Istoria del Concilio tridentino/Libro settimo/Capitolo V

Libro settimo - Capitolo V (3-26 novembre 1562)

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CAPITOLO V

(3-26 novembre 1562).

[Informato dell’imminente arrivo dei francesi a Trento, il papa non si oppone al rinvio della sessione. — Ingresso del cardinale di Lorena a Trento: suo colloquio coi legati. — Diffidenza dei legati e dei pontifici nei suoi riguardi, per le informazioni che giungono circa i suoi propositi. — Invio di nuovi padri italiani, e accordi in Trento per far fronte all’azione del Lorena. — Suo solenne ingresso in congregazione: la lettera del re, il discorso del cardinale, la risposta del concilio, il discorso del Ferrier.— Si riprendono le congregazioni.— Malcontento dei legati per le riunioni parziali francesi tenute in propria casa dal Lorena. — Mezzi di cui si servono per essere informati dei propositi dei francesi e degli spagnoli. — I francesi si mostrano favorevoli al de iure divino. — Necessitá d’una seconda proroga della sessione. — Nuovo tentativo del Pescara per rimuovere gli spagnoli dalla loro durezza. — Il Lorena insiste perché si tralascino questi dissensi dogmatici e si pensi ad una seria riforma.]

Essendo il cardinale di Lorena entrato in Italia, il pontefice non potè negar alli francesi di fare che fosse aspettato, e scrisse a Trento che la sessione fosse prolongata, non però tanto che uscisse fuori il mese di novembre. E avendo li legati avviso che il cardinale si trovava sul lago di Garda, nella congregazione delli 9 novembre propose il Cardinal di Mantoa di differire la sessione sino alli 26 del medesino mese. Il che non sapendo Lorena, mandò inanzi Carlo dei Grassi, vescovo di Montefiascone, e scrisse anco lettere alli legati che, piacendo loro di aspettarlo, sarebbe stato in pochi giorni in Trento: ed essi risolsero di non far piú congregazione fino alla venuta sua, per dargli maggior sodisfazione. Riferí il vescovo suddetto che quel cardinale in tutti li suoi ragionamenti mostrava andar con buona intenzione, volendo anco mandar a Sua Santitá li [p. 71 modifica] voti suoi, acciò li potesse vedere; che li prelati di sua compagnia andavano per servizio di Dio e con buon animo verso la sede apostolica; che sperava la gionta dei francesi dover causare concordia nel concilio e dover esser causa di far attendere fruttuosamente alla riforma, senza aver rispetto alcuno alli interessi propri: e altre tal cose, le quali, se ben testificate dal Grassi e confermate dall’ambasciator Ferrier, però dalli pontifici erano credute per solo complemento, ma non ad effetto di tralasciar d’usare tutti li remedi disegnati e in Trento e in Roma.

Entrò il cardinale in Trento, incontrato un miglio discosto dal Cardinal Madruccio con molti prelati, e alla porta della cittá da tutti li legati, dalla quale sino alla casa del suo alloggiamento fu accompagnato. Cavalcò in mezzo delli cardinali di Mantoa e Seripando; il qual onore credettero esser necessario fargli, poiché il medesimo gli fu fatto dalli Monte e Santa Croce, allora legati in Bologna, nel tempo che il concilio era in quella cittá ed egli andava a Roma a pigliar il cappello. Egli la sera andò a visitar il Cardinal di Mantoa e, il giorno seguente, all’audienzia delli legati insieme con li ambasciatori Lansac e Ferrier. Presentò le lettere del re dirette al concilio, e vi fece sopra un longo ragionamento, mostrandosi inclinato al servizio della sede apostolica, promettendo di participar tutti i disegni suoi con il pontefice e con essi legati, né voler ricercar cosa alcuna se non con buona satisfazione di Sua Santitá; mostrò di non voler esser curioso in questioni inutili, soggiongendo che le due controversie dell’instituzione de’ vescovi e residenza, de quali si ragionava in ogni parte, sí come avevano diminuito dell’autoritá del concilio, cosí avevano anco levato assai della buona opinione che ne aveva il mondo. E quanto a sé, disse esser piú inclinato all’opinione che le afferma de iure divino; nondimeno, quando anco fossero certissime, non vedeva necessitá né opportunitá di venirne alla dechiarazione; che il fine del concilio doveva esser di riunir alla Chiesa quelli che erano separati; che egli era stato a parlamento con li protestanti e non li aveva trovati tanto differenti [p. 72 modifica] che non si potessero accomodare, quando si levassero gli abusi; e nessun tempo esser piú opportuno di acquistarli di quello, sapendosi certo che non furono mai tanto uniti all’imperatore come allora. Che molti di essi, e specificatamente il duca di Virtemberg, erano di volontá d’intervenir al concilio; ma era necessario darli satisfazione con un principio di riforma: nel che il servizio di Dio ricercava che Sue Signorie illustrissime s’occupassero. Narrò il desiderio del re che si provvedesse al bisogno de’ suoi populi con opportuni rimedi, poiché si come al presente si aveva guerra con gli ugonotti, quando non si rimediasse agli abusi s’averebbe avuto che fare maggiormente con li cattolici, l’obedienzia de’ quali si sarebbe perduta. Che queste erano le cause perché la Maestá sua l’aveva mandato al concilio. Si dolse che di tutta la somma del denaro promesso per imprestito dal pontefice al re non s’era potuto valer piú che di venticinque mila scudi sborsati dal Cardinal di Ferrara, per le condizioni poste nelli mandati che non si potessero esigere se non sotto certe condizioni di levar le pragmatiche di tutti i parlamenti del regno: cosa di tanta difficoltá che levava la speranza di potersi prevalere pur d’un denaro. In fine disse che aveva portato nove instruzioni agli ambasciatori; e però, quando avesse parlato alla sinodo nella prima congregazione per nome del re, all’inanzi non averebbe atteso ad altro che a dire li suoi voti liberamente come arcivescovo, non volendosi intromettere nelle cose del regno, ma lasciarne la cura a loro.

