Istoria del Concilio tridentino/Libro quinto/Capitolo VII

Libro quinto - Capitolo VII (marzo - agosto 1561)

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CAPITOLO VII

(marzo - agosto 1561).

[Nomina dei primi legati al concilio: i cardinali Gonzaga e Del Pozzo.— La Francia finisce con l’aderire in massima al concilio in Trento, come pure Filippo II e Sebastiano re di Portogallo. — Insistenza di Pio IV perché i prelati italiani raggiungano Trento. — Riuscito vano lo sforzo di sottometterli, il duca di Savoia fa la pace coi valdesi, concedendo libertá di culto. Malcontento del papa. — Timori di Pio IV per la situazione religiosa in Francia: legazione del cardinale d’Este. — Il re scopre che i cattolici brigano per aver l’aiuto di Filippo II contro gli ugonotti. — Editto regio favorevole a questi, contrariato dal parlamento. — Editto di luglio: convocazione d’una conferenza di prelati a Poissy. — Il papa cerca di ostacolarla o di limitarne l’azione mediante il legato. — Nell’assemblea degli Stati a Pontoise la nobiltá ed il terzo stato si oppongono ai privilegi religiosi e insistono per un concilio nazionale. — In una lettera a Pio IV la reggente espone tutto un programma di riforma religiosa d’intonazione protestante. — Fiducia del papa nell’azione conciliare. — Provvedimenti per ottenere la maggior partecipazione dei prelati italiani. — Difficoltá incontrate in Scozia dalla regina Maria Stuarda.]

Instando il tempo prefisso al principio del concilio, il papa, per non mancar di quello che dal canto suo si doveva fare, deputò legati per presedervi Ercole Gonzaga cardinale di Mantova, molto conspicuo per la grandezza di casa sua, per il nome del fratello Ferrando e per la virtú propria, avendo adoperato il mezzo dell’imperatore a persuaderlo che accettasse il carico, confidando molto nel valore e destrezza sua; e Giacomo Puteo da Nizza, eccellente iurisconsulto, longamente versato prima nella rota e poi nella signatura; dicendo aver intenzione di farne tre altri, e che se nel collegio non ne troverá a proposito, creará novi cardinali teologi e legisti da bene [p. 288 modifica] per questo effetto. E fece una congregazione de cardinali e prelati per dar ordine a tutte le cose necessarie per dar principio in Trento al tempo statuito. E opportunamente ebbe littere dal re di Francia sotto li 3 marzo, e in conformitá li espose monsignor d’Angolem suo ambasciatore che si contentava del concilio in qualonque modo, desideroso alla fine di vedere succederne l’effetto e frutto desiderato da tutta la cristianitá. E li mandò anco quel re espresso monsignor de Rambogliet a far l’istesso officio, rappresentando li bisogni di Franza, e l’instanzia che di ciò li era stata fatta dalli Stati tenuti in Orléans: con significarli che quando questo rimedio fosse ritardato, sarebbe stato in necessitá di ricevere la medicina nel proprio regno con la congregazione de’ suoi prelati, non vedendosi che vi sia altro modo per regolare le cose della religione, se non un concilio generale, libero, ovvero, in mancamento di quello, un nazionale. Alle qual ambasciate rispose il papa che nessuno desiderava il concilio piú di lui, dal quale non veniva la longhezza e dilazione, ma dalle diverse opinioni de’ principi; per satisfare tutti i quali aveva dato alla bolla della convocazione quella forma che li pareva piú propria per contentarli tutti. La causa per la quale in Francia mutarono opinione fu perché, vedendo quel regno in stato pessimo, riputarono che ogni mutazione fatta altrove non potesse se non megliorare la condizione loro.

Di Spagna ancora scrisse il Terracina che dal re furono udite con approbazione le sue esposizioni; e quanto al negozio del concilio, dopo qualche consultazione col conseglio de prelati suoi, si era risoluto finalmente di accettare la bolla, senza moverci sopra alcuna difficoltá, e d’inviarvi li vescovi alli primi tempi comodi per viaggiare, e insieme deputare onorevole ambasciaria per assistervi. Avvisò ancora che li prelati di Portogallo erano partiti dalle case loro, e quel re aveva destinato ambasciatore; ma aver penetrato alcuni di quei prelati aver intenzione che nella sinodo fosse difinita la superioritá del concilio al papa, sopra il qual ponto studiavano e facevano studiare molti teologi. L’avviso fu stimato dal pontefice, [p. 289 modifica] il qual ponderava quello che potesse aspettare, quando fossero ridotti li vescovi in concilio e trattassero tutti insieme, poiché prima che partire concepivano cosí alti pensieri, e aveva qualche dubbio che il re e il suo conseglio potessero averci dentro qualche parte. Nondimeno, come prudente, giudicò che, tenendosi il concilio, non quella sola, ma molte altre novitá potevano esser proposte e tentate, non solo a sua diminuzione, ma ancora contra altri: però esservi anco ad ogni peso il contrappeso suo, e delle cose tentate e temute non riuscire mai la parte millesima.

