Istituzioni di diritto romano/Introduzione/Sezione III/Terzo periodo/Capitolo III
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CAPITOLO III.
stato della giurisprudenza
§. 147. L’attuale periodo è l’età dell’oro per la Scienza del Diritto, i suoi cultori sono i Giureconsulti classici. Nei loro scritti occorre non minore eleganza che in quelli dei cultori delle amene lettere, anzi quando la letteratura latina volgeva a decadenza, i Giureconsulti serbavano incontaminato il purismo dell’idioma; e di vero i Giureconsulti contemporanei di Seneca, scrivono più purgatamente di lui. Il loro stile all’eleganza accoppia la concisione; le questioni meglio involute, sono sciolte in poche linee, e senza pregiudizio della chiarezza. Esperti nelle lettere Greche, addimostrano familiarità con le opere immortali di Omero, di Platone, di Ippocrate, e di Demostene, Omero a mò di esempio, è citato non meno di sei volte nelle Pandette, e di tre nelle Istituzioni. Ricchi di molte cognizioni estranee alla Scienza, che di preferenza coltivano, ne fanno un uso parco e sapiente, scevro da qualunque pedanterìa. Seguaci della Greca filosofia, e specialmente della Stoica, la applicano maravigliosamente al diritto, al quale riconoscono fondamenti filosofici e specialmente morali; abbenchè devoti alla legge, non sogliono sacrificarle il sentimento dell’equità, che hanno squisito. La loro logica è rigorosa quanto la Matematica, ed al pari di quella irresistibile. Di acuto intelletto, non si irretiscono nel sofisma, né cedono in contradizione, che chiamano ineleganti a juris. Poco propensi alle definizioni, reputandole pericolose, aborrono i vocaboli di significato ambiguo, e adoperano voci tecniche escludenti concetti vaghi o dubbiosi. Alieni dalle divisioni e classazioni puramente scolastiche, quelle che adoperano sono razionali ed importanti. L’unico rimprovero, che possa loro esser fatto è la stranezza delle etimologie; così p. e. è veramente sorprendente il vedere, che essi fanno derivare jus da justitia; metus, da mentis trepidatio; familia, da fons memoriae; testamentum, da testatio mentis etc. etc. Ma forse più che etimologie, erano questi dei giuochi di parole, adoperati per favorire la memoria del significato di certi vocaboli tecnici.
§, 148. L’insegnamento del Diritto, sul principiare di questo periodo, fu più presto privato che pubblico, e meglio pratico che teorico. Sebbene a noi manchino notizie precise sul metodo adoperato nel compartirlo, sembra che scuole di diritto esistessero, imperocchè fino dai tempi di Cicerone alcuni celebri Giureconsulti si chiamano discepoli di Giureconsulti più antichi, che vantano come loro præceptores. Probabilmente i giovani desiderosi di istruirsi prima ricevevano un istruzione elementare o di istradamento nei principj della Giurisprudenza e si dicevano allora studiosi; poi passavano ad un insegnamento pratico assistendo di presenza agli affari, ai responsi, ed a tutto quello che vi si connetteva (auditores); ed il Giureconsulto prendeva occasione di quì per esporre loro le ragioni della sua opinione del suo procedimento, e per sciogliere i loro dubbj (instruere). Il primo grado di questo insegnamento dovè essere in origine una occupazione, cui i Giureconsulti si dedicavano non esclusivamente nè per professione, ma per sodisfare alle istanze di amici o per genio proprio; anche il secondo grado, essenzialmente pratico, pare che fosse pure tutto volontario e gratuito, e che non attribuisse nessun carattere particolare a chi lo amministrava. Solamente verso il termine di questo periodo troviamo ricordati dei Iuris Civilis professores, cui si retribuivano degli onorarj dagli alunni, per entrare ad ascoltarli nelle loro stationes. Questi maestri esclusivamente dedicati allo insegnamento, avevano delle scuole private; non erano impiegati dello Stato; soltanto sembra che per essere autorizzati ad insegnare, dovessero essere riconosciuti idonei dall’autorità, dopo una loro dichiarazione o professione di principj, onde il nome loro di professores. Nel periodo successivo lo insegnamento del Diritto diviene pubblico, ordinato e pagato dallo Stato.
