla professione d’ingegnere, senza punto rimettere del suo amore alle lettere, e ne fan prova molti articoli di letteratura da lui scritti in quel tempo su diversi lodati periodici della penisola, e varii opuscoli dati in luce in diversi tempi, tra i quali primeggia quello su la vita e le opere del Perticari.
Quando poi il pontefice Pio IX, meno infesto dei suoi predecessori alla libertà civile dei popoli, non fu restio a concedere qualche libertà di stampa, Federico Torre, che aspirò sempre alle libere forme di governo, fu nel 1847 uno dei fondatori del Contemporaneo. E allorchè gli italiani, illusi dagli scritti del Gioberti, del Balbo, e di altri autori, che io chiamerei neo-guelfi, vagheggiarono la splendida utopia dell’Italia confederata con a capo il pontefice di Roma, il Torre fu nominato tenente della Guardia civica di Roma, non ostante l'opposizione del segretario di Stato, il cardinale Gizzi, e fece parte del comitato romano che, diretto da Pietro Sterbini e dal Masi, intendeva di fondare una federazione generale italiana, nel fine di assicurare l’indipendenza e la libertà della patria. E nel decembre del 1847 fu spedito in Napoli per concertare con un patriottico comitato, che ivi erasi costituito, quella potente popolare dimostrazione che fu eseguita nel 14 di quel mese, e che, se fruttò l’arresto di alcuni dei suoi promotori, indusse tuttavia Ferdinando II a promulgare la costituzione del 29 gennaio, costituzione da lui giurata e poi tradita.
Fece la campagna di quell’anno sotto gli ordini del generale Durando, e fu promosso capitano e poscia maggiore. Il Farini nella sua storia dello stato Romano parla con assai lode del Torre, e della parte da lui presa in quella memoranda campagna.
Reduce in Roma nel maggio di quell’anno dopo la capitolazione di Vicenza, con la qualità di deputato di Benevento, attese con indicibile operosità ai lavori parlamentari. Allorchè nella sera del 15 novembre ebbe luogo una clamorosa dimostrazione al Quirinale, per astringere Pio IX a nominare un ministero democratico, alcuni fanatici non eransi peritati di trasportare i cannoni della civica nella piazza, ed un pezzo era già carico e collocato di fronte al portone chiuso del Quirinale, quando il Torre — checchè ne abbia scritto in contrario il Bresciani, scrittore di setta — pose il suo corpo alla bocca di quello e impedì che fosse esploso. Nel decembre dello stesso anno fu nominato segretario del Ministero della Guerra della Repubblica Romana, e adempì con molto zelo a un tal ufficio, durante il tempo di quella eroica difesa di Roma, per la quale l’Italia mostrò all’attonita Europa — dando la più solenne mentita al Lamartine che l’avea definita la terra dei morti — di essere ancora la patria dei valorosi. E in quella occasione il celebre storico tedesco, il Weber, scrisse: «Gli italiani dopo tanti secoli d’inerzia han mostrato di sapere ancora usare le armi, e quindi spunterà ancora per essi il giorno della patria redenzione.»
Espugnata la città eterna, il Torre, escluso dal beneficio dell’amnistia, e profugo dagli stati pontificii, trasse primamente nella Grecia, ove insegnò da privato la matematica, e poscia a Malta, e in Genova, ove pubblicò le memorie storiche dell’assedio di Roma con rara imparzialità, onde la signora Mario ne fece menzione con frequenza nella sua vita di Garibaldi. Esse inoltre sono corredate di copiosi autentici documenti, scritte con purezza di lingua, con nobile patriottismo ed alti sensi civili; e mirano a rettificare i falsi ragguagli, dati dai francesi, di quell’assedio, ponendo in chiara luce la lealtà e il generoso operare dei romani e dei volontari italiani, in contrapposto del subdolo e vile dei loro nemici; e illustrando in tal guisa il più importante e travisato episodio della nostra storia contemporanea.
E in proceder di tempo, traendo profitto degli studii classici, in cui si versò la sua giovinezza, compose insieme all’esimio filologo della Noce un vocabolario latino-italiano ed italiano-latino, che è tenuto in molto pregio: e compilò anche, insieme al Tommaseo, un dizionario italiano di gran valore, che, per ragione dei tempi, rimase incompiuto, ma tuttavia la parte data a stampa fu dal Torre depositata nella nostra pubblica Biblioteca.