Piú era attento alli tentativi de’ francesi, per esser imminenti e che si trattavano tra loro; persone che facilmente si risolvono e non usano la flemma spagnola: e però ad ogni avviso pigliava occasione di dar parte all’ambasciatore francese e considerarli in vari propositi che non pensassero a concili nazionali, conventi o colloqui in materia di religione, perché gli averebbe avuti tutti per scismatici; che pregava il re a non si valere di quei mezzi, che al certo averebbono ridotto la Francia non solo in peggiore, ma in pessimo stato; che essendo levate le difficoltá di Spagna, si averebbe certamente celebrato il concilio, perché quanto a quelle che continuano in Germania, non sono d’aver in considerazione; che li principi e vescovi cattolici consentiranno, e forse anco il duca di Sassonia, come ha dimostrato nell’aversi separato dagli altri congregati in Naumburg; sperava che l’imperatore fosse per prestarci la sua personal assistenza, quando vi fosse bisogno, sí come esso medesmo pontefice prometteva l’istesso della persona sua propria, quando egli stesso l’avesse giudicato necessario, non volendo in questo esser soggetto ad altri che al giudicio suo proprio.

Avvicinandosi la Pasca, tempo destinato per il principio del concilio, e ritrovandosi il Cardinal Puteo gravemente infermo, in luoco di quello destinò al concilio fra’ Girolamo Cardinal Seripando, teologo di molta fama, e lo fece partir immediate, con ordine di passar per Mantova e levar l’altro legato, e andar ambidua al tempo destinato a Trento. Il che [p. 290 modifica] però non fu eseguito con tutta la sollecitudine comandata, né essi arrivarono a Trento prima che la terza festa di Resurrezione, dove ritrovarono nove vescovi gionti prima di loro. Usò il papa diligenza che li vescovi d’Italia si mettessero in ponto: scrisse perciò efficaci lettere al viceré di Napoli e al suo noncio in quel regno, e a Milano fece far uffici dalli suoi con li vescovi di quello stato. Ricercò la repubblica di Venezia che facesse metter in viaggio li suoi d’Italia, e che comandasse a quelli di Dalmazia, Candia e Cipro d’inviarsi quanto prima, e creasse ambasciatori che per nome della repubblica intervenissero. Non si movevano però li prelati italiani con molta facilitá, essendo certi che non si poteva dar principio prima che venisse l’assenso dell’imperatore, che tuttavia si prolongava; aspettandosi spagnoli e francesi, avevano per superfluo andar a Trento prima che quelli fossero gionti in Italia: e gran parte di essi, i cortegiani massime, non potevano creder che le azioni del papa non fossero simulazioni. Ma la veritá era che il papa, certo di non poter fuggir il concilio, desiderava vederlo presto; diceva che era certo il male quale pativa per la prolongazione, e incerto di quello che potesse incontrare nel celebrarlo; che gl’inimici suoi e di quella Sede piú li nocevano nell’aspettativa, che avessero potuto nuocerli nella celebrazione. E come era di natura risoluto, era solito usar il proverbio latino: «esser meglio una volta provar il male, che sempre temerlo».