§. 149. Gajo e Pomponio, per tacere di molti altri, fanno menzione di sette, o scuole (sectæ, scholæ) fra le quali si divisero i Giureconsulti Romani, nell’epoca di cui discorriamo. Il principio di questa scissura si riferisce comunemente, ai tempi di Augusto. Durante il suo Imperio vivevano in Roma due Giureconsulti: Antistio Labeone, ed Attejo Capitone emuli fra loro, ambedue illustri e di gran seguito. Divergenza nelle politiche tendenze, diversità di carattere morale, rivalità di professione, dissentimento nei principj scientifici: erano queste bastevoli ragioni, perchè fossero avversi l’uno all’altro. Antistio Labeone (figlio di Quinto, ugualmente Giurista, che combattè a fianco di Bruto e di Cassio a Filippi, e che non volle sopravvivere alla libertà di Roma), come il padre ebbe sensi schiettamente repubblicani; inaccessibile alle blandizie di Augusto, ricusò il Consolato, che questi per amicarselo gli offeriva. Viveva metà dell’anno in Roma insegnando, e scrivendo consultazioni sopra affari forensi, e l’altra metà in campagna, ove forse compose i quattrocento, o più probabilmente i quaranta volumi, dei quali si racconta che fosse autore. Scevro da ogni attaccamento servile alle opinioni dei maggiori, e propenso a favorire il progressivo svolgimento della Giurisprudenza, sosteneva virilmente le conseguenze derivanti dai proprj principj, quantunque potessero apparire innovazioni. Attejo Capitone, figlio di un Centurione, era ligio al potere, e come i suoi antenati, cresciuti in potenza ai tempi di Silla, fu cortigiano di chi comandava, si chiamasse esso Ottavio o Tiberio. Reverente alle dottrine insegnategli, le trasmetteva inalterate ai suoi discepoli, e tenacemente le sosteneva come Giureconsulto; fedele alla pratica ed alla consuetudine, più presto che studiarsi di estendere la lettera della legge a nuove applicazioni, cercava di fare trionfare le interpretazioni, che ne erano state date per lo innanzi. Si può dunque dire, che Labeone si faceva forte sulla ragione, Capitone sulla tradizione; l’uno aveva per guida la filosofia, l’altro l’autorità. Laonde fra essi esistè quel conflitto, che occorre sempre fra le opinioni ed i principj trasmessi per tradizione e sostenuti da autorità, e le opinioni ed i principj che sono professate da chi è fiducioso nelle forze della ragione, e convinto della necessità del progresso. Questo diverso indirizzo dato da quei due solenni Giureconsulti ai loro discepoli, fece passare in costoro l’antagonismo dei precettori; di quì la distinzione di due parti o scuole. E dopo la morte di Capitone, l’antesignano della sua scuola fu Sabino, mentre Nerva lo fu di quella di Labeone. Verso il regno di Vespasiano, Proculo, capitanò la scuola di Nerva, Cassio quella di Sabino; ed i discepoli dell’uno furono allora detti Cassiani, e Sabiniani quelli dell’altro. In seguito, Pegaso tenne il primato nella Scuola di Proculo e Celio Sabino in quella di Cassio; onde la distinzione di Pegasiani e Sabiniani. Questa scissura, continuò fino al Regnò di Adriano; ma allora scomparve. Ecco il quadro dei Capiscuola nell’ordine della loro successione
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Anderebbe lontano dal vero chi reputasse, che la diversità nel carattere scientifico e politico, che dicemmo esistere fra Labeone e Capitone, si mantenesse uguale nei loro discepoli; sappiamo anzi, che l’impulso a più larghi studj dato da Labeone, non fu senza efficacia sui discepoli di Capitone; ma la reverenza e l’affetto verso i respetivi maestri, che i discepoli chiamavano nostri præceptores, fu causa che nei casi dubbj ognuno preferisse l’opinione dei proprj precettori, a quella dei diversæ schola auctores, ossia dei precettori della scuola opposta. Vi furono Giuriconsulti, i quali non parteggiarono decisamente per alcuna delle due scuole. Gli scrittori Moderni li chiamano Miscelliones o Herciscundi; veramente non pare, che possano qualificarsi per seguaci dell’Eclettismo; e però è improprio il nome, che loro si da di Miscelliones; come improprio quello di Herciscundi, il quale si fonda sopra un errore del Cujacio nel decifrare un manoscritto di Servius ad Virgil. Æn. III. 60, ove lesse herciscundi invece di terris condi.
