Istoria del Concilio tridentino/Libro quinto/Capitolo VIII
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CAPITOLO VIII
(agosto - dicembre 1561).
[Urto fra cattolici e calvinisti alla conferenza di Poissy. Discorsi del re, delll'Hòpital, del Tournon, del Beza, del Lorena, del Despence, del Lainez. — Sodisfazione del papa per l’insuccesso di quella. — Contrastata azione del cardinale d’Este per far annullare l'editto d’Orlèans e per sostenere le ragioni della Chiesa. — Filippo II, non senza minacce, insiste perché Caterina interrompa la tolleranza verso gli ugonotti, preoccupato anche della loro potenza nei Paesi Bassi. — Pio IV si oppone a che la legazione d’Avignone passi al cardinale di Borbone, e rinnova i suoi lagni per la protezione concessa in Francia agli ugonotti. — I prelati radunati a Poissy vedono nella concessione del calice un mezzo per indebolire il proselitismo calvinista. — Essa viene patrocinata dal cardinale d’Este, dopo ottenuta la sospensione deH’editto d’Orléans e il riconoscimento della propria nunziatura. — Il papa, sollecitato anche dall’ambasciatore francese, porta la richiesta in concistoro. Pareri contrari dei cardinali Paceco, Ghislieri, Carpi. — La decisione viene deferita al concilio. — Di questo Pio IV affretta l'inizio. Nomina di altri due legati, e insistenze perchè intervengano pure i francesi. — In Trento due prelati polacchi non ottengono di esercitare procura per tutti i vescovi della loro nazione, per cui si ritirano. — Il processo contro Tanquerel, reo d’aver sostenuta l’autoritá del papa sul temporale del re, accentua il biasimo della curia per il contegno francese. — Il papa riserva a sé la riforma della curia.]
Nello stesso mese di agosto furono li prelati congregati in Poissi, dove trattarono di reformar la vita degli ecclesiastici; ma il tutto senza conclusione alcuna. Poi ridotti li ministri de’ protestanti, che erano stati chiamati e assicurati, in numero quattordici, tra’ quali erano principali Pietro Martire fiorentino, andato da Zuric, e Teodoro Beza da Genéva, questi porsero una supplica al re con quattro capi: che i vescovi in quell’azione non fossero giudici; che il re con li suoi conseglieri vi presedesse; che le controversie si decidessero per la parola di Dio; che quello che fosse convenuto e decretato si scrivesse da notari eletti da ambedue le parti. La regina volle che uno delli quattro secretari regi facesse l’ufficio di scrivere; concesse che il re presedesse, ma non che ciò fosse posto in scritto, allegando che non era ispediente per loro, né utile per le cose del re, attesi li presenti tempi. Il Cardinal di Lorena desiderava la presenza del re al pubblico congresso, acciò fosse piú numeroso e decorato, per ostentar il suo valore, promettendosi certo il trionfo. Molti teologi persuadevano la regina che il re non intervenisse al colloquio, acciò (dicevano) quelle tenere orecchie non fossero avvelenate di pestifera dottrina. Inanzi che le parti fossero chiamate al congresso, li prelati fecero una processione e si comunicarono tutti, eccetto il Cardinal Sciatigliene e cinque vescovi; gli altri si protestarono l’uno a l’altro che non intendevano trattar dei dogmi né disputar delle cose della fede.
A’ 9 settembre si diede principio: era presente il re con la regina, li principi del sangue e li conseglieri regi; intervennero sei cardinali e quaranta vescovi. Il re, cosí instrutto, fece un’esortazione: che essendo congregati per trovar modo di rimediare alli tumulti del regno e corregger le cose degne di emendazione, desiderava che non si partissero prima che fossero composte tutte le differenze. Il cancellier piú longamente parlò per nome regio nella sentenzia medesima; particolarmente disse ricercar il mal urgente remedio presto e vicino; quel che si potrebbe aspettar dal concilio generale, oltra la tarditá, venir anco da uomini che, come forestieri, non sanno li bisogni di Francia e sono tenuti seguir il voler del pontefice; li prelati presenti, come periti dei bisogni del regno e congionti di sangue, esser piú atti ad eseguir questa buon’opera; e se ben il concilio intimato dal pontefice si facesse, esser anco altre volte occorso e non esser senza esempio, e sotto Carlo Magno esser avvenuto che piú concili in un tempo sono stati celebrati; che molte volte l’error d’un concilio generale è stato corretto da un nazionale; esserne esempio che l’arianismo, stabilito dal concilio general d’Arimini, fu dannato in Francia dal concilio congregato da sant’Ilario. Esortò tutti ad avere il medesimo fine, e li piú dotti a non sprezzar li inferiori, né questi invidiar a quelli; tralasciar le dispute curiose; non aver l’animo tanto alieno dalli protestanti, che sono fratelli regenerati nel medesmo battesmo, cultori del medesmo Cristo. Esortò li vescovi a trattar con loro con piacevolezza, cercando di ridurli, ma senza severitá, considerando che ad essi vescovi si attribuiva molto lasciandoli esser giudici nella causa propria; il che li constringeva a trattar con sinceritá: e cosí facendo, serrarebbono la bocca agli avversari; ma trasgredendo l’ufficio de giudici giusti, il tutto sarebbe irrito e nullo.
Si levò il Cardinal di Tornone, e dopo aver ringraziato il re, la regina e li principi dell’assistenzia che prestavano a quel consesso, disse le cose proposte dal cancelliere esser molto importanti e da non trattar né risponderli alla sprovvista, e però richieder che fossero messe in scritto per deliberarvi sopra.