Ma mentre queste dilazioni s’interpongono, si preparava una convenzione che il duca di Savoia fece con li valdesi delle valli del Moncenis. Imperocché avendo egli giá piú di un anno tentato di ridurli per mezzo de castighi, e dopo che si misero in defesa, come s’è detto, mantenuto genti in arme contra di loro (per il che fare il pontefice piú volte lo sovvenne de danari), e se bene per l’asprezza del paese piú tosto si procedeva con scaramuccie che con guerra formata, successe finalmente quasi una formal giornata, dove le genti del duca ebbero una gran rotta, nella quale essendo morti quattordici soli delli vallesani, gli altri, che erano da settemila [p. 291 modifica] soldati, furono disfatti; e quantonque il duca rinnovasse l’esercito, restarono sempre li suoi inferiori. Per il che, vedendo che non faceva altro se non agguerrire li suoi rebelli, consumar il paese e spender il dinaro, si risolse di riceverli in grazia; e fu fatta la convenzione a’ 5 giugno, nella quale perdonò le cose commesse, concedendo la libertá di conscienzia, assegnati certi luochi solamente dove potessero fare le congregazioni; negli altri non potessero predicare, ma solo consolare gl’infermi e far altri uffici di religione; li assentati potessero ritornare e li banditi ricuperassero li loro beni; che il duca potesse mandare via li pastori che li piacesse, potendo essi provvedersi d’altri; che in ogni luoco si potesse esercitare la religione romana, non potendo però alcuno esser sforzato a quella. Il pontefice sentí grandissimo disgusto che un prencipe italiano, e aiutato da lui, e non cosí potente che di lui non avesse sempre bisogno, permettesse vivere eretici liberamente nello stato suo; sopra tutto gli premeva l’esempio, che li potrebbe esser sempre rinfacciato dalli prencipi maggiori che volessero permettere altra religione. Ne fece querela in consistoro con acerbitá, facendo comparazione delli ministri del re cattolico in Regno con quel duca, (i quali in quei giorni medesmi, avendo scoperto una massa de luterani, che in numero di tremila erano usciti di Cosenza e ritiratisi al monte per vivere secondo la loro dottrina, li avevano distrutti con averne parte impiccati, parte abbruggiati e altri posti in galera), ed esortando tutti i cardinali a consultarne il rimedio. Ma gran differenza era opprimere un poco numero disarmato e lontano da ogni aiuto, e combattere con gran numero de armati, in sito per loro avvantaggioso e con aiuti potenti alle spalle. Mandò il duca a giustificare la causa sua; e il pontefice, udite le ragioni e non potendo ben rispondere, si quietò.

In Francia ancora, se ben la regina e li prelati desideravano sodisfare il pontefice rimettendo al concilio le cause della religione, si metteva però in ordine una congregazione de prelati; e quantonque l’ambasciator assicurasse il pontefice [p. 292 modifica] che non si sarebbe parlato della dottrina né d’altra cosa pregiudiciale all’autoritá pontificia, ma solo per trovare come pagare li debiti del re e per provvedere a qualche abuso e consultare le cose da trattar in concilio generale, non sodisfaceva alla sicurezza; anzi teneva che quel provveder abusi si riferiva ad impedire li emolumenti della corte; e il consultare per concilio interpretava quello di che aveva avuto sentore, cioè che s’intendessero con spagnoli in materia della suprema potestá del concilio, eziandio sopra il pontefice. S’aggiongeva che per le dissensioni, quali erano tra i grandi nella corte diffuse, anco nelle provincie, mentre ciascuno procura maggior numero de parziali, essendo una libertá grande di parlare, li professori della nova religione si scoprivano apertamente, ed erano protetti dalli piú principali appresso il re, con molta indignazione de’ cattolici; onde per tutto il regno erano contenzioni e discordie, usandosi per villania dall’una contra l’altra parte li nomi de papisti e ugonotti, eccitando li predicatori la plebe a tumulti, e camminando tutti con fini diversi. Vedeva chiaro che se la parte cattolica non era tutta indrizzata da alcuno all’istesso fine, dovesse nascere qualche mostruositá; per evitar la quale, e a fine di ovviare o attraversare quei disegni, giudicò esservi bisogno di ministro apostolico d’autoritá; e non francese, interessato piú nel regno che nel servizio della sede apostolica; e deliberò mandarvi un legato. E voltato l’occhio sopra tutti li cardinali, si fermò in Ferrara, concorrendo in quel cardinale tutte le qualitá requisite: una singolar prudenza e destrezza nel negoziare, nobiltá congionta con la casa regia di Francia, essendo cognato della gran zia del re, figlia di Luigi XII, e un stretto parentato con li Ghisa, che Laverebbe costretti per ragion di sangue a favorirlo, avendo il duca di Ghisa una nepote di quel cardinale in matrimonio. A questo diede quattro particolari commissioni: di favorire la parte cattolica e oppugnare i protestanti; di divertire ogni sinodo nazionale e congregazione de prelati; di sollecitare l’andata de’ prelati al concilio, e di far retrattare le ordinazioni fatte in materie ecclesiastiche. [p. 293 modifica]