Fu risposto dalli legati senza altra consultazione tra loro, secondo che a ciascuno meglio parve, lodando la sua pietá e devozione verso la sede apostolica, e offerendosi essi ancora di comunicar con lui tutti li negozi. Gli narrarono la grandissima pazienza da loro usata in tollerar la libertá, anzi licenza del dire de’ prelati, acciò non fosse pigliata occasione di dolersi che il concilio non fosse libero; che li inconvenienti occorsi non erano nati dalle proposte fatte, ma per la licenza presa dalli prelati, che erano andati vagando con movere nove questioni. Imperò, essendo ora Sua Signoria illustrissima [p. 73 modifica] unita con essi loro, non dubitavano col suo avviso poter levar quella tanta licenza, e componer anco col suo aiuto e mezzo le differenzie nate, e nel proceder all’avvenire camminar con tanto decoro, che il mondo ne fosse per ricever altrettanta edificazione, quanto di non buona opinione aveva concetto. Che dei protestanti era troppo nota la mala volontá; e quando si mostrano non alieni dalla concordia, allora appunto s’ha da dubitare che macchinino nove occasioni di maggior discordia. Esser cosa certa che hanno dimandato concilio, pensando che li dovesse esser negato; e nel medesimo tempo che lo richiedevano con ogni sollecitudine, vi mettevano impedimenti; e al presente quelli che sono ridotti in Francfort fanno ogn’opera che non procedi inanzi, e si faticano appresso l’imperatore per interporgli qualche impedimento. Che odiano il nome del concilio non meno che del pontefice; né per il passato se ne sono valuti se non a fine di coprire e scusare la loro apostasia dalla sede apostolica: però non conveniva alcuna speranza della loro conversione, ma attender solo a conservar li buoni cattolici nella fede. Commendarono la pietá e la buona intenzione del re, e narrarono il desiderio del pontefice per la riformazione della Chiesa, e quanto egli aveva operato per reformazione della corte, senza aver risguardo che si diminuissero le proprie entrate; e che al concilio ha sempre scritto instando per la riforma; alla quale essi legati ancora erano grandemente inclinati e disposti, ma venivano impediti per le contenzioni dei prelati che consumavano quasi tutto ’l tempo. Che se in Francia vi era pericolo di perdere l’obedienzia de’ cattolici, quella era materia da trattare con Sua Santitá. Quanto all’imprestito, dissero esser cosí grande la paterna caritá del pontefice verso il re e il regno, che conveniva tenir per certo le condizioni da lui poste nell’imprestito esservi framesse per pura necessitá. Ed essendo passato tra loro vari complementi, conclusero che il lunedí sarebbe andato nella congregazione generale per espor ai padri la cagione della sua venuta, e per legger a loro anco le lettere del re. [p. 74 modifica]