Ricusando il cancelliere, e instando anco il Cardinal di Lorena che si mettessero in scritto, accortasi la regina che ciò si faceva per metter il negocio in longo, ordinò a Beza che parlasse. Il qual ingenocchiato e fatta orazione, e recitata la professione della sua fede, e lamentatosi che fossero riputati turbulenti e sediziosi e perturbatori della tranquillitá pubblica, non avendo altro fine che la gloria di Dio, né cercando libera facoltá di congregarsi, se non per servir Dio con quiete di conscienza e obedir alli magistrati da Dio constituiti, passò ad esplicar le cose in che convengono con la Chiesa romana e in che dissentono. Parlò della fede, delle buone opere, dell’autoritá dei concili, delli peccati, della disciplina ecclesiastica, dell’obedienzia debita alli magistrati, e delli sacramenti; ed entrato nella materia dell’eucaristia, parlò con tanto calore che era di mala satisfazione anco alli suoi propri, onde fu sforzato a fermarsi. E presentata la confessione delle chiese sue, dimandò che i capi di quella fossero esaminati, e fece fine.
Il Cardinal di Tornone, levatosi pieno di sdegno, si voltò e disse: che li vescovi, avendo fatto forza alle sue conscienze, avevano consentito di udir quei novi evangelisti, prevedendo che dovevano dir molte cose ingiuriose contra Dio; e se non avessero portato rispetto alla Maestá regia, si sarebbono levati e disturbato il consesso. Però pregava la Maestá sua non dar fede alle cose dette da loro, perché dalli prelati li sarebbe mostrato tutto il contrario, sí che vederebbe la differenza tra la veritá e la bugia. E dimandò un giorno di tempo a rispondere, replicando tuttavia che sarebbe stata giusta cosa che si fossero levati tutti di lá per non udir quelle biasteme. Di questo la regina parendoli esser toccata, rispose non essersi fatto cosa se non deliberata dalli principi, dal conseglio regio e dal parlamento di Parigi, non per mutar o innovar alcuna cosa nella religione, ma per componer la differenza e redur al dritto cammino li sviati; il che era anco ufficio della prudenza delli vescovi di procurare con ogni buon modo.
Licenziato il consesso, si trattò tra li vescovi e teologi quello che si dovesse fare. Volevano alcuni di loro che si scrivesse una formula della fede, la quale se li protestanti non volessero sottoscrivere, fossero senz’altra disputa condannati per eretici; il qual parere essendo giudicato troppo arduo, dopo molte dispute si venne a conclusione di risponder a doi capi soli delli proposti da Beza, cioè della Chiesa e dell’eucaristia. Congregato dunque di novo il consesso alli 16 del mese, in presenzia del re, della regina e principi, il Cardinal di Lorena fece una longa orazione. Disse prima che il re era membro e non capo della Chiesa; che la sua cura era ben defenderla, ma in quello che toccava la dottrina era soggetto ai ministri ecclesiastici; soggionse che la Chiesa non conteneva li soli eletti, e con tutto ciò non poteva fallare; ma quando alcuna particolare fosse in errore, conveniva aver ricorso alla romana, alli decreti de’ concili generali e al consenso delli antichi Padri, e sopra tutto alla Scrittura esposta nel senso della Chiesa: per aver di ciò mancato, esser incorsi tutti gli eretici in errori inestricabili, come li moderni nel capo pertinente all’eucaristia, dove, per prurito insanabile di curiose questioni, quello che da Cristo era instituito per vincolo di unione avevano adoperato per squarciar la Chiesa irreconciliabilmente. E qui passò a trattar questa materia, concludendo che se li protestanti non vorranno mutar sentenzia in questo, non vi era via alcuna di composizione.
Finito il parlare, tutti li vescovi si levarono, dissero di voler viver e morir in quella fede, pregarono il re di perseverar in essa, soggiongendo che se li protestanti vorranno sottoscriver a questo articolo, non ricusavano di disputar gli altri; ma quando no, non se li doveva dar altra audienzia, ma scacciarli da tutto ’l regno. Beza dimandò di risponder allora; ma non parendo giusto di trattar del pari un privato ministro ad un cosí gran principe cardinale, fu licenziato il congresso. Li prelati averebbono voluto che con questo il colloquio fosse finito, ma il vescovo di Valenza mostrò che non sarebbe stato con onore; per il che fu un’altra volta congregato a’ 24, in presenzia della regina e delli principi. Parlò Beza della Chiesa e delle condizioni e autoritá di quella, delli concili, mostrando che possono fallare, e della dignitá della Scrittura. Gli rispose Claudio Despenceo, dicendo aver sempre desiderato che s’introducesse colloquio in materia della religione e aborrito dalli supplici che per quella causa si davano a’ miseri; ma aversi ben maravegliato con che autoritá, e da chi chiamati, li protestanti si fossero introdotti nel ministerio ecclesiastico, da chi gli fossero state imposte le mani per esser fatti ordinari ministri; e se pretendevano vocazione estraordinaria, dove erano li miracoli che sono necessari a demostrarlo? Passò a trattar delle tradizioni. Mostrò che, essendovi controversia del senso della Scrittura, si debbe ricorrer ai Padri; che molte cose si credono per sola tradizione, come la consustanzialitá del Figlio, il battesmo dei fanciulli, la virginitá della Madre di Dio dopo il parto. Soggionse che nessun concilio generale, in quello che appartiene alla dottrina, era stato corretto dall’altro. Passarono diverse repliche e dispute dall’una e l’altra parte tra li teologi che erano presenti; e riducendosi la cosa a contenzione, il Cardinal di Lorena, fatto silenzio, propose la materia dell’eucaristia, con dire che erano risoluti li vescovi di non andar piú inanzi se non si accordava prima quell’articolo; e allora dimandò alli ministri se erano preparati di sottoscriver in quell’articolo la confessione augustana. Al qual Beza rispose dimandando se egli proponeva ciò per nome comune di tutti, e se esso e gli altri prelati erano per sottoscrivere negli altri capi di quella confessione. Né potendosi aver risposta né dall’una né dall’altra parte, finalmente Beza disse che li fosse dato in scritto per deliberar quello a che si proponeva che sottoscrivesse, e fu rimesso il colloquio al giorno seguente.