Nel 1859, col grado di tenente colonnello, cooperò potentemente con i fratelli Mezzacapo a costituire una divisione di romani e romagnoli, e nel decembre di quell’anno il Fanti lo propose alla direzione dell’artiglieria e genio dell’Emilia, e poi all’ufficio di Capo di Stato maggiore del dipartimento di Parma. Dopo l’annessione venne addetto al Ministero della Guerra a Torino col grado di Colonnello, e gli fu commessa la direzione del reclutamento, affidandogli con tale qualità l’arduo incarico d’introdurre la leva militare nelle diverse regioni d’Italia.
Nel 1860 Benevento lo elesse deputato a quasi unanimità di voti, e gli confermò il mandato nel 1862, quando il Torre pei segnalati suoi meriti fu nominato maggiore generale; e glielo riconfermò nelle cinque successive elezioni. Nei seguenti quattro lustri il reclutamento dell’esercito fu diretto esclusivamente dal Torre, che venne promosso Tenente generale nel decembre del 1874, e le sue relazioni sulle leve eseguite in Italia si ritennero nella dotta Germania per i più esatti ed accurati lavori pubblicati in tal genere in Europa, da poter essere tolti a modello da tutte le nazioni.
Dopo il 18 marzo del 1876, il Torre avea in animo di dimettersi dal suo ufficio, non trovando giustificato l’indirizzo del governo; ma il Mezzacapo e il de Pretis lo dissuasero dal presentare le sue dimissioni. Nel novembre del 1876 il generale Torre non fu eletto deputato del collegio di Benevento, non per essere scemata nei suoi concittadini la fiducia in lui riposta, ma perchè si tenne utile alla nazione che fosse asceso al potere il partito di sinistra con una forte maggioranza, per metterlo in grado di poter attenere le sue promesse, ma il suffragio esteso nel 1882 gli ridiede il posto di rappresentante nel suo collegio di Benevento.
Nell’anno seguente conseguì tra le altre onorificenze la Gran Croce dell’Ordine Austro Imperiale di Leopoldo pei lavori di statistica militare, e la reputazione a cui salì il Torre non dipese punto, come si verificò in non pochi altri uomini politici, dalle propizie occasioni usate con accorgimento, da grandi aderenze e cause somiglianti; ma fu unicamente la conseguenza dei suoi lunghi studii, delle sue durate fatiche, della fermezza del suo carattere, e della sua illibata condotta.
Infine fu il Torre nominato Senatore del Regno nel 1884 ed egli sen dolse, poichè, coerente ai suoi principii, facea stima che il più elevato ufficio a cui possa aspirare un cittadino sia quello di deputato.
Il Torre, scriveva il Nisco, fu uno di quegli uomini che non mutano bandiera secondo il vento che spira, e che si studiano di tirare ogni cosa divina ed umana a beneficio proprio, sistema egoistico che il Macchiavelli chiamò la corruttela italiana. Di egregi capi di amministrazione e di generali distinti l’Italia non ebbe mai penuria; non così di cittadini di carattere saldo, che anteponessero l’abbandono e Toblio alle più alte cariche sociali, per non conquistarle coi raggiri partigiani, de’ quali fu sempre assai scarso il numero.
Ma il Torre rifulse anzitutto per un tal pregio, che attestava l’altezza del suo carattere, giacché, a dirla col Giusti, in tutte le vicende politiche si mantenne sempre di un sol pezzo.
Il generale Federico Torre passò di vita nel 9 decembre 1892. Le sue esequie furon quali addiceansi ai meriti di un tanto cittadino; e il Consiglio comunale deliberava di erigergli nella villa pubblica un monumento in marmo, per tramandarne ai posteri la memoria.
Note
- ↑ Documento. — Il Comitato Centrale al Presidente del Comitato di Benevento.
«Il Comitato Unitario Nazionale, conoscendo che codesto Comitato da più tempo operosamente lavora per raggiungere l’unità e libertà d’Italia, sotto io scettro costituzionale di Vittorio Emanuele, dichiara che iniziando il movimento tra le provincie limitrofe del regno, e tenendo unità di azione con le medesime, fin da ora considera Benevento come Capoluogo di Provincia Napoletana, e quindi questo Comitato farà si che ad ogni costo abbia effetto una tale promessa; oltreché non abbandonerà giammai i beneventani alla discrezione del Governo Pontificio.Napoli 16 Giugno 1860.