§ 150. Le Opere dei Giureconsulti Romani giustificano la celebrità, della quale essi ebbero a godere. Dei preziosi frammenti di queste opere sono giunti fino a noi, dopo essere stati legge comune a tutti i popoli civili. Questi frammenti stanno raccolti per la massima parte in quella compilazione ordinata dall’Imperatore Giustiniano, che ha nome di Pandette o Digesti, e della quale dovremo parlare fra breve. In questa compilazione, ogni frammento è accompagnato dal titolo dell’opera da cui fu estratto; e così siamo in grado di sapere quali fossero gli scritti dei più celebri Giureconsulti. Alla quale cognizione giova non poco, come conferma e supplemento, il catalogo delle opere che l’Imperatore Giustiniano fece porre a contribuzione dai Compilatori delle Pandette; si può leggere nel famoso manoscritto, che di quella compilazione si conserva in Firenze. Le opere dei Giureconsulti Romani furono di genere diverso. Infatti sappiamo che essi composero:
1.° Dei Manuali per l’insegnamento, sotto il titolo di Institutiones, Regulæ, Definitiones.
2.° Delle opere pratiche più o meno diffuse: Libri juris civilis, Digesta, Receptæ Sententiæ.
3.° Commentarj estesi sulle leggi, come Libri ad Edictum etc.
4.° Dei Commentarj alle opere di altri Giureconsulti, come ad Sabinum, ad Papinianum etc.
5.° Delle Monografìe, ossia trattati speciali su qualche Legge, su qualche Senatusconsulto, o su qualche particolare Istituzione, Libri Singulares, de dotibus, de fidei commissis, de ofcio judicis, ad Senatusconsultum Vellejanum, ad legem Corneliam de Falsis etc.
6.° Delle raccolte di Decisioni e Consultazioni: Libri responsorum, epistolæ decretorum libri etc.
7.° Delle opere di controversia. Libri differentiarum rerum.
8.° Finalmente opere varie, come Aureorum, Quotidianæ Membranæ etc.