Nel quale Beza incominciando a parlare, irritò molto li vescovi, perché, come giustificando la vocazione sua al ministerio, entrò a parlare della vocazione e ordinazione delli vescovi, e narrò le mercanzie che vi intervengono, ricercando come quelle si possino aver per legittime. Poi, passato all’articolo dell’eucaristia e al capitolo della confessione augustana propostoli, disse che fosse prima sottoscritto da quelli che lo proponevano. Né potendosi accordare, un gesuita spagnolo, che era col Cardinal di Ferrara, arrivato in quei medesimi giorni che il colloquio era in piedi, levatosi e dette molte villanie alli protestanti, riprese la regina che s’intromettesse in cose che non s’aspettavano a lei, ma al papa, alli cardinali e alli vescovi. La qual arroganza fu impazientemente sentita dalla regina, ma per rispetto del pontefice e del legato la dissimulò. Finalmente, non potendosi concluder cosa alcuna in quel modo di trattare, fu ordinato che doi vescovi e tre teologi, li piú moderati, con cinque ministri si riducessero insieme, per veder se si poteva trovar modo di concordia. Fu da loro tentato di formar un articolo dell’eucaristia con parole generali cavate dai Padri, che potessero all’una parte e all’altra satisfare; né potendo convenire, fu messo fine al colloquio. Del quale vi fu molto che parlare: dicendo alcuni esser un cattivo esempio metter in trattazione gli errori una volta condannati; che non si hanno da ascoltar le persone che negano i fondamenti della religione, massime tanto tempo durata e tanto confermata, specialmente in presenza di persone idiote; e benché nel colloquio contra la vera religione alcuna cosa non sia resolta, nondimeno ha dato baldanza alli eretici ed ha attristato li buoni: dicendo altri che pubblico servizio sarebbe spesso trattare quelle controversie, perché cosí le parti si familierizzerebbono insieme, cessarebbono gli odi e gli altri cattivi affetti e s’aprirebbono molte congionture per trovar modo di concordia, non vi essendo altra via di rimediare al mal radicato; perché, divisa la corte, e adoperata la religione per pretesto, non era possibile per altra via rimediare che, deposte le ostinazioni, tollerando gli uni gli altri, levar di mano agl’inquieti e turbatori quel mantello con che coprono le male operazioni.
Il pontefice, ricevuto avviso che il colloquio era dissoluto senza effetto, sentí molto piacere, e commendò il cardinale di Lorena, e maggiormente quello di Tornon. Li piacque molto il zelo del gesuita; diceva potersi comparare agli antichi santi, avendo senza rispetto del re e principi sostenuta la causa di Dio e rinfacciata la regina in propria presenza: per il contrario riprendeva l’arenga del cancelliero come eretica in molte parti, minacciando anco di farlo citar all’inquisizione. La corte ancora, appresso quale l’arenga su detta si era divulgata, parlava molto mal di quel soggetto, e congetturava che tutto il governo di quel regno avesse l’istessa disposizione verso Roma; e l’ambasciator francese aveva che fare a defendersi.
Non è da tralasciare quello che al cardinale di Ferrara avvenne, come cosa molto connessa alla materia di che scrivo. Quel prelato nei primi congressi fu raccolto dal re e dalla regina con molto onore; e presentate le lettere pontificie di credenza, fu riconosciuto per legato della sede apostolica dalla Maestá regia e dalli prelati e clero. Ma il parlamento, avendo presentito che tra le commissioni dategli dal pontefice una era di far instanzia che fossero revocati o moderati almanco li capitoli accordati nelli Stati di Orliens il gennaio precedente, spettanti alla distribuzione de’ benefici, ma particolarmente quello dove era proibito di pagar le annate a Roma né mandare danari fuori del regno per impetrare benefici o altre grazie a Roma; il che penetrato dal parlamento, che sino a quel tempo non aveva pubblicato li decreti suddetti, acciò che il cardinale non ottenesse quello che disegnava, li pubblicò sotto il 13 settembre, e fece anco risoluzione di non conceder al legato che potesse usare le facoltá dategli dal pontefice. Imperocché è costume di quel regno che un legato non può esercitare l’officio, se le facoltá sue non sono prima presentate ed esaminate in parlamento, e per arresto di quello regolate e moderate, e in quella forma confermate per un breve del re; laonde, quando la bolla delle facoltá della legazione fu presentata a fine di essere, come dicono, approbata, fu negato apertamente dal cancelliero e dal parlamento che la potesse usare, allegando che giá era deliberato di non usar piu dispense contra le regole dei Padri, né collazioni de benefici contra i canoni. Sostenne anco il cardinale un maggior affronto, ché furono composte e affisse in pubblico, e disseminate per tutta la corte e la cittá di Parigi, pasquinate sopra li amori di Lucrezia Borgia sua madre e di Alessandro VI pontefice, suo avo materno, con repetizione delle obscenitá divulgate per tutta Italia nei tempi di quel pontificato, che posero il cardinale in deriso della plebe.
La prima impresa di negozio che il cardinale tentò fu d’impedire le prediche de’ reformati (datisi dopo il colloquio a predicare piú liberamente) con offici e persuasioni e secrete promesse alli ministri. E perché non aveva credito con loro, per esser parente delli Ghisi, per le qual cause anco era in sospetto appresso tutta la parte contraria a quella casa, per rendersi confidente praticava anco co’ nobili della fazione ugonotta, e si trovava alli loro conviti, ed alcuna volta in abito di gentiluomo intervenne alle prediche; il che portò nocumento, stimando molti che come legato lo facesse di volontá del pontefice; e la corte romana sentí molto male le azioni del cardinale.
La regina di Francia, intendendo che il re di Spagna sentiva male del colloquio, mandò espresso Giacomo Momberone a quel re. Il quale con longo ragionamento scusò che il tutto era stato fatto per necessitá e non per favorire li protestanti: e che il re e la regina, senza piú parlare del concilio nazionale, erano risoluti di mandare quanto prima li vescovi a Trento. Il re li rispose parole generali e lo rimise al duca d’Alva; il quale, udita l’ambasciata, rispose dolersi il re che in un regno cosí vicino, e congionto seco in tanta strettezza di parentato, la religione fosse cosí mal trattata; esservi bisogno di quella severitá che usò Enrico nella congregazione mercuriale, e poco fa Francesco in Ambuosa: pregava la regina di provvederci, perché, toccando il pericolo di Francia anco lui, aveva per consultazione del suo conseglio deliberato di mettervi tutto il suo potere e la vita medesma per estinguere la comune peste, al che era sollecitato dai grandi e dalli popoli di Francia. L’accortezza spagnola disegnava con medicina della Francia guarire le infermitá di Fiandra, le quali non erano minori se non per esser meno apparenti e tumultuose.