Li legati restarono con gran pensiero per le parole dette dal cardinale, di non voler impedirsi nelle cose del regno, ma lasciar la cura agli ambasciatori, non ritrovandole conformi a quello che avevano mostrato pochi giorni inanzi Lansac e Ferrier; rallegrandosi della venuta del cardinale, come se avessero ad esser liberi d’ogni peso e carico, dovendo riposar il tutto (dicevano essi) sopra Sua Signoria illustrissima; dalle quali conclusero che conveniva aver molto l’occhio a quelle dissimulazioni, massime aggiongendovisi certo avviso che ebbe il Cardinal Simonetta da Milano, che li abbati francesi alloggiati in Sant’Ambrogio ebbero a dir che sarebbono stati uniti con spagnoli, tedeschi e altri oltramontani, e che andavano per trattar cose che non sarebbono piaciute alla corte; e gionto appresso che in tutti li ragionamenti delli francesi si sentiva proporre che non era da perder in questioni il tempo che si doveva dispensar in parlar della riforma; che si doveva incominciar dal levar la pluralitá de’ benefici, e che il cardinale voleva esser il primo a lasciarli; che le dispense s’abbiano a dar gratuitamente; che si levassero le annate, prevenzioni e date picciole, e si facesse una sola provvisione per beneficio: esagerando anco che il pontefice aveva una bellissima occasione d’acquistarsi immortail gloria col far le suddette provvisioni, e sodisfar alli populi cristiani per unirli e pacificarli, provvedendo alli abusi e inconvenienti; e che in ricompensa pagherebbono a Sua Santitá mezza decima. Che essi erano venuti risoluti di non partirsi prima di aver tentato tutte queste provvisioni, quantunque bisognasse starvi longamente; e che quando vedessero segni che non si fosse per provvedere, essi non sono per far strepito alcuno, ma per ritornarsene in Francia, e far le provvisioni essi in casa loro. Avevano anco li legati qualche certezza di stretta intelligenza del cardinale con l’imperatore, e, quello che piú stimavano, col re di Boemia, manifestamente inclinati a dar qualche sodisfazione ai principi di Germania; li quali era chiara cosa che odiavano il concilio e avevano caro che non procedesse inanzi, ma si dissolvesse in qualche maniera, però vantaggiosa [p. 75 modifica] per loro e disonorevole per la sede apostolica e per la sinodo. Ebbero anco suspizione del re cattolico, per un avviso andato al secretario del conte di Luna, che essendo giá fatta in Spagna l’instruzione per quel conte, per diversi avvisi sopraggionti si era risoluto di mandar Martino Gastelone, giá secretario dell’imperatore Carlo V, per portarli instruzione a bocca che non avevano voluto commetter alla scrittura. Il che confrontando con certo avviso avuto di Francia, che il Cardinal di Lorena prima di partire aveva partecipato con Sua Maestá cattolica le petizioni che disegnava trattar in concilio, e sapendo certo che era stata ricercata anco di Germania a far instanzia per la riforma, dubitavano che la venuta di quel cardinale non fosse per partorir gran novitá; e non li piaceva punto il motto che li aveva dato nell’audienza, del venir tedeschi al concilio, massime considerando il colloquio che aveva avuto giá col duca di Virtemberg. E in somma, non potendo se non presupporre che una persona di tanta autoritá e prudenza non sarebbe andata senza fondamento sicuro per fabbricare i suoi disegni, pensarono di spedir immediate al pontefice con tutte queste considerazioni. E avendo osservato che sempre quando giongevano in Trento o partivano estraordinari, li prelati ricevevano occasione di parlare, d’investigare la causa, e di bisbigliare e far strepito e macchinare anco, il che dopo la venuta del cardinale averebbe potuto produr effetti piú pericolosi, spedirono con secretezza e scrissero che a Roma fosse dato ordine alli corrieri che all’ultima posta appresso Trento lasciassero la guida e ogn’altro impedimento, ed entrassero nella cittá pian piano col solo dispaccio.

Non andò il cardinale in congregazione, secondo l’ordine dato, perché il giorno seguente sopraggiuntagli la febbre, se ben leggera, lo fece differire: mostrò nondimeno desiderare che si andasse lentamente, per poter intervenir esso ancora inanzi la resoluzione. Li legati risolsero di compiacerlo, facendo ridur la congregazione molto piú tardi del solito: nella quale essendo intervenuti li vescovi e abbati francesi, si fece prima una general ressegna, consegnando a ciascuno il suo [p. 76 modifica] luoco; e il numero de’ prelati in quella si trovò dugendiciotto. E il seguente giorno, per esser nata qualche difficoltá di precedenza, fu di novo la ressegna fatta, facendo entrar li prelati ad uno ad uno in congregazione, e conducendo ciascuno al luoco suo. In quelle congregazioni però nessuno delli francesi parlò, o perché volessero aspettar l’intervento del cardinale, o per veder prima bene il modo che tenivano gli altri.

L’arcivescovo d’Otranto ordinò per la sera delli 19 novembre un banchetto a molti prelati; e quello che ebbe il carico, li invitò, dicendo che non dovessero per servizio della sede apostolica mancare: per il che immediate si pubblicò per Trento che li pontifici si radunavano per concertar unione contra li francesi. La qual cosa fu a loro di molto disgusto, tanto piú quanto dopo il convito furono certificati che a quella mensa s’erano tenuti tali ragionamenti; e vedendo anco che dopo la loro venuta quasi ogni giorno arrivava qualche prelato di novo, pareva loro esser stimati diffidenti e contrari. Li legati però, a fine di mostrar ogni confidenzia e rispetto di onore al cardinale, nelle visite che ciascun di loro fece durante il tempo dell’indisposizione, lo persuasero a pigliar cosí bella occasione in sopire con l’autoritá sua le controversie per le questioni introdotte, cosa che a lui sarebbe agevole e di gran riputazione, non avendo potuto gli altri effettuarlo. A che il Cardinal si dispose assai bene e s’offerí di adoperarsi.

