Atto terzo

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Atto secondo

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ATTO TERZO

SCENA I

Luogo rimoto fra la cittá e la marina, adorno di cipressi e di monumenti degli antichi re di Lenno.

Learco con due pirati suoi seguaci, e poi Toante.

Learco. Ogni nostra speranza

fu vana, amici. Alle piú belle imprese
la fortuna si oppone. Andate; e sia
ciascun pronto a partir. (partono i pirati)
  Ma veggo, o parmi?...
Sí, Toante s’appressa, e solo ei viene
per queste vie romite.
Facciam l’ultima prova. Amici, udite.
(tornano i pirati, a’ quali, tratti in disparte, Learco parla in voce sommessa)
Toante. Nelle tessale tende
restar dovrei, ma voi nol tollerate,
affetti impazienti.
Learco.   Udiste? Andate. (a’ pirati, che partono)
Toante. Sollecito, dubbioso,
palpito, non ho pace. Ogni momento
qualche nunzio funesto
temo ascoltar. Per questa
piú solitaria parte
alla reggia n’andrò. (in atto di partire)

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Learco.   (Learco, all’arte!)

Signor, soffri al tuo piede (se gl’inginocchia innanzi)
il vassallo piú reo...
Toante.   Tu vivi! Oh numi!
Sei Learco o nol sei?
Learco.   Learco io sono.
Toante. Che pretendi da me?
Learco.   Morte o perdono.
Toante. Traditor! non offrirti
al mio sguardo mai piú. (in atto di partire)
Learco.   Sentimi, e poi
  (s’alza e lo siegue)
discacciami, se vuoi.
Toante.   Non sai qual pena,
perfido! a te si serba in questo lido?
Learco. La morte io meritai,
signor, quando tentai
Issipile rapir. Ma, se non trova
pietá nel mio regnante
un giovanile errore
che persuase amore,
che il rimorso puní, si mora almeno
nel paterno terreno. Un lustro intero,
sempre in clima straniero,
ramingo, pellegrino,
scherzo di reo destino,
vivo in odio alle stelle, in odio al mondo;
e, quel che piú m’affanna,
vivo in odio al mio re. Grave a me stesso
la stanchezza mi rende
e ’l tedio di soffrir. De’ mali miei
il piú grande è la vita; e chi dal seno
lo spirto mi divide,
è pietoso con me quando m’uccide.
Toante. (Quel disperato affanno
scema l’orror della sua colpa antica.)

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Learco. (Quanto tarda a venir la schiera amica!)

  (impaziente verso la scena)
Toante. Da’ tuoi disastri impara
a rispettar, Learco,
in avvenir la maestá del trono.
Riconsòlati e vivi. Io ti perdono. (in atto di partire)
Learco. Ah! signor, tu mi lasci
dubbioso ancor, se un piú sicuro pegno
non ho di tua pietá.
Toante.   Dopo il perdono
che di piú posso darti?
Learco. La tua destra real.
Toante.   Prendila, e parti.
Learco. O de’ numi clementi
(va allungando queste parole, per dar tempo che giungano i compagni)
pietoso imitator, questo momento
di tutti mi ristora
gli affanni che passai. (Né giunge ancora!)
E dubbioso e tremante
eccomi alle tue piante... E in umil atto...
(mentre vuole inginocchiarsi e prender la mano al re, escono i corsari armati, che circondano Toante)
Toante. Qual gente ne circonda?
Learco.   Il colpo è fatto!
(lascia la mano di Toante, sorge, ed abbandona l’affettata umiltá, da lui finta sinora)
Cedimi quella spada. (a Toante)
Toante.   A chi ragioni?
Learco. Parlo con te.
Toante.   Meco favelli? Oh dèi!
Come...
Learco.   Non piú: mio prigionier tu sei.
Toante. Qual nera frode!
Learco.   Alfine
cadesti ne’ miei lacci. Arbitro io sono