Non aveva ancora il re di Spagna potuto mai far radunare li Stati per ottenere una contribuzione o donativo. In questi medesmi tempi in Cambrai e Valenza si facevano scopertamente adunanze; e in Tornai, avendole il magistrato proibite, ed eseguendo con la carcerazione di alcuni, si scoperse contradizione armata con gravissimo pericolo di rebellione; e pareva che il principe d’Oranges e il conte di Egmont si mostrassero apertamente fautori loro; e massime dopo che il prencipe pigliò in matrimonio Anna, figlia del giá Maurizio duca di Sassonia, con molto dispiacere del re, che vedeva dove fosse per terminare un matrimonio contratto da un suo suddito con protestante di tanta aderenza. Parlavano nondimeno li spagnoli in maniera come se la Fiandra fosse stata sana e temessero infezione dalla Francia, e volevano purgarla con la guerra. E oltre la risposta data alla regina, avendo anco l’ambasciator avuto carico di trattar il negozio del re di Navarra, li fu risposto che non meritava, per la poca cura che aveva della religione; e volendo esser favorito nella dimanda sua, dovesse prima mover la guerra contra gli ugonotti in Francia.
Fece anco la regina scusare, per mezzo dell’ambasciator regio al pontefice, con la Santitá sua il medesmo colloquio, facendogli considerare che per far tacere gli ugonotti, quali dicevano di essere perseguitati senza esser auditi, e per ritardare li moti loro, il re era stato costretto a concederli pubblica audienza alla presenza delli principi e ufficiali del regno, con deliberazione che, se non potevano esser convinti con ragione, si potesse, avendo avuto tempo di mettersi in ordine, vincerli con le forze. Fece di piú trattare col Cardinal Farnese, legato d’Avignone, che cedesse quella legazione al cardinale di Borbone, promettendoli ricompensa; e avendo Farnese consentito, l’ambasciatore ne parlò al papa per nome di lui e del re di Navarra, proponendo che questo averebbe liberato Sua Santitá dalla spesa e assicurata quella cittá dagli ugonotti, quali l’averebbono rispettata, quando fosse nella protezione d’un prencipe del sangue regio. Ogni persona di mediocre giudicio, non che uno versato nelli maneggi, si sarebbe avveduto che quella era un’apertura per levare con facilitá da Roma il dominio di quella cittá e unirlo alla Francia. Però il papa negò assolutamente d’acconsentirvi, e riferí questo tentativo in consistono, come che avesse sotto coperta qualche grande pregiudizio che non appariva a prima vista; e fece grand’indoglienza contra la regina e contra il re di Navarra, che avendoli promesso piú fiate che in Francia non si sarebbe fatto cosa di pregiudicio all’autoritá pontificia, nondimeno favorivano l’eresia, erano autori di congregazioni de prelati, di colloqui e altre cose pregiudiciali; che egli procedendo con mansuetudine era mal corrisposto: però subito dato principio al concilio, voleva con quel mezzo far conoscere la riverenza che li prencipi secolari debbono portare alla Chiesa. Fece l’istessa condoglienza e minaccie all’ambasciatore, il quale doppoi l’aver esplicato che la dimanda della legazione era per buon fine e che tutte le opere della regina erano fatte con maturitá e giustizia, soggionse che il concilio era piú desiderato dal re che da Sua Santitá, con speranza che averebbe proceduto con la medesma equitá e rispetto verso tutti li prencipi senza differenciarli. Questo disse motteggiando il papa, che aveva poco inanzi concesso un grossissimo sussidio da esser pagato dal clero al re di Spagna, dopo aver ottenuto le semplici annate al suo re. Ma il papa, insospettito per la petizione d’Avignone e considerando che li vassalli di quella cittá erano tutti protestanti, temendo che la terra non fosse occupata dal re di Navarra, spedí immediate Fabricio Serbellone con duemila fanti e alquanti cavalli per custodia della cittá, e diede il governo a Lorenzo Lenci, vescovo di Fermo, come vicelegato.
Dopo il colloquio, licenziati li protestanti, restarono li prelati per trattare delli sussidi da dar al re; della qual dimora giudicando la regina che il papa dovesse prender suspezione per le frequenti indoglienze fatte, assicurò a Roma che non rimanevano se non per trattare delli debiti del regno; con aggiongere che, finita la congregazione, ordinerá alli vescovi che immediate si mettino in ponto per andar al concilio. Con tutto ciò fu trattato ancora della comunione del calice, proponendo il vescovo di Valenza con participazione del cardinale di Lorena che, quando quella si concedesse, s’interromperebbe il corso cosí felice di aumento alli protestanti, atteso che gran parte di quelli che gli aderiscono incominciano a credergli da questo capo: per il che, quando avessero la comunione intiera dalla Chiesa, non gli porgerebbono orecchie. E li intendenti delli maneggi consideravano che per quella via sarebbe posta dissensione tra li medesmi professori di reformata religione. Alcuni pochi delli vescovi erano di parere che ciò fosse statuito per editto regio ed eseguito immediate, dicendo che l’intiera comunione non fu levata per decreto alcuno della Chiesa, ma per sola consuetudine; né esservi alcun decreto ecclesiastico che proibisca alli vescovi di ritornare l’antico uso. Ma la maggior parte non consentí che si facesse se non per concessione, o almeno con buona grazia del papa. Furono alcuni pochi a chi non piaceva che si facesse novitá, ma furono costretti cedere alla maggior e piú potente parte, facendo grand’offici il Lorena, il quale, per ottener il consenso del papa giudicando necessario aver il favore dal Cardinal di Ferrara, e per tirarlo nell’opinione medesma, fu autore alla regina che desse orecchie alle proposizioni sue, e concedendoli qualche cosa l’acquistasse per questa e altre occasioni. Aveva il cardinale proceduto con ciascuno, anco della contraria religione, con tanta dolcezza e placidezza che s’era acquistato la benevolenza de molti che gli facevano da principio opposizione; onde esaminati li negozi, e col parere delli piú intimi del conseglio, fu concesso per un brevetto del re che li capitoli di Orléans spettanti alle cose beneficiali restassero suspesi, e il legato potesse esercitare le facoltá, avendo però egli a parte per scrittura di sua mano promesso che egli non le userebbe, e che il papa averebbe provveduto a tutti gli abusi e disordeni che si commettono nella collazione de’ benefici e nell’espedizione delle bolle in Roma. Con tutto ciò ricusò il cancellier di sottoscrivere e sigillar il breve, secondo lo stile del regno; né essendo possibile rimoverlo dalla sua risoluzione, convenne che fosse sottoscritto di mano della regina, del Navarra e delli principali officiali della corona in supplemento. E restò contentissimo il legato, piú intento alla conservazione dell’onor suo che al vero servizio di chi lo mandò; e per questo favore ottenuto si lasciò condur a lodar il conseglio della comunione e scriverne a Roma; il che però fece con tal temperamento, che né il papa né la corte potessero restar di lui disgustati.