Il pontefice, che in quei giorni era stato in qualche pericolo per un grave e improvviso accidente, ricuperata la sanitá, ebbe gli avvisi dalli legati, e da molti luochi per dove li francesi erano passati, che tutti in conformitá erano pieni delli disegni loro; e a questo s’aggionse che, mentre fu indisposto, monsignor dell’Isle andò facendo pratiche che il papa si facesse a Trento per nazioni, se fosse morto, e si tenesse la sede vacante sin che la reforma fosse fatta, ché cosí il concilio sarebbe stato libero, e il papa creato non averebbe sentito gravezza di accettar la riforma stabilita prima. Il che piú d’ogni altra cosa lo commosse, cosí per l’affetto del dispiacere che [p. 77 modifica] ogni uomo, e li principi massime, sentono quando si disegna dopo la vita loro, come anco perché nessuna cosa lo rendeva piú certo dell’animo de’ francesi, risoluto alla riforma della corte e del pontificato. E a queste cose aggiongendo anco le differenze che erano in Trento per la instituzione delli vescovi e per la residenza, fece ridur quotidiane congregazioni; e non si teneva che non dicesse ad ogni sorte di persona che non aveva negozio piú importante e piú pericoloso a sé che il concilio: e nel dar conto in concistoro delle differenze per causa dell’instituzione e della nova proposta della residenza, uscí ad esclamare che tutti li vescovi beneficiati da lui erano contrari, e che nodriva in Trento un esercito di nemici. Era anco opinione che in suo secreto avesse caro qualche progresso degli ugonotti in Francia, o qualche avvantaggio de’ protestanti nella dieta di Germania, a fine che il concilio si dissolvesse senza sua opera. Nondimeno, tutto intento alli remedi, ordinò che li vescovi non ancora partiti da Roma si partissero immediate, e volle che anco Marc’Antonio Bobba vescovo di Austa, ambasciator del duca di Savoia appresso di sé, vi andasse. Dall’altra parte proibí l’andarvi all’arcivescovo turritano e al vescovo di Cesena: a quello perché nel concilio sotto Paulo, nella materia della residenza, con piú constanza che non comportava il tempo, difese che fosse de iure divino; il vescovo di Cesena, perché era molto intrinseco del cardinale di Napoli, del quale diffidava assai per la carnificina delli due zii di quello e per le esecuzioni fatte contra la sua persona: e temeva perché in mano del conte di Montebello, padre del cardinale, si diceva esser una polizza di mano di esso papa, essendo cardinale in conclavi, per la quale prometteva certa somma di denari al Napoli per il suo favore. Ma con tutto che la maggior diffidenza fosse sopra francesi, nondimeno giudicò meglio dissimularla. Mandò in Francia quaranta mila scudi per resto delli cento mila promessi; e a Trento mandò Sebastiano Gualtero, vescovo di Viterbo, insieme con Lodovico Antinori (li quali, essendo stati in Francia, avevano qualche conversazione con alcuni di quei prelati e [p. 78 modifica] servitú col cardinale) sotto colore di onorarlo; e scrisse a lui e a Lansac littere piene di compimenti e confidenza. Da loro però fu stimato che fossero mandati per scoprir l’intenzione del cardinale e osservar li suoi andamenti; e massime essendo stati da Roma avvisati che quel vescovo aveva confortato il pontefice a non temer tanto, perché il cardinale averebbe trovato delle difficoltá e impedimenti piú che non credeva, e s’era anco offerto esso di farne nascer d’avvantaggio.

Il 22 del mese di novembre fu risoluto il cardinale d’entrar il dí seguente in congregazione. Si concertò che si sarebbono lette le lettere del re e che egli averebbe fatto un ragionamento; ma oltre questo propose il cardinale che un altro sarebbe fatto anco dall’ambasciator Ferriero. A questo non acconsentivano li legati. La causa vera era perché, quando una volta fosse permesso, averebbono voluto e essi e tutti gli ambasciatori parlare e proponere, con pericolo di metter maggior confusione; ma tacendo questo, dissero che in quel concilio, né in quel tempo né sotto Paulo e Giulio, s’era mai permesso che ambasciatori parlassero in congregazione, se non il giorno che erano ricevuti: però che senza il consenso del pontefice non erano per acconsentire a tal novitá. Ma Lorena rispose che, essendoci nova lettera del re e nova instruzione, si può dir nova ambasciaria, e quella sará essa ancora come un primo ingresso. E dopo molte risposte e repliche, avendo Lorena datogli parola che non ricercarebbono piú di parlare oltra quella fiata, per darli sodisfazione, e acciò non prendesse occasione di mostrar aperto disgusto, si contentarono.