§. 151. Noi ci limiteremo a ricordare i più conosciuti fra i Giureconsulti Romani di questo periodo, scegliendo fra questi, coloro dei quali qualche notizia biografica è giunta fino a noi. Ricordare tutti quelli il cui nome ci è conosciuto, sarebbe opera troppo lunga e tediosa. Infatti, non sono meno di 120. Di 39 abbiamo dei frammenti, e di 81 soltanto delle citazioni. Fra questi 81, di 28, Pomponio si limita a riferire il nome nella breve istoria, che ci somministra del Diritto Romano, (fr. 2. Dig. de Origine juris 1. 2.). Sul terminare della Repubblica il più famoso Giureconsulto era Servio Sulpizio, amico di Cicerone. Il sommo oratore scrive, che Servio Sulpizio fu il primo ad inalzare il Diritto alla dignità di Scienza, onde pare che a lui si debba l’ordinamento scientifico, che occorre nel Diritto Romano. Egli fu discepolo di Aquilio Gallo, del quale ci rimane una formula di quietanza generale, di cui dovremo parlare: la Stipulatio Aquiliana. Servio Sulpizio fu da prima oratore, poi conoscendo che diceva il vero Q. Mucio, quando trovatolo lento ad intendere un suo responso, esclamava: turpe esse patricio et nobili et causas oranti, jus in quo versaretur, ignorare, si diede tutto allo studio del Diritto, e vi riuscì eccellente. Egli scrisse molti volumi (circa 180) che si veggono citati dai Giureconsulti posteriori. È ricordato molte volte nelle Pandette. Ebbe a discepoli quella plejade di illustri Giureconsulti, che rifulgevano sotto il regno di Augusto, come Aufidio, Ofilio, Alfeno Varo, etc. etc. Aufidio Ramusa è uno dei 40 discepoli di Servio Sulpizio, ricordati da Pomponio. Egli riunì le opere dei suoi compagni di studio in una Compilazione di 180 libri, citata sotto il titolo complessivo di Servi Auditores. Aulo Ofilio è celebre principalmente per i suoi lavori sull’Editto; di lui troviamo scritto: edictum praetoris primum diligenter composuit. Fu amico di Cesare; ma si astenne dalla politica; quindi non ebbe mai alcuno ufficio pubblico. Alfeno Varo sortì umilissimi natali, si vuole che fosso barbitonsore in Cremona; la molta dottrina, che per studio perseverante ed ingegno eminentemente svegliato, presto acquistò, gli valse il Consolato, e la sepoltura a spese dello Stato. Scrisse 40 Libri Digestorum, dai quali furono estratti i 54 frammenti, che di lui sono riportati nelle Pandette. Suo contemporaneo fu Trebatio Testa; che godè di minore fama di Ofilio, cui era inferiore per talenti, ma per lo meno uguale nella pronta e profonda conoscenza del Diritto. Sebbene vecchio, pure contemporaneamente a Trebazio Testa, viveva Aulio Cascellio, più oratore che Giureconsulto, famoso per la indipendenza del suo carattere, che lo fece avverso a viso aperto alle prepotenze dei Triunviri. Scolare di Ofilio fu Q. Tuberone, che dall’arte Oratoria, come molti altri, passò alla Giurisprudenza, nella quale divenne, al dire di Pomponio, profondamente istruito. Dopo questi Giureconsulti, e così sotto il Regno di Augusto, tennero il primato Antistio Labeone ed Attejo Capitone, dei quali già abbiamo parlato; fra questi due, Labeone ebbe più credito. Nerva e Sabino, lo dicemmo, proseguirono nella scissura dei loro maestri, Labeone e Capitone. Coccejo Nerva discepolo di Labeone, seguitò i suoi principj scientifici, non già i politici. Infatti fu intimo amico di Tiberio. È citato spesso come autorevole Giureconsulto, ma non si ricorda nessuno scritto particolare di lui. Fu padre di un altro Giureconsulto Nerva, ed avo di Nerva Imperatore. M. Sabino successore di Capitone, era poverissimo, tantochè viveva mercè i soccorsi dei suoi discepoli; e solamente negli ultimi tempi della sua vita fu ammesso nella