Il fine della radunanza di Poissi fu che li prelati concessero al re di valersi delli stabili delle chiese, vendendone per cento mila scudi, purché vi intervenisse il consenso del papa. Commise il re all’ambasciator suo in Roma di farne instanza, mostrando la necessitá e utilitá; il che l’ambasciator eseguí a ponto quando il giorno inanzi aveva il pontefice ricevuto littere dal Cardinal di Ferrara che davano conto delle difficoltá superate, avendo ottenuto la suspensione delli capitoli di Orléans contra la libertá ecclesiastica, e licenza di usar la facoltá di legato: cose tanto piú ardue da ottenere, quanto dal medesmo cardinale di Lorena, da chi aspettava favore, li fosse da principio fatta opposizione. E dava intiera relazione dello stato della religione in Francia, e del pericolo che si estinguesse a fatto, e delli rimedi di preservarla, che doi soli erano: uno, dar sodisfazione al re di Navarra e interessarlo alla difesa; l’altro, concedere al popolo universalmente la comunione sub utrague specie, affermando certamente che con questo guadagnerebbe dugento mila anime.
Alla proposta donque dell’ambasciatore, che lo supplicò per nome del re, della Chiesa gallicana e delli prelati, che fossero dispensati di poter amministrar al popolo il sacramento dell’eucaristia sotto le due specie, come preparazione utile e necessaria al popolo di quel regno per disporlo a ricevere prontamente le determinazioni del concilio, senza la quale preparazione si poteva dubitare assai che il rimedio dovesse trovare gli umori troppo crudi e causare qualche mal maggiore, il papa, sprovvistamente e senza avere consigliato né deliberato, ma secondo l’inclinazione sua, rispose che egli aveva sempre stimato la comunione delle due specie e il matrimonio de’ preti de iure positivo, delle quali cose non è minore l’autoritá del papa che quella della Chiesa universale per disponerne; e che perciò nell’ultimo conclave fu stimato luterano. Che l’imperatore aveva giá fatto l’istessa richiesta per il re di Boemia suo figlio, quale la propria conscienzia induceva a questa opinione, e poi anco aveva fatta l’istessa dimanda per li popoli del suo patrimonio; ma che li cardinali mai hanno voluto accomodarvisi. Però non voleva risolver cosa veruna senza proporla in consistoro; e promise che nel prossimo ne avrebbe trattato. Il qual essendo intimato alli 10 decembre, l’ambasciatore, secondo il costume di quelli per cui instanza si trattano li negozi, andò la mattina, mentre li cardinali erano congregati aspettando il papa, per far con loro uffici. Li piú discreti di loro risposero che la dimanda era degna di gran deliberazione, alla quale non ardivano rispondere senza pensarci ben sopra; altri si turbarono come a nova non piú udita. Il Cardinal della Cueva disse che non sarebbe mai stato per dare il voto suo in favor a una tal dimanda, e che quando bene fosse stato cosí risoluto con l’autoritá di Sua Santitá e col consenso degli altri, sarebbe andato sopra li scalini di San Pietro ad esclamar ad alta voce e cridar misericordia, non restando di dire che li prelati di Francia erano infetti di eresia. Il Cardinal Sant’Angelo rispose che non darebbe mai un calice pien di sí gran veneno al populo di Francia in luoco di medicina, e che era meglio lasciarlo morire che venir a rimedi tali. A’ quali l’ambasciator replicò che li prelati di Francia s’erano mossi con buoni fondamenti e ragioni teologiche non meritevoli di censura cosí contumeliosa, come dall’altra parte né era degno dar il nome di veneno al sangue di Cristo e trattar da venèfici li santi apostoli e tutti li Padri della Chiesa primitiva e della seguente per molte centenara di anni, che hanno con sommo profitto spirituale ministrato il calice di quel sangue a tutti li populi.
Il pontefice, entrato in consistoro, per ragionamenti avuti con qualche cardinali e per aver meglio pensato averebbe voluto poter revocar la parola data; nondimeno propose la materia, riferí l’instanza dell’ambasciatore e fece legger la lettera del legato, e ricercò il parere tra li cardinali. Li dependenti da Francia, con diverse forme di parole lodata la buona intenzione del re, quanto alla richiesta si rimisero a Sua Santitá. Li spagnoli furono tutti contrari, usando anco grand’ardire e trattando li prelati di Francia chi da eretici, chi da scismatici e chi da ignoranti, non allegata altra ragione, se non che tutto Cristo è in ciascuna delle specie. Il cardinale Paceco considerò che ogni diversitá de riti nella religione, massime nelle ceremonie piú principali, in fine capitano a scisma, e anco ad inimicizia: al presente li spagnoli in Francia vanno alle chiese francesi, li francesi in Spagna alle spagnole: quando comunicheranno cosí diversamente, non ricevendo li uni la comunione degli altri, saranno costretti far chiese separate; ed ecco nata la divisione.