Adunque il dí seguente, adunata la congregazione, fu letta la lettera del re con soprascrizione: «Alli santissimi e reverendissimi padri in Dio congregati in Trento per celebrar il santo concilio». In quella diceva che, essendo piaciuto a Dio chiamarlo al regno, gli è anco piaciuto affligger quello di molte guerre; ma però ha aperto ad esso gli occhi, sí che, quantunque giovine, ha conosciuto la principal occasione dei mali esser la diversitá delle opinioni nel fatto della religione: per la qual divina illuminazione dal principio del suo regno [p. 79 modifica] fece instanzia per la celebrazione del concilio nel quale essi allora erano congregati, sapendo che in quelli gli antichi Padri hanno trovato li propri remedi a simili infirmitá; ed essergli dispiaciuto che, sí come è stato il primo a procurare cosí buon’opera, non abbia potuto inviare li suoi prelati tra li primi; del che essendone le cause notorie, stimava di esserne abbastanza iscusato, e maggiormente vedendo arrivato nella loro compagnia il Cardinal di Lorena, accompagnato da altri prelati. Che due cause principali l’hanno persuaso a mandar il detto cardinale: la prima, la grande e frequente instanza da lui fatta di aver licenzia per satisfar al suo debito, per il luoco che tiene nella Chiesa; la seconda, che essendo egli del conseglio regio secreto, e dalla gioventú nodrito nelli importanti affari di stato del regno, sa meglio d’ogn’altro le necessitá di quello, e dove siano nate le occasioni: onde potrá ancora farne a loro relazione conforme al carico che gli è stato dato, e richiederne per nome regio li remedi che s’aspettano dalla loro prudenzia e amor paterno, cosí per tranquillitá del regno come per salute universale di tutta cristianitá. Soggionse che li supplicava voler metter mano a questo con la solita sinceritá, acciò si venga ad una santa riforma, e che si vegga rilucer l’antico splendore della chiesa cattolica con unione di tutto il cristianesmo in una religione: che sará opera degna di loro, desiderata da tutto ’l mondo; che ne averanno ricompensa da Dio e lode da tutti li principi. Concluse che rimettendosi egli, quanto alli particolari, al voler e prudenzia del cardinale, li pregava darli fede in quello che averebbe detto da sua parte.

Dopo questo parlò il cardinale. Nel principio narrò le miserie del regno, deplorò le guerre, le demolizioni delle chiese, le occisioni de’ religiosi, la conculcazione de’ sacramenti, l’incendio delle librarie, delle immagini, delle reliquie de’ santi, la devastazione delle sepolture de’ re, principi e vescovi, l’espulsione delli veri pastori: e passando alle cose civili, narrò lo sprezzo della maestá regia, l’usurpazione delle entrate regali, la violazione delle leggi, le sedizioni eccitate [p. 80 modifica] nel populo; e di tutti questi mali attribuí la causa alla corruzione dei costumi, alla disciplina ecclesiastica rovinata, alla negligenzia usata nel reprimer l’eresia e usar li rimedi instituiti da Dio. Voltato agli ambasciatori delli principi, gli raccordò che quello, che oziosi vedono ora in Francia, pentiti tardi lo esperimenteranno a casa loro, se la Francia, cadendo, con la sua mole dará nei luochi vicini. Con tutto ciò disse restarci ancora rimedi: la virtú e indole del re, li consegli della regina e del re di Navarra e degli altri principi, quali non perdonano alla vita e all’avere; ma il principale esser aspettato da quella sinodo, di onde debbe venir la pace di Dio eccedente ogni senso. Del che essendo certo il re cristianissimo, mosso dall’osservanza verso quella sinodo, e per la molestia che sente per i dispareri della religione, due cose da loro ricercava. La prima, che si fuggissero le nove discordie, le nove e infruttuose questioni, e si procurasse suspensione d’arme tra tutti li principi e stati. Che non si dasse scandolo alli protestanti, con darli occasione di credere che la sinodo piú tosto attenda ad incitar li principi alle armi e trattar confederazioni e leghe, che a servar l’unitá della pace. Che il re Enrico primieramente l’ha stabilita, e poi il re Francesco II continuata, e il presente re pupillo con la madre l’hanno sempre desiderata: il che se ben è infelicemente successo, convien però temer, come piú infelici, gli avvenimenti della guerra; perché essendo posti tutti li stati del regno in pericolo di naufragio, uno non può l’altro aiutare. Onde desidera che si tenga qualche conto delli sviati dalla Chiesa, condannandoli quanto si può senza offesa di Dio, e avendoli per amici per quanto si può, e sino agli altari. La seconda richiesta comune al re con l’imperatore e gli altri re e principi, era che si trattasse della riforma dei costumi e della disciplina ecclesiastica, mettendoci seriamente la mano. Al che il re li ammoniva e scongiurava, per il Signor nostro Cristo che verrá al giudicio, che volendo redintegrar l’autoritá della Chiesa e retener quel regno di Francia, non voglino mesurar gl’incomodi de’ francesi con li propri loro. Rallegrarsi che [p. 81 modifica] l’Italia sia tutta in pace e che la Spagna ne tenga il timone: la Francia esser caduta, e a pena tenerlo con un dito. Soggionse che se domanderanno a chi si debba ascriver la causa della tempesta e fortuna eccitata, egli non poteva altro rispondere, salvo che dicendo: «Per noi è stata questa fortuna, buttateci in mare». Per il che esservi bisogno di ardire e di cuore, e di attendere a se medesimi e a tutto il gregge. In fine disse aver finita la sua legazione, e che gli ambasciatori direbbono il rimanente: ma egli e li prelati seco venuti protestavano di voler esser soggetti, dopo Iddio, al beatissimo pontefice Pio, riconoscendo il suo primato in terra sopra tutte le Chiese, li comandamenti del quale mai ricuseranno; che hanno in venerazione li decreti della chiesa cattolica e della sinodo generale; che onoravano e riverivano li legati, offerivano concordia e unione alli vescovi, e si rallegravano che li ambasciatori dovessero esser testimoni delli pareri loro, tutto ad onor della Maestá divina.