Ma mentre il legato s’invia, successe accidente che fece temere li piú intimi del re, non meno dalli cattolici che dagli altri, avendo scoperto pessimi pensieri, con occasione che a’ 14 luglio fu preso appresso a Orliens Arturo Desiderio, il quale con una supplica s’inviava in Spagna, scritta per nome del clero di Francia, nella quale dimandava l’aiuto di quel re contra li protestanti, che non potevano esser repressi con gagliardi rimedi da un putto e una donna, e con altre istruzioni in cifra piú secrete da trattare con quella Maestá. Questo impregionato e interrogato dei complici, e manifestato alquanti (quali era cosa pericolosa scoprire), si deliberò che quanto ai complici non fosse da passar piú inanzi: fu condannato a far in pubblico emenda onorevole e stracciar la supplica, e a pregion perpetua nel monasterio de’ certosini. E riscontrato molti degl’indici dal reo manifestati, il conseglio regio giudicò necessario dar qualche sodisfazione all’altra parte. Onde fece il re un editto, proibendo i vocaboli de ugonotti e papisti, ordinando che, sotto pretesto di scoprir le congregazioni proibite per causa di religione, nessun potesse entrar né con pochi né con molti in casa d’altri; che li pregioni per causa di religione fossero liberati, che li fuorusciti sino al tempo di Francesco I potessero ritornare e racquistar i suoi beni, vivendo cattolicamente; e non volendo cosí vivere, potessero vender li loro beni e andar altrove.

A questo il parlamento di Parigi s’oppose, con dire che pareva concessa una libertá di religione, cosa in Francia insolita; che il tornar de fuorusciti sarebbe occasione di gran turbe, e che la facultá di vender i beni e andar altrove era contra gl’instituti del regno, che non concede portar fuori dinari in quantitá. Ma, con tutte queste opposizioni, l’editto fu messo in esecuzione, vuotate le pregioni e tornati li esuli; onde cresciuto il numero, e facendosi piú reduzioni e piú numerose del solito, per rimediarvi con maturo conseglio d’uomini periti di stato e di giustizia, il re con la regina e li principi andarono in parlamento. Propose il cancelliero che non si aveva da parlar [p. 294 modifica] della religione, ma solo delii rimedi per ovviar alli quotidiani tumulti che nascevano per quella, acciocché, coll’uso del tumultuare fatti licenziosi, non deponessero anco l’ossequio al re. Furono tre pareri: il primo, che si sospendessero tutte le pene contra i protestanti sino alla decisione del concilio; il secondo, che si procedesse a pena capitale contra di loro; il terzo, che si rimettesse il punirli al fòro ecclesiastico, proibendo le congregazioni pubbliche e occulte e la libertá di predicare o amministrare i sacramenti, salvo che alla romana. Per risoluzione fu preso temperamento, e formato l’editto, che si chiamò di luglio: che tutti si astenessero dalle ingiurie e vivessero in pace; che i predicatori non eccitassero tumulti in pena capitale; che non si predicasse né amministrasse sacramenti, salvoché al rito romano; che la cognizione dell’eresia appartenesse all’ecclesiastico, ma se il reo fosse dato al braccio secolare, non li fosse imposta maggior pena che di bando, e questo sino ad altra determinazione del concilio universale o nazionale; che fosse fatta grazia a tutti quelli che per causa di religione avessero mossi tumulti, vivendo per l’avvenire in pace e cattolicamente. Poi, trattandosi d’accomodar le controversie, fu ordinato che li vescovi dovessero convenire per li 10 di agosto in Poissi, e alli ministri delli protestanti fosse dato salvocondotto per ritrovarvisi: contradicendo a ciò molti delli cattolici, a’ quali pareva cosa strana, indegna e pericolosa che si mettesse in compromesso la dottrina sino allora ricevuta, e in pericolo la religione dei maggiori. Ma cessero finalmente, perché il cardinale di Lorena prometteva ampiamente di dover confutar gli eretici e ricevere sopra di sé ogni carico, aiutandolo anco a questo la regina, la qual, conosciuto il desiderio del cardinale di ostentar il suo ingegno, aveva caro satisfarlo.