classe dei Cavalieri. Compose molte opere, fra le quali specialmente lodato fu il suo Manuale, conosciuto sotto il titolo di Libri tres juris civitis. I suoi scritti ebbero tanto credito, che celebri Giureconsulti come Pomponio, Paolo, ed Ulpiano li commentarono ed annotarono. Nelle Pandette non si trova nessun frammento suo, ma il suo nome nel manoscritto Fiorentino, è nella lista dei Giureconsulti le cui opere furono poste a contribuzione dai Compilatori di quella Collezione Giustinianea. Proculo successore di Nerva, diede il nome alla Scuola; infatti, Proculejani furono chiamati i suoi discepoli; ciò dimostra che dovè godere di grande riputazione. Egli è citato spesso; pochi frammenti delle sue opere si trovano nelle Pandette. L’avversario suo fu Cassio Longino, in onore del quale i Sabiniani, furono da allora in poi, chiamati Cassiani. Discendeva da Cassio, uno degli uccisori di Cesare; se ne gloriava, e ne professava i principi; attalchè sotto Nerone fu bandito; Vespasiano lo richiamò. Scrisse alcuni Libri juris civilis, che ebbero credito anche presso i Giureconsulti posteriori. Contemporanei suoi furono altri Giureconsulti di minor conto, come Nerva il Giovane, Ursejo, Atilicino etc. Successore di C. Cassio fu Celio Sabino, Console sotto Vespasiano. Scrisse un Commentario sull’Editto degli Edili Curuli. A costui fu contrario, come successore di Proculo, Pegaso prefetto della Città sotto Vespasiano, e poi Console. Da Pegaso prese nome il famigerato Senatusconsulto Pegasiano, che autorizzò l’erede ad eseguire il fidecommisso soltanto fino ai ¾ dell’ammontare del medesimo. Nello stesso tempo sembra vivesse quel Plautio, autore di un Manuale, del quale assai fu scritto di poi (Libri ex Plautio, ad Plautium). Successore di Sabino nella scuola dei Sabiniani, fu Giavaleno Prisco, degli scritti del quale nelle Pandette troviamo 206 frammenti. Nella scuola dei Proculejani, dopo Pegaso, troviamo Celso il padre, ed il più celebre P. Celso figlio. Dei 39 Libri Digestorum di quest’ultimo, nelle Pandette si riscontrano 142 frammenti; di più è citato frequentemente, e sono spesso riferite le suo opinioni. Contemporaneamente nella scuola opposta fu Nerazio Prisco; dei suoi lavori i compilatori delle Pandette profittarono non meno di 64 volte. Visse ai suoi tempi il Giureconsulto Aristone, che ebbe fama di uomo versato in ogni maniera di discipline, e del quale dovremo far menzione, trattando dei contratti Reali Innominati. Chiuderemo il novero dei Giureconsulti appartenenti alle due scuole rivali, col nome dei successori di Giavoleno Prisco, i quali furono Aburnio Valente, Tutelano e Salvio Giuliano. Aburnio Valente ha 20 frammenti delle sue opere nelle Pandette: Salvio Giuliano poi, è il redattore dell’Editto, come fu detto poco sopra. Fu pretore console, e præfectus urbis. Sono 457 i frammenti delle sue opere contenuti nelle Pandette; quei frammenti per la massima parte sono estratti dai suoi libri 90 Digestorum. Ai tempi di Salvio Giuliano viveva, sebbene assai più giovane di lui, Sesto Pomponio, autore di quel frammento de Origine juris tante volto da noi citato, e che serve di tanto lume nell’Istoria del Diritto Romano; 588 sono i frammenti, che delle sue scritture rinvengonsi nelle Pandette. Taluno ha dubitato che esistessero due Giureconsulti con lo stesso nomo di Pomponio, specialmente perchè il fr. 41 Dig. de hæred. instit. (XXVIII, 5), che è di Pomponio, termina con le parole ut refert Pomponius; ma queste probabilmente furono aggiunte dai Compilatori delle Pandette, e non debbono attribuirsi ad un Pomponio, che ne citi un altro. Sesto Cecilio Affricano fu seguace e discepolo di