Finito di parlare, il Cardinal di Mantoa con poche parole lo lodò della fatica presa per servizio di Dio; attestò che della venuta sua tutta la sinodo s’era rallegrata; fece anco onorata menzione delli fratelli suoi, commendandoli che nella professione loro non mostrassero minor prontezza nel servizio di Dio e del regno; e si rimise alla risposta che per nome della sinodo averebbe dato l’arcivescovo di Zara a ciò deputato. Il qual disse che la sinodo con sommo dispiacer aveva sempre udito le sedizioni e tumulti di religione in Francia, della quale la quiete e tranquillitá gli era stata sempre a cuore; e tanto piú ne sentiva dispiacer allora, quanto con la narrazione di Sua Signoria illustrissima gli erano stati posti sotto gli occhi; ma sperava che in breve il re potrá, imitando la virtú de’ suoi maggiori, reprimerli. Che la sinodo s’adopererá con tutto l’animo per far conoscer il vero culto di Dio, emendar li costumi e render la tranquillitá alla Chiesa; al che sperava poter piú facilmente pervenire, aiutata dall’opera di Sua Signoria illustrissima e delli prelati con lei venuti. Si estese longamente nelle laudi del cardinale, e concluse che la sinodo [p. 82 modifica] ringraziava Dio per la venuta sua e si congratulava con lui, e s’offeriva di ascoltar quello che a suo luoco e tempo dagli ambasciatori fosse detto, non dubitando che debbia esser a gloria di Dio, utilitá della Chiesa e somma dignitá della sede apostolica.

Dopo questo parlò l’ambasciator Ferrier, incominciando a commendar l’animo del re inclinato alla religione; il che si rendeva piú manifesto per la venuta e il ragionamento del cardinale, dal quale appariva quanto la Francia procuri il bene della chiesa cattolica, potendo ognuno conoscere che potentissime cause l’abbiano indotto a mandarlo, poiché si era sempre valuto del conseglio suo nelli gran negozi del regno. Che potrebbe il re in tre giorni quietar tutte le sedizioni e retener nella natural obedienzia gli animi de tutti li suoi sudditi, quando avesse solo mira alle cose sue, e non alla chiesa cattolica e a retener la dignitá e autoritá del pontefice in Francia, per quali solamente espone a pericolo il regno, la vita e l’avere di tutti li grandi e nobili. E descendendo alle richieste sue, soggionse che in quelle non sarebbono fastidiosi e difficili; che non domandavano se non quello che tutto il mondo cristiano dimanda; che il re cristianissimo richiede quello che dimandò il gran Costantino dai padri del concilio niceno; che tutte le richieste regie si contengono nelle sacre lettere, nei vecchi concili della chiesa cattolica, nelle antiche constituzioni, decreti e canoni de’ pontefici e Padri; che il cristianissimo dimandava la restituzione della chiesa cattolica in integro da essi padri, constituiti giudici pretori da Cristo, ma non per un decreto di clausula generale, anzi secondo la forma delle espresse parole di quell’editto perpetuo e divino, contra il quale non può aver luoco usurpazione o prescrizione alcuna; sí che ritornino finalmente come dalla captivitá nella santa cittá di Dio e alla luce degli uomini quei buoni ordini, che il demonio ha per forza rubati e per longo tempo ascosti. Diede l’esempio di Dario, che quietò li tumulti di Giudea non con arme, ma con eseguir l’antico editto di Ciro; di Giosia, che riformò la religione con far [p. 83 modifica] leggere e osservare il libro della legge, occultato per malizia degli uomini. Passò poi ad un acuto motto, dicendo che se li padri dimanderanno perché la Francia non sia in pace, non si potrá risponder altro se non quello che Gieu disse a Gioran: «Come può esser pace restando ancora?...». E tacque le seguenti parole, ma soggionse: «Voi sapete il resto»; aggiongendo poi che, se non si attenderá a questa reformazione, saranno vani li aiuti del re di Spagna, del pontefice e degli altri prencipi; e il sangue di quelli che periranno, se ben meritamente per i propri peccati, sará richiesto dalle mani di essi padri. Concluse che, prima che descendere alli particolari che debbono dimandare, richiedevano che finissero presto le cose che avevano cominciato a trattare, acciò potessero attender quanto prima alle altre molto piú gravi e necessarie in quel tempo.

Non dispiacque meno la pongente libertá di questo ambasciatore che la usata da Pibrac suo collega alla loro venuta in Trento; nondimeno il timore che si aveva delli francesi fece metter in silenzio le offese di parole.