Al papa andò nova di tutti doi li editti insieme, dove trovò che lodare e che biasmare. Commendava il parlamento che avesse sostenuto la causa della religione; biasmava che, contra le decretali pontificie, non si dovesse proceder a maggior pena che di bando. Per conclusione diceva che, quando li mali superano le forze delli rimedi, altro non si può fare se non [p. 295 modifica] alleggerirli con la tolleranza. Ma il pericolo imminente della riduzione de prelati, e massime insieme con protestanti, esser intollerabile; che egli averebbe fatto il possibile per ovviare, e non giovando l’opera sua, sarebbe senza colpa. Adunque trattò con l’ambasciatore efficacemente, e in conformitá fece per mezzo del suo noncio instanza al re, acciò, poiché non si poteva pretermettere la reduzione, almeno fosse aspettato l’arrivo del cardinale di Ferrara; che allora, in presenza d’un legato apostolico con pienissima autoritá, la reduzione sarebbe stata legittima. Scrisse ancora alli prelati che la loro potestá non si estendeva a far decreti in materia di religione, né meno nella disciplina spettante a tutta la Chiesa; e che se essi avessero transgressi li loro termini, egli, oltre l’annullazione, procederebbe contra loro con ogni severitá. L’ufficio del noncio e dell’ambasciatore non fecero frutto, opponendosi non solo li contrari al pontefice, ma il medesimo cardinale di Lorena con li aderenti suoi; e per il nome regio fu al noncio detto che il pontefice poteva star sicuro di quella reduzione, perché nessuna cosa sarebbe risoluta se non col parere delli cardinali.

Andavano con tutto ciò precipitando le cose ecclesiastiche; e in Roma fu stimata una gran caduta che nei Stati continuati in Pontoise, essendo nata controversia di precedenza tra li cardinali e li principi del sangue regio, il conseglio terminò contra li cardinali, e Sciatiglion e Arminiago cedettero, se bene Tornon, Lorena e Ghisa si partirono con sdegno e mormorazione contra li colleghi. E fu udito con applauso il deputato de terzo stato, quale parlò contra l’ordine ecclesiastico, opponendo l’ignoranza e il lusso, e dimandando che gli fosse levata ogni giurisdizione, e levate l’entrate, e fatto un concilio nazionale, al quale il re o i principi del sangue presedino; e tra tanto sia concesso il poter radunarsi e predicare a quelli che non recevono le ceremonie romane; facendovi intervenir alcun pubblico ministro del re, acciocché chiaramente si vegga se alcuna cosa sia trattata contra il re. Fu trattato di applicar al pubblico parte delle entrate ecclesiastiche, e molte altre cose contra quell’ordine, aggiongendosi sempre maggior numero de fautori alli protestanti. E il clero, per [p. 296 modifica] liberarsi, fu constretto promettere di pagar al re per sei anni quattro decime all’anno, e cosí quietò li rumori eccitati contra loro. E per colmo del precipizio sotto il 4 agosto scrisse la regina una longa lettera al papa, narrando li pericoli imminenti per li dissidi della religione, esortandolo al rimedio. Diceva esser tanta la moltitudine delli separati dalla Chiesa romana, che la legge e la forza non li poteva piú ridurre; che molti di essi, principali del regno, col suo esempio tiravano degli altri; che non essendovi nessuno che neghi gli articoli della fede e li sei concili, molti consigliavano che si potessero ricever in comunione. Ma se questo non piaceva, e paresse meglio aspettar l’aiuto del concilio generale, tra tanto per la necessitá urgente e per il pericolo nella tardanza esser necessario usar qualche particolar remedio con introdur colloqui dall’una e l’altra parte; ammonir di guardarsi dalle ingiurie e contenzioni e dalle offese di parole d’una parte contra l’altra: levar li scrupoli a quelli che non sono ancora alienati, levando dal luoco dell’adorazione le immagini proibite da Dio e dannate da san Gregorio; dal battesmo lo sputo, li esorcismi e le altre cose non instituite per la parola divina; restituir l’uso della comunione del calice, le preghiere della lingua populare; che ogni prima dominica del mese, o piú spesso, li curati convochino quelli che vogliono comunicare, e cantati li salmi in volgar lingua, nella medesima siano fatte pubbliche preghiere per il principe, per i magistrati, per la salubritá dell’aria e frutti della terra; poi, esplicati li luochi degli evangelisti e di san Paolo dell’eucaristia, si venga alla comunione; che sia levata la festa del Corpo del Signore, che non è instituita se non per pompa; che se nelle preghiere si vuol usar la lingua latina, vi si aggionga la volgare per utilitá di tutti. Che non si levi niente dell’autoritá pontificia né della dottrina, non essendo giusto, se li ministri hanno fallato, levar il ministerio. Queste cose scrisse, come fu opinione, a persuasione di Gioanni Montluc vescovo di Valenza, con soverchia libertá francese. Commossero molto il pontefice, atteso il tempo pieno di suspizioni, mentre che si parlava di concilio nazionale ed era intimato il colloquio a Poissi; e ben consultato, risolvé di [p. 297 modifica] procedere con dissimulazione, e non dar altra risposta se non che, essendo il concilio imminente, in quello s’averebbe potuto proponer tutto quello che fosse giudicato necessario, con certa speranza che lá non si farebbe risoluzione se non secondo l’esigenza del servizio di Dio e della tranquillitá della Chiesa.