- ↑ Il card. Domenico Carafa della Spina dei duchi di Traetto, nato in Napoli 12 luglio nel 1844, fu creato arcivescovo di Benevento, e da Gregorio XVI cardinale dal titolo di S. Maria degli Angeli alle Terme. Egli restaurò il Duomo e il Seminario, e celebrò un sinodo diocesano nell’anno 1855, che fu pubblicato per le stampe.
- ↑ Il conte Carlo Torre da governadore di Benevento fu nel 1861 trasferito alla Prefettura di Lecce, e poi a quelle di Cagliari e di Ancona. Indi fu promosso a Prefetto di Torino, e poi di Milano, e nominato Senatore del regno. Egli diede le sue dimissioni allorchè ascese al potere il partito di sinistra nel 1876, e si ridusse in Benevento a vita privata.
- ↑ Il Pelorusso poco dopo uccise il Sindaco Giacomo Farini, insieme alla druda, per vendetta di aver chiamalo in suo aiuto i piemontesi.
- ↑ Il Sindaco Luigi Ursini, accusato di aver consigliato il suo dipendente Angelo Pica a ordinare l’uccisione dei 37 soldati piemontesi, fu dopo varii anni assoluto con sentenza contumaciale emessa in Camera di Consiglio dalla Corte di Assise di Benevento.
- ↑ Il cardinale Giovan Battista Bussi, patrizio romano, nacque in Viterbo nel 20 gennaio 1756. Da papa Leone XII fu creato Arcivescovo di Benevento nel 3 maggio 1824. Egli, ad agevolare la popolare istruzione, fondò una casa di fratelli di scuole cristiane, che fu conservata dal governo dopo l’ultima soppressione degli ordini religiosi, e fondò pure un conservatorio di fanciulle dal titolo di S. Filippo Neri, con le entrate del soppresso monastero delle benedettine, ossia dame di S. Vittorino, e con quelle altresì della badia di S. Sofia, che fu soppressa dal governo francese nel 1806.
- ↑ Nella via che mena al nostro camposanto si scoprirono pochi anni or fa molte tombe, in cui si trovarono parecchi vasi unguentarii di forma cepollina, altri di creta cotta, e diverse monete tra i denti di alcuni teschi, e varie iscrizioni appartenenti alle illustri famiglie Vodonia e Trebonia.
Laonde per tale scoperta si rende certo che nel luogo ove giace l’attuale camposanto esistette un sepolcreto sui primi secoli dell’Era cristiana, con sepolcri gentilizii. A chi poi mi chiedesse come mai col volger del tempo si fosse potuto cancellare ogni vestigio di pubblico camposanto o cimitero in quel luogo, ricorderò che allorquando nel quartosecolo dell’Era Cristana si cessò d’infierire contro i così detti Nazzareni questi abborrendo non solo il culto che si rendeva dai gentili alle loro deità, ma anche i loro riti, ebbero a vile le tombe e le memorie dei loro maggiori. Laonde è lecito per lo meno congetturare che per questo si lasciasse derelitto e deserto l’antico sepolcreto, e l’aratro solcasse quel luogo che pur era sacro per memorie e ricordanze soavi. E forse in tempi non lontani, quando per i tremuoti ruinò gran parte della città di Benevento, è probabile che dal vicino sepolcreto fosse tolta non poca parte della materia che servi alla costruzione delle nuove case, e ciò solo darebbe ragione di tante pietre sepolcrali sparse in tutti i punti della città. E che dopo il quarto secolo i cristiani si elessero un altro luogo per proprio camposanto si può dedurre dalle moltissime iscrizioni con epigrafi cristiane disascoste sulla strada appellata S. Pietro la Fora. E però in una età di tolleranza religiosa, in cui tutti rifuggono dalla idea che la carità fraterna debba essere distrutta dalla difformità delle credenze religiose, possiamo allegrarci che il nuovo camposanto, destinato a raccogliere gli avanzi di un popolo cristiano, si sia costruito là dove si deposero nella antichità le salme dei Gentili, onorate anch’esse dalle lagrime dei congiunti e degli amici, e dalla riverenza dei passaggeri.