Fra’ Michiel Cardinal alessandrino disse non potersi in alcun modo concedere dal papa de plenitudine potestatis, non per difetto di autoritá in lui sopra tutto quello che è de iure positivo, nel qual numero è anco questo, ma per incapacitá di chi dimanda la grazia: perché non può il papa dar facoltá di far male, ma è male ereticale il ricever il calice pensando che sia necessario; però il papa non lo può concedere a tal persone. E non potersi dubitare che sia giudicato necessario da chi lo dimanda, perché di ceremonie indifferenti nessun fa capitale. «O questi (diceva) hanno il calice per necessario, o no; se no, a che volere dar scandalo agli altri col farsi differenti? Se sí, adonque sono eretici e incapaci di grazia.»
Il Cardinal Rodolfo Pio di Carpi, che fu degli ultimi a parlare, essendosi dagl’inferiori cominciato, conformandosi con gli altri nella conclusione, disse che non solo la preservazione di dugentomila uomini, ma di un solo ancora è sufficiente causa di dispensare le leggi positive con prudenza e maturitá; ma in quella proposta conveniva ben considerare che, credendo di acquistar dugentomila, non si perdesse dugento milioni. Esser cosa chiara che questa dimanda ottenuta non sará fine delle richieste de’ francesi in materia di religione, ma grado per proponer un’altra; chiederanno doppoi il matrimonio de’ preti, la lingua volgare nel ministerio de’ sacramenti: averanno l’istesso fondamento, che sono de iure positivo e che convien concederli per preservazione de molti. Dal matrimonio de’ preti ne seguirá che, avendo casa, moglie e figli, non dependeranno dal papa ma dal suo prencipe, e la caritá della prole li fará condescender ad ogni pregiudicio della Chiesa; cercheranno anco di far li benefici ereditari, e in brevissimo spazio la sede apostolica si ristringerá a Roma. Inanzi che fosse instituito il celibato, non cavava frutto alcuno la sede romana dalle altre cittá e regioni; per quello è fatta patrona di tanti benefici, de’ quali il matrimonio la priverebbe in breve tempo. Dalla lingua volgare ne seguirebbe che tutti si stimerebbono teologi, l’autoritá delli prelati sarebbe vilipesa, e l’eresia filtrerebbe in tutti. In fine, quando la comunione del calice si concedesse in modo che fosse salva la fede, in se stessa poco importerebbe, ma aprirebbe porta a richiedere che fossero levate tutte le introduzioni che sono de iure positivo, con le qual sole è conservata la prerogativa data da Cristo alla Chiesa romana, ché da quelle de iure divino non viene utilitá se non spirituale; e per queste ragioni esser savio conseglio opporsi alla prima dimanda, per non mettersi in obbligo di conceder la seconda e tutte le altre.
Il papa fu mosso da queste ragioni principalmente a risolversi alla negativa; e per farla sentir meno grave, fece prima far officio coll’ambasciator che da se stesso desistesse dalla instanza; al che non consentendo, egli lo fece ricercare che almeno la proseguisse lentamente, perché era impossibile concederla, per non alienarsi tutti li cattolici. Seguí nondimeno l’ambasciatore, al qual il papa rispose prima interponendo dilazione; finalmente risolvette che, quantonque egli potesse, non però doveva farlo, poiché il concilio era prossimo, e si come a quello era stata rimessa la petizione dell’imperatore, cosí rimetteva quella di Francia al medesimo; dove s’averebbe potuto, per sodisfar al re, trattar quell’articolo il primo; il che poco piú tempo portava di quanto egli averebbe di bisogno per conceder la grazia con maturitá. Né desistendo l’ambasciatore di replicare in ogni audienza, il papa aggionse esser ben certo che tutti li prelati non fanno tal petizione, avendo la maggior parte nella congregazione risoluto di non parlarne; ma esserli portato sotto nome delli prelati di Francia il motivo d’alcuni pochi, e quelli anco incitati da altri; accennando la regina, con la quale in suo secreto conservava lo sdegno per la lettera de’ 4 agosto da lei scrittagli.
Pubblicata per Roma questa petizione de’ prelati francesi, nel tempo medesimo arrivò nova da Germania che li medesimi avevano mandato alli protestanti per eccitarli a perseverar nella loro dottrina, promettendo di favorirla nel concilio e di tirarvi dentro altri prelati. Il qual avviso si divulgò anco in Trento, e messe li francesi in cattivo credito non solo della corte romana, ma anco degl’italiani che si ritrovavano in Trento; e in ambidoi li luochi si parlava di loro come d’inquieti e innovatori, dicendosi anco (come sempre le suspicioni fanno aggiongere qualche cosa a quello che è udito) che, attese le dispute quali nei tempi passati quella nazione aveva avuto sempre con la corte romana in articoli assai principali e importanti, e considerati li accidenti presenti, non si poteva credere che andassero al concilio se non con animo di turbar e innovar molte cose. L’ambasciator, per non lasciar che il rumor populare facesse impressione nell’animo del papa contra la nazione sua, volle sincerarlo; ma egli ironicamente lo confortò a non faticarsi, perché non era verisimil cosa né da lui creduta che un sí poco numero, come li francesi sono, potesse pensar a cosí gran tentativi; a’ quali quando avessero mira, troverebbono un gran numero di italiani che se gli opporrebbono: ma ben dispiacerli che, essendo il concilio convocato per il solo bisogno di Francia, essi lo facciano ritardare; che mostra la poco buona volontá di veder rimediato quel male di che si lamentano; ma che egli era risoluto, o con la loro presenza o senza di essa, aprir il concilio e continuarlo e ispedirlo. Che giá tanti mesi erano in Trento li suoi legati, e un numero grande di vescovi stavano con incomodo e spesa, aspettando senza niente operare, mentre che li prelati di Francia con tanta delicatezza provvedono il loro equipaggio.