Il seguente giorno si continuarono le congregazioni, e la prima fu tutta occupata solo da fra’ Gasparo di Casal, vescovo di Liria; il qual per informar il Cardinal di Lorena di tutte le ragioni de’ spagnoli, recapitolò con magniloquenzia le cose da altri dette in quella materia: vi aggionse di piú che nessuna cosa era piú a favor de’ luterani, quanto il far l’instituzione de’ vescovi di legge umana: che cosí s’approva la novitá da loro fatta d’aver posto predicatori o predicanti o ministri al governo della Chiesa, in luoco delli vescovi da Cristo instituiti. Aggionse a questo che, leggendo le epistole di san Gregorio a Giovanni constantinopolitano e ad altri, scritte contra il medesimo perché si chiamava vescovo universale, vedersi chiaramente che non si può dir che l’instituzione del pontefice romano venga da Cristo, se non si dice anco che dal medesmo venga quella de’ vescovi.

Il Cardinal di Lorena fece in casa propria congregazione delli prelati e teologi francesi con lui venuti, per intendere la loro opinione sopra il particolare della giurisdizione de’ [p. 84 modifica] vescovi; e fu tra loro concordemente risoluto che la ricevevano da Dio e fosse de iure divino. E questa singolaritá di congregazione fu usata dal cardinale dappoi in tutte le altre materie occorrenti, con molto dispiacere delli pontifici, a’ quali pareva che volesse far un concilio a parte; e temevano che li spagnoli con l’esempio non ne introducessero un’altra, le quali poi potessero portare un scisma manifesto, come avvenne nel concilio efesino primo, per le congregazioni che facevano separatamente li egizi e li siriani. Avevano però li pontifici tra li spagnoli Bartolomeo Sebastiani vescovo di Patti, (che, se ben spagnolo di nazione, per aver vescovato in Sicilia aveva grande intelligenzia con Roma) dal quale gli veniva scoperto tutte le pratiche e consegli loro. Tra li francesi, sino al tempo quando il Cardinal di Lorena si metteva in ordine per il viaggio, il noncio di Francia guadagnò fra’ Giacomo Ugonio franciscano, teologo sorbonista, eletto dal Cardinal di Lorena per sua compagnia, col quale ebbe qualche ingresso, per esser egli constituito procurator al concilio da Gioanni Ursino vescovo di Tréguier; e diede conto a Roma, e l’inviò per corrispondenza in Trento con sue lettere a Lattanzio Roverella vescovo di Ascoli. Ma al Cardinal Simonetta non piacque confidar tanto di quel vescovo, né volse lasciargli saper l’intelligenzia che si doveva tener col teologo. Però, avvicinandosi Lorena a Trento, fece che il vescovo di Vintimiglia mandò incontra un altro frate di san Francesco, chiamato il Pergola, all’Ugonio, a dirgli per sua parte che era avvisato dal noncio di Francia della lettera che portava a monsignor d’Ascoli, dal qual noncio gli era scritto che dovesse parlar con lui prima che la consegnasse. Dal Pergola fu fatto destramente l’ufficio, sí che il teologo diede intenzione di cosí fare; e conforme all’ordine, pochi giorni dopo che fu in Trento, andò a trovar il Vintimiglia, e dopo fatta la ricognizione e dati li contrassegni di trattar insieme, il frate gli fece relazione dello stato delle cose; e gli disse tra le altre la maggior parte delle rovine del regno derivare dalla regina, la qual favoriva gli eretici; che egli l’aveva [p. 85 modifica] chiaramente conosciuto nelle dispute che in presenzia di lei gli era occorso piú volte far con loro. Degli ambasciatori che erano in Trento gli disse che essi ancora erano corrotti. Quanto al cardinale, che lo teniva per buon cattolico, ma inclinato alle riforme impertinenti delli riti ecclesiastici, dell’uso del calice, del levar le immagini, d’introdur la lingua volgare, e altre tali cose; al che era persuaso dal duca di Ghisa suo fratello e da altri suoi parenti; che la regina al suo partire gliene fece efficace persuasione e gli diede ventimila scudi. Disse che nel numero dei vescovi ve n’erano tre della medesima fazione; ma sopra tutti quello di Valenza s’intendeva con la regina ed era mandato da lei espresso come principale, al qual averebbe convenuto che il cardinale portasse respetto. Misero in fine ordine tra loro come trovarsi e trattar insieme. Li diede il Vintimiglia cinquanta scudi d’oro (ché cosí avevano commesso li legati), i quali in principio egli fece resistenza di accettare; ma il Vintimiglia con buone e accomodate parole lo fece contentare; non però esso li pigliò, ma chiamato un suo servitore che seco era, ordinò che li pigliasse a nome della sua religione.