Per queste occorrenze si confermò il papa nell’opinione concetta che fosse utile per sé e per la corte il concilio, e necessario il celebrarlo per difesa sua contra le preparazioni che vedeva farsi e suspicava maggiori: e di questo ne diede segno l’allegrezza che mostrò il 24 agosto, avendo ricevuto littere dall’imperatore, dove diceva di acconsentire in tutto e per tutto al concilio; e che la dilazione usata da lui a dechiararsi fino a quel tempo non era stata se non per tirar li principi di Germania. Ora che vedeva non poter far frutto d’avvantaggio, lo pregava a continuar gli uffici e opere per accelerare la celebrazione. La qual lettera, congregati tutti gli ambasciatori de’ principi e la maggior parte de’ cardinali, si che fu come un concistoro, mostrò a tutti, dicendo che era degna d’esser scritta in lettere d’oro, aggiongendo che quel concilio sarebbe fruttuosissimo, e che non era da differire; che sarebbe stato cosí universal concilio che la cittá di Trento non ne sarebbe stata capace, e che averebbe bisognato pensar di trasferirlo altrove, in luoco piú comodo per ampiezza di cittá e fertilitá di regione. Fu confirmato dall’assistenzia il ragionamento tenuto dal papa, se ben ad alcuno parve che fosse pericoloso il nominar translazione nel principio, quando ogni minima suspizione poteva apportar molto impedimento, o vero almeno dilazione; pensando anco altri che ciò non sarebbe stato discaro al papa, e che perciò gettato avesse il motto per aprir porta dove potesse entrar la difficoltá.

Essendo giá non solo risoluto, ma fatto noto a tutti che de’ prelati tedeschi nessuno sarebbe intervenuto al concilio; dubitandosi anco, atteso il colloquio instituito, che li francesi averebbono trattato tra loro soli e che il concilio sarebbe composto di soli italiani e spagnoli, e di questi non dovendo esser molto il numero, li italiani ancora vennero in pensiero che pochi di loro dovessero esser a sufficienza, onde molti [p. 298 modifica] s’adoperavano appresso il pontefice con uffici e favori per esser degli eccettuati. Il papa, per il contrario, parlava chiaro che era certificato tutti li oltramontani venir con pensieri di sottopor il pontificato al concilio; che questo era interesse comune d’Italia, che alle altre regioni era preferita per la preminenzia del pontificato, onde tutti dovevano andar per la difesa; che egli non voleva esentarne alcuno, anzi levar tutte le speranze; e dovessero certificarsene, vedendo quanto egli era diligente in mandarvi legati: imperocché, oltre Mantoa e Seripando, vi aveva anco fatto andar Stanislao Hosio Cardinal varmiense.

Il dí dopo pubblicata la lettera dell’imperatore, se ben era dominica, chiamò congregazione generale di tutti li cardinali; trattò di molti particolari concernenti il principio e progresso del concilio; in speciale promise che averebbe sovvenuto tutti li prelati poveri; ma voleva che tutti andassero, e per ultimo termine non li concedeva piú che otto giorni. Mostrò quanto il concilio fosse necessario, poiché ogni giorno la religione era sbandita o posta in pericolo in qualche luoco. E diceva il vero, imperocché giá in Scozia, nel convento di tutta la nobiltá del regno, fu ordinato che non vi fosse alcun esercizio della religione cattolica romana. E volendo la regina, che ritornò in Scozia all’agosto, far celebrar in una privata cappella del suo palazzo, fu a chi bastò l’animo di romper le candele e altri apparati; di che essendo ella mal contenta, e richiedendo in grazia questa sodisfazione di poter aver una messa per sé sola in luoco secreto, e inclinando una parte a darli contento, fu proposto nel pubblico convento un editto di permetterglieli una messa per la sua sola persona. Al quale Giacomo Hamilton conte di Arranca ebbe ordine di contradire, e Arcimbaldo Duglas propose e ottenne che tutti li cattolici che erano con la regina partissero del regno, e quietarono la regina applicando due terzi delle rendite ecclesiastiche a lei, ed un terzo alli ministri della religione introdotta.