In conformitá di questo, tenendo consistoro, ricapitulò le instanze e cause, per quali giá un anno a punto col conseglio loro aveva intimato il concilio, le difficoltá scontrate e superate in ridur li principi contrari tra loro di opinioni ad accettar la bolla, la diligenza usata mandandovi immediate li legati e quelli prelati che con esortazioni e precetti aveva potuto costringere: che giá sette mesi tutto dal suo canto è preparato, e si continua con grandissima spesa, sí che tra mercede de ufficiali e sovvenzione de prelati poveri la sede apostolica spende piú di tremila scudi al mese; e l’esperienza mostra che il differir maggiormente non è se non dannoso. Li tedeschi ogni giorno fanno qualche novo trattato tra loro per macchinare opposizione a questa santa e necessaria opera; le eresie in Francia fanno progresso, e s’è veduto una quasi rebellione di alcuni vescovi francesi con le assurde petizioni del calice, con tanta violenza che il maggior numero, che è de buoni cattolici, ha convenuto succombere. Giá tutti li principi hanno destinati ambasciatori; il numero de prelati che si trova in Trento non solo è sufficiente per cominciare la sinodo, ma nelle due volte che giá è stato tenuto mai il numero gionse a quello che è di presente: però niente resta che non si debbia dar principio senza piú aspettare. E consentendo tutti li cardinali, anzi lodando la deliberazione, deputò oltre li tre legati due altri, Ludovico Simonetta, gran canonista e passato per i gradi degli uffici di corte, e Marco di Altemps, nipote suo di sorella. Al primo comandò che immediate partisse, né in viaggio si fermasse; e gionto, si facessero le solite ceremonie e si cantasse la messa dello Spirito Santo per principio del concilio. Soggionse poi il papa che non doveva perpetuamente star la sinodo in piedi, né terminare in sospensioni o translazioni, come giá s’era fatto con pregiudici e pericoli notabili, ma metterci fine. Per il che fare non saranno bisogno molti mesi, poiché giá le piú importanti cose sono state risolute, e quel che resta è anco tutto digesto e posto in ordine, per le dispute ed esamini fatti nel fine sotto Giulio, quando le cose erano appuntate; sí che non restava altro che la pubblicazione; onde, poco rimanendo, il tutto sará ispedito anco in pochi mesi.
Simonetta si mise in viaggio, e alli 9 decembre gionse in Trento; e si vidde nel suo entrare levarsi un gran foco dalla terra, che passò sopra la cittá, come suole il vapore ignito che stella cadente chiamano, solo differente in grandezza; il che fece far diversi pronostichi agli oziosi che molti erano, da chi in presagio di bene, da chi di male, che vanitá sarebbe raccontare. Trovò il cardinale lettere del pontefice, dopo la sua partita scritte, che s’aspettasse per aprir il concilio nova commissione. Col cardinale fecero il viaggio in compagnia alquanti vescovi, che alla partita sua di Roma erano alla corte, quali il papa costrinse a seguir il legato; e si ritrovarono in quel tempo novantadue in numero, oltre li cardinali.
Nel principio di decembre fu di ritorno a Roma il noncio che risedeva in Francia, il quale avendo riferito lo stato delle cose di quel regno, scrisse il pontefice al legato che, rappresentando al conseglio regio non esservi altra causa di celebrar concilio se non il bisogno di Francia (non avendone bisogno né Italia né Spagna, ricusandolo Germania), per il che a loro toccherebbe il sollecitarlo, cosa che è da loro negletta, facendola il pontefice per la pietá paterna, ed essendo in Trento li legati e numero grande de prelati italiani, e li spagnoli la maggior parte gionti e il rimanente in viaggio, anco da essi immediate fosse mandato ambasciatore e li prelati. Comandò inoltre al legato che usasse ogni opera, acciò le prediche e congregazioni de protestanti fossero impedite, che dasse cuore alli teologi, li comunicasse indulgenze e grazie spirituali, e li promettesse anche aiuti temporali: che egli per alcun modo non si ritrovasse a loro prediche e fuggisse anco li conviti dove alcun di loro intervenisse.
In questo tempo stesso gionsero in Trento doi prelati polacchi, li quali, visitati li legati e mostrata la devozione di quella Chiesa alla sede apostolica, narrarono li molti tentativi de’ luterani per introdur la dottrina loro in quel regno, e li fondamenti giá in qualche parte gettati; contra le macchinazioni de’ quali conveniva che li vescovi fossero sempre intenti per ovviare; che erano molto desiderosi di intervenir tutti ne! concilio e coadiuvar nella causa comune: il che non potendo far per rispetto cosí importante e necessario, desideravano intervenire con autoritá per mezzo de procuratori che rendessero voto, come li prelati presenti; e dimandarono che essi potessero aver tanti voti, quante commissioni avessero da’ vescovi, che per legittima causa non possono partir dal regno. Dalli legati fu risposto con parole generali, rimettendosi a risolverli dopo deliberazione matura, e della richiesta dato avviso al pontefice, dal quale fu in consistoro riferita. Né vi fu difficoltá che tutti non concorressero in la negativa, essendo giá deliberato che le risoluzioni si facessero, come giá anco s’era fatto per l’inanzi, per pluralitá de voti e non per nazioni. IL che tanto piú era giudicato necessario, quanto la fama portava che li francesi, se ben cattolici, venissero con quelli suoi pensieri sorbonici e parlamentari, tutti rivolti a voler riconoscer il papa solo tanto quanto loro piacesse; e giá s’era inteso qualche umor de spagnoli di voler sottopor il pontefice al concilio. E li legati da Trento avevano piú volte avvisato che si scoprivano qualche mali umori ambiziosi d’estendere l’autoritá episcopale; e in particolare li spagnoli artificiosamente proponevano esser necessario restringer l’autoritá pontificia, almeno tanto che non possi derogar alli decreti di questo concilio, altramente vana sarebbe la fatica e la spesa per far un concilio, che il papa potesse derogare con la facilitá che quotidianamente, per leggerissime cause e senza quelle anco, deroga tutti li canoni. Alli quali tentativi consideravano li cardinali altro rimedio non vi esser se non opponer il numero grande de prelati italiani, quali supereranno, se ben s’unissero insieme, tutti li oltramontani. E questo rimedio resterebbe inefficace, quando s’admettesse il voto degli assenti, ché li spagnoli si farebbono mandar da tutti procure, il simile farebbono francesi, e sarebbe tanto quanto dar li voti non per capi, ma per nazioni.