Giuliano; celebri per le difficoltà, che oppongono all’interpretazione, sono i 131 frammenti che di lui esistono nello Pandette, tratti dai suoi 9 libri quæstionum. Appartengono alla stessa epoca Giunio Mauriciano (4 frammenti nelle Pandette) Volusio Meciano (44 frammenti) Terenzio Clemente (35 frammenti), Claudio Saturnino (1 solo frammento,), ed il più celebre di tutti Gajo o Cajo. La fama della quale godè questo Giureconsulto nei suoi tempi, è per avventura cresciuta oggi, dopo il ritrovamento delle genuine sue Istituzioni, che tanti materiali hanno somministrato per la Storia Interna del Diritto Romano. La sua vita è sconosciuta; si ignora perfino la sua origine, e vi ha chi pretende che avesse anche un altro nome, caduto poi in dimenticanza. Visse sotto Adriano, Antonino Pio, e Marco Aurelio; non ebbe alcuno ufficio pubblico; è probabile che principalmente si occupasse dell’insegnamento, e che non godesse dell’jus respondendi, come i Giureconsulti matricolati. I suoi principali scritti, che somministrarono 536 frammenti alle Pandette, sono i Commentarj alla Legge delle XII Tavole, alla legge Giulia e Papia Poppea, agli Editti; alcune Monografie; i Libri VII rerum quotidianarum s. aureorum; il liber de casibus, finalmente le sue Istituzioni, (Institutionum Commentarii quatuor.) I Visigoti avevano inserito nella loro raccolta officiale delle Leggi Romane, che ebbe titolo di Breviarium Alaricianum, alcuni frammenti e più spesso una analisi compendiosa di quelle Istituzioni. I Giureconsulti della scuola del Cujacio e specialmente il Pithou, avevano riunito in un volume sotto il titolo di Epitome delle Istituzioni di Gajo, tutto quanto di questo scrittore si trovava nella citata collezione barbarica. Ma le genuine istituzioni di Gajo non si conoscevano. Nel 1816, nella Biblioteca del Capitolo di Verona, il Niebhur casualmente fu colpito dall’aspetto di un palinsesto, che conteneva le Epistole di San Girolamo, ma dalla pergamena del quale, trasparivano alcune parole di argomento giuridico. Era evidente che il Copista aveva adoperato una pergamena, sulla quale stava scritta un opera di Diritto Romano; l’aveva lavata e grattata, e sulla medesima come si faceva troppo spesso in quella epoca di barbarie, aveva trascritta un altra opera. Il Savigny riconobbe che l’opera così sacrificata, erano le Istituzioni di Cajo. Nel 1817 Goschen e Bethmann Hollweg, per commissione dell’Accamedia di Berlino, dopo molti mesi di un lavoro paziente e costante, fatta scomparire la più recente scrittura, giunsero a decifrare le Istituzioni di Gajo. Nel 1820 furono pubblicate per la prima volta. Non è opera assolutamente completa; mancano alcuni fogli (propabilmente 3) nel mezzo, ed in molti punti esistono delle lacune, perchè non soltanto era stata lavata ma benanco grattata quella pergamena. Il Manoscritto non conteneva il titolo dell’Opera, ma la critica lo ha posto in chiaro. Dopo Gajo fino al regno di Alessandro Severo, Giureconsulti di grande reputazione, furono principalmente: Papirio Giusto (16 frammenti) Tarrunteno Paterno (2 frammenti), Ulpio Marcello (159 frammenti), Cervidio Scevola (307 frammenti). Tertulliano (45 frammenti) Claudio Trifonino (79 frammenti), Arrio Menandro (6 frammenti) V. Saturnino (71 frammenti) Giulio Aquila (2 frammenti) Callistrato (99 frammenti) Elio Marziano (275 frammenti) Emilio Macero (62 frammenti) e Florentino del quale le Pandette hanno 42 frammenti, tratti dalle sue Istituzioni in XII libri; in cui adottò per certo un ordinamento di materie assai diverso da quello di Gajo. Ma al di sopra di questi, e degli altri tutti fin qui ricordati, sono i 4 grandi Giureconsulti: Emilio