Io ho narrato ben spesso, e tuttavia continuo narrando alle volte qualche particolari che son certo dover da molti esser stimati non degni di menzione, sí come io parimente tali gli ho riputati; ma ritrovandoli conservati e notati nelle memorie di quelli che si sono trovati nelle azioni, mi son persuaso che qualche rispetto a me incognito vi fosse, per quale li abbiano giudicati meritevoli di commemorazione, e ho voluto, secondo il giudicio di quelli, piú che secondo il mio, riferirli. Qualche ingegno acuto forse potrá scoprirvi dentro cosa degna di osservazione, da me non penetrata; e quelli che non li stimeranno, nel leggere però averanno fatto perdita di poco tempo.

11 26 novembre, giorno che era destinato per la sessione, il Cardinal Seripando propose in congregazione che quella si differisse, poiché non erano stabiliti li decreti da pubblicarsi; e ammoní li prelati di tanta loro longhezza nel dire, da [p. 86 modifica] che nasceva che non si potesse deliberar alcun giorno certo per la sessione; per il che era necessario rimetterla a beneplacito: aggiongendo che molti di loro volevano parlar degli abusi, senza accorgersi che il continuar tanto tempo in disputazioni vanamente, senza alcun frutto, era un abuso grandissimo, necessario da levare, volendo veder fine del concilio con edificazione. Lorena confermò il medesimo, ed esortò li padri a lasciar le questioni che in quel tempo non erano in proposito, ed esser brevi e solleciti nell’espedire le cose giá proposte, per venire alle piú importanti e necessarie. Un buon numero de prelati non consentí che si rimettesse la sessione a beneplacito, e ricercarono tempo determinato: al che replicandosi che non era possibile prefigger certa giornata, per non sapersi quanto fosse necessario per uscir della materia tanto controversa tra loro, fu concluso che dopo otto giorni si stabilisse il dí determinato.

Gionse il medesimo giorno il senator Molines, mandato dal marchese di Pescara per rinovare e dar maggior efficacia agli uffici a favor del pontefice con li prelati spagnoli, che, giá fatti dal secretarlo residente, non avevano partorito effetto. Portò nove lettere di credenza del marchese a tutti loro, e s’affaticò il senatore con gran sollecitudine. Il qual uffizio fece contrario effetto, perché li prelati interpretarono tanta sollecitudine esser pratica del cardinale d’Aragona, fratello del marchese, senza commissione espressa della corte. Ma vedendosi tuttavia che quanto piú si camminava inanzi, tanto piú nascevano difficoltá per questo capo della instituzione, gli ambasciatori di Francia sollecitavano che si trovasse temperamento di spedirsi da quelle superfluitá e venir al negozio della riforma, desiderosi di chiarirsi di quello che potevano aver dal concilio. E il vescovo di Nímes si lasciò intender, dicendo il suo voto, che se alli padri era tanto a cuore il decidere una curiositá che finalmente non era se non parole, non volessero trattener gli altri, ma differirla ad altro tempo, e metter mano adesso a quello che fa di bisogno. E Diego Covarruvias, vescovo di Cittá di Rodrigo, dopo di quello, [p. 87 modifica] iscusando li padri che si trattenessero in quella questione, disse che, essendo ella stata proposta dalli signori legati, non potevano restar li prelati di dire il parer proprio. Da che commosso, il Cardinal Simonetta negò che da loro fosse fatta la proposta; e seguí Seripando piú gagliardamente, dicendo che ad essi, per la troppa licenza assontasi, non solo non bastava ragionar sopra la superioritá de’ vescovi, che era stata proposta, ma avevano anco messo in campo l’altra della instituzione, e aggionto ad ambedue il ius divinum: e non contenti della tolleranza e pazienza usata in lasciarli dir ciò che volevano, entravano ancora in dar la colpa alli legati. Riprese acremente la troppo libertá d’entrar in quelle questioni, e l’ardimento di trattar della potestá del papa, tutto vanamente e soverchiamente, con repetizioni delle medesime cose dieci e piú volte dette, e da alcuni anco con ragioni frivole e con modi inetti, indegni di quel consesso. E nel progresso del suo parlare accortosi d’aver usato troppo acrimonia, passò a dar una formula come un prelato dovesse dir il parer suo in concilio: e parlò esso sopra le proposte questioni, con mostrare che le opinioni opposite fossero aimbidue probabili; e quando anco quella che tiene de iure divino avesse probabilitá maggiore, non esser però cosa da decider in concilio. Non per questo quietò gli animi di molti commossi, né al Cardinal di Lorena piacque intieramente, il quale non mancava di far ogni dimostrazione per acquistar buona opinione, andava cercando di conoscer gli uomini ed assicurarsi di quello che potesse fare per non mettersi ad impresa, se non conosciuta riuscibile; e affettava ancora di esser quello che concordasse le differenze e fosse arbitro della questione. Fu proposto per espedizione di quella materia deputar alcuni prelati per ciascuna nazione, quasi compromettendo in loro la risoluzione. Ma non si potè effettuare, perché francesi e spagnoli volevano un numero pari di ciascuna; e gli italiani, sí come erano maggiori di numero degli altri, cosí volevano maggior numero de deputati. Il Cardinal Simonetta fu il principale in opporsi a questa proposta, per non introdur la consuetudine del concilio basiliense.