Fu dunque rescritto a Trento di fare alli polacchi ogni larghezza di parole, con conclusione che quel concilio era una continuazione e tutt’uno incominciato sotto Paulo III, onde conveniva servare gli ordini allora messi in pratica e continuatamente servati con buon frutto, come s’era veduto; fra quali uno fu che li voti degli assenti non fossero computati. Il qual ordine non si poteva dispensar in loro senza eccitar l’istessa pretensione in tutte le nazioni, con molta confusione; che qualunque cosa fosse dalla Polonia richiesta, cosí propria a lei che non potesse metter le altre regioni in moto, per li meriti di quella nobilissima nazione sarebbe conceduta. Della risposta mostrarono li polacchi restar contenti; e nondimeno pochi giorni dopo, sotto pretesto d’aver negozi a Venezia, partirono, né piú ritornarono.
Diede a tutta Roma grand’allegrezza una lettera di mano propria del re di Spagna scritta al pontefice, con avviso del negoziato di Montberon mandatogli dalla regina di Francia, e risposta datagli, e con oblazione alla Santitá sua d’assistenza per purgar la cristianitá dall’eresia con tutte le forze delli regni e stati suoi, aiutando potentemente e prontamente qualunque principe vorrá nettar lo stato proprio da quella contagione. Ma in questo stesso tempo, al cattivo concetto formato contra francesi dalla corte s’aggionse novo fomento per avviso venuto da Parigi, che con gran solennitá avesse il parlamento condannato a retrattarsi e disdirsi un certo Gioan Tancherello baccillier di teologia, perché con intelligenza di alquanti teologi propose conclusioni pubbliche, che il papa, vicario di Cristo e monarca della Chiesa, può privar delli regni, stati e dignitá li re e principi disobedienti alli suoi precetti; e le difese. Ed essendo egli per tal causa fatto reo e chiamato in giudicio, confessato il fatto, e temendo di qualche gran male, fuggÌ; e li giudici, come in una commedia, fecero che dal bidello della universitá fosse rappresentata la sua persona, e facesse l’emenda e retrattazione in pubblico; e proibirono che li teologi non potessero piú disputar simili questioni, e li fecero andar inanzi al re a dimandar perdono di aver permesso che materia cosí importante fosse posta in disputa, con promessa di opporsi sempre a quella dottrina. Si parlava di francesi come d’eretici perduti, e che negavano l’autoritá data da Cristo a san Pietro di pascere tutto il suo gregge, di sciogliere ogni cosa e legare, il che principalmente consiste in punire li delitti di scandolo e danno alla Chiesa in comune, senza differenza di principe né privato: si portavano gli esempi di Enrico IV e V imperatori, di Federico I e II, di Lodovico Bavaro, di Filippo Augusto e del Bello re di Francia; s’allegavano li celebri detti de canonisti in questa materia; si diceva che doveva il pontefice citar tutto quel parlamento a Roma; che la conclusione di quel teologo doveva esser mandata a Trento per metterla in esaMine la prima cosa che si facesse, e approvarla dannando la contraria. Il pontefice si dolse di questo successo moderatamente, e pensò che fosse meglio dissimulare, poiché, come diceva, il mal maggiore di Francia rendeva questo insensibile.
Teneva per fermo la corte che al concilio non dovesse trovarsi né ambasciator né vescovi francesi, e discorreva quello che averebbe convenuto alla dignitá pontificia fare per sottometterli per forza alle determinazioni del concilio; quale il papa era deliberato che fosse aperto onninamente al principio dell’anno novo. Questa risoluzione comunicò con li cardinali, esortandoli a considerar non esser dignitá della sede apostolica né di quel collegio l’admetter di ricever regole e riforme da altri; e la condizione dei tempi, quando tutti gridano riforma senza intender che cosa sia, ricercare che, attesa la speciositá del nome, non sia rifiutata. Ottimo temperamento, tra queste contrarietá di ragioni, esser, prevenendo, il far la riforma di se medesimi; il che anco servirá non solo a questo tanto, ma ancora ad acquistar lode coll’esser esempio agli altri. Che per questa cosa egli voleva riformar la penitenzieria e dataria, principali membri della corte, e attender poi alle parti piú minute ancora. Deputò per questo cardinali all’uno e all’altro carico. Discorse le cause per che non si poteva differir piú in longo l’apertura del concilio; perché, scoprendosi sempre piú nelli oltramontani cattivi fini e disegni d’abbassar l’assoluta potestá che Dio ha dato al pontefice romano, quanto piú spacio si dá loro di pensarci, tanto piú le macchinazioni crescono; ed esser di pericolo che delli italiani, col tempo, alcuni siano guadagnati. Per tanto consister la salute nella celeritá; senzaché le spese che fa in sostentarli sono immense, a quali, se non si mette fine, non potrá la sede apostolica supplire. Diede poi la croce della legazione al Cardinal Altemps, con ordine che si mettesse in pronto e partisse, per esser in Trento all’apertura del concilio, se fosse possibile.
La causa perché revocò l’ordine dato alla partita del cardinale Simonetta di aprir il concilio al suo arrivo, fu l’instanza fatta dall’ambasciator imperiale in Roma che a quell’azione fossero aspettati gli ambasciatori del suo principe. Ma avendo poi avvertita Sua Santitá che si sarebbono ritrovati in Trento inanzi il mezzo di gennaro, fece efficace instanza al marchese di Pescara, destinato dal re di Spagna ambasciatore al concilio, che per quello istesso tempo si ritrovasse in Trento per assistere all’apertura: e sollecitò li veneziani a mandar la loro ambasciaria, stimando molto che quella ceremonia passasse con riputazione. Scrisse nondimeno alli legati che aprissero il concilio immediate arrivati gli ambasciatori dell’imperatore e delli principi sopra nominati: ma quando a mezzo il mese non fossero gionti, non si differisse piú. Con questo stato di cose finí l’anno 1561.