Papiniano, Giulio Paolo, Domizio Ulpiano, Erennio Modestino. Il principe dei Giureconsulti è, per giudizio, degli antichi e dei moderni Scrittori, Emilio Papiniano. Amico intimo dell’Imperatore Settimio Severo, preside del Concistorium principis, Præfectus prætorio; godè la bella fama non solo di primo fra i giuristi, ma eziandio di uomo impareggiabile per integrità ed illibatezza di principj e di costumi. La nobiltà del suo carattere gli fu cagione di morte violenta. Caracalla, avendo ucciso Geta, voleva che Papiniano lo giustificasse del fratricidio; ma a quella coscienza intemerata sembrando, che accusare un innocente assassinato, fosse un secondo assassinio, coraggiosamente ricusò di assumere il turpe incarico. Caracalla inferocito pel rifiuto, e per la rampogna che l’accompagnava, lo condannò a morte. Le sue opere più celebri sono, i libri XIX Responsorum, i libri XXXVII Quæstionum, i libri II Definitionum. Ulpiano, nato a Tiro in Fenicia, fu prefetto del Pretorio sotto Alessandro Severo, e l’uno dei Consiglieri intimi di quell’Imperatore. Morì assassinato dai Pretoriani, che si era inimicati con le sue riforme. Il suo stile facile (sebbene rimproverato dai puristi del tempo, di sapere troppo di fenicio) le sue idee limpide, il suo metodo essenzialmente sintetico, furono causa che nella compilazione delle Pandette, le sue opere venissero adoperate più delle altre. Infatti ne furono estratti 2462 lunghi frammenti, che compongono più della terza parte dei Digesti. Opere sue di grande mole furono: i libri 83 ad Edictum, ed i libri 51 ad Sabinum. È giunto a noi ancora un frammento di una opera probabilmente sua, il liber singularis Regularum (contiene 29 titoli). Fu scoperta nel 1544 dal Dutillet (Jo Tilius) nel manoscritto del Breviarium Alaricianum, che trovasi nella Biblioteca Vaticana. Sembra che Ulpiano scrivesse pure delle Istituzioni. Almeno a queste si crede che appartengano, certi frammenti trovati in alcune striscio di pergamena, che erano impiegate a tenere insieme i fogli di un manoscritto, depositato nella biblioteca Imperiale di Vienna. Stefano Endlicher, che scoperse questi frammenti, li pubblicò nel 1835. Trattano dei Contratti e degli Interdetti. Paolo, nato a Padova, fu assessore di Papiniano nella Prefettura del Pretorio, poi egli stesso fu Prefetto. Dei suoi scritti, il numero dei quali fu anche maggiore di quelli di Ulpiano, trovansi 2087 frammenti nelle Pandette, tratti da 78 opere diverse, i quali compongono quasi la sesta parte di questa compilazione. La chiarezza non fu il suo pregio, talchè gli interpreti più antichi lo chiamavano maledictus Paulus. Abbiamo di lui un Opera divisa in 5 libri, le Receptæ Sententi; fu ritrovata nel Breviario Alanciano. Le sue opere più voluminose furono 80 libri ad Edictum, 26 quæstionum, 23 brevium, 25 responsorum, 18 ad Plautium. Egli compose anche libri II de jure fisci, e forse a questa opera appartengono due fogli molto guasti di uno scritto giuridico sul Fisco, trovati nel 1816 a Roma dal Niebhur, nel palinsesto di Gajo e pubblicati dal Goshren sotto il titolo di Fragmentum de jure fisci. Modestino chiude la serie dei Giureconsulti Classici. Fu discepolo di Ulpiano. Nelle Pandette si trovano 345 frammenti delle sue Opere. Si è preteso che fosse Governatore della Dalmazia, o almeno nativo di là; ma non se ne hanno riscontri sicuri. I frammenti del Liber singularis Regularum di Ulpiano, delle Receptæ Sententiæ di Paolo, e delle Istituzioni di Gajo, compongono la maggior parte di una breve raccolta di Diritto antegiustinianeo, conosciuta sotto il titolo di Ecloga Juris Civilis, libro assai utile per gli studiosi del Diritto.