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de’ giorni tuoi: soffrilo in pace. Il mondo

varia cosí le sue vicende; e sempre
all’evento felice il reo succede.
Or tocca a te di domandar mercede.
Toante. Scellerato!
Learco.   Toante,
cambia linguaggio. Un grande esempio avesti
di prudenza da me. Supplice, umíle
parlai finora. È l’adattarsi al tempo
necessaria virtú. Pendon quell’armi
dal mio cenno; e poss’io...
Toante.   Che puoi tu farmi?
Puoi togliermi l’avanzo
d’una vita cadente,
che mi rese molesta
degli anni il peso e degli affanni miei.
Learco. Anch’io dissi cosí, ma nol credei.
Toante. V’è però gran distanza
dal mio core al tuo cor.
Learco.   Fole son queste.
Ogni animal, che vive,
ama di conservarsi. Arte, che inganna
solo il credulo volgo, è la fermezza
che affettano gli eroi ne’ casi estremi.
Io ti leggo nell’alma, e so che tremi.
Toante. Tremerei, se credessi
d’esser simile a te; ché avrei sugli occhi
l’orror di mille colpe, e mi parrebbe
sempre ascoltar che mi stridesse intorno
il fulmine di Giove,
punitor de’ malvagi.
Learco.   A questo segno
non è l’ira celeste
terribile per me.
Toante.   Fole son queste.
Tranquillo esser non puoi.

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So che nasce con noi

l’amor della virtú. Quando non basta
ad evitar le colpe,
basta almeno a punirle. È un don del cielo,
che diventa castigo
per chi ne abusa. Il piú crudel tormento
c’hanno i malvagi è il conservar nel core,
ancora a lor dispetto,
l’idea del giusto e dell’onesto i semi.
Io ti leggo nell’alma, e so che tremi.
Learco. Questo de’ cori umani
saggio conoscitor traete, amici,
prigioniero alle navi. E tu deponi
quell’inutile acciaro. (a Toante)
Toante. Prendilo, traditor! (getta la spada)
Learco.   Dovresti ormai
quest’orgoglio real porre in obblio.
Toante è il vinto: il vincitor son io.
Toante.   Guardami prima in volto,
     anima vile, e poi
     giudica pur di noi
     il vincitor qual è.
          Tu, libero e disciolto,
     sei di pallor dipinto:
     io, di catene avvinto,
     sento pietá di te. (parte fra i pirati)

SCENA II

Learco e poi Rodope.

Learco. E pur quel regio aspetto,

quel parlar generoso... Eh! non si pensi
che al piacer d’un acquisto
che può farmi felice.
Rodope. (spaventata) Oh Dio! Learco!

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Learco. Qual è del tuo spavento,

Rodope, la cagion?
Rodope.   Quindi non lunge,
stuol di gente straniera al mar conduce
Toante prigioniero. Ah! se ti resta
qualche scintilla in seno
di virtú, di valore, ecco il momento
di farne prova. Ogni delitto antico
puoi cancellar, se vuoi. Puoi del tuo nome
la memoria eternar.
Learco.   Gran sorte! E come?
Rodope. Va’, combatti, procura
di liberar Toante. Offri la vita
a pro del tuo monarca. O vinci o mori,
emendi un atto grande
ogni fallo passato,
e mi tolga il rossor d’averti amato.
Learco. Generoso è il consiglio, e per mercede
merita un disinganno. È mio comando
di Toante l’arresto. Alla superba
Issipile ne reca
la novella, se vuoi. Dille che meno
i deboli nemici
s’avvezzi a disprezzar. Basta sí poco
per nuocere ad altrui, che in umil sorte,
che oppresso ancora, ogni nemico è forte.
          Dille che in me paventi
     un disperato amor.
     Dille che si rammenti
     quanto mi disprezzò.
          E, se per queste offese
     mi chiama traditor,
     dille che tal mi rese
     quando m’innamorò. (parte)

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SCENA III

Rodope e poi Issipile.

Rodope. E tanta si ritrova

malvagitá fra noi? Misera figlia!
Principessa infelice! A tal novella
qual diverrai!
Issipile.   Son terminati, amica,
tutti gli affanni nostri. È stanco il cielo
di tormentarne piú. Vinse di Lenno
le fiere abitatrici
il mio sposo fedel. Palese a lui
è l’innocenza mia. Sicuro il padre,
noi vincitrici, ogni discordia tace:
tutto è amor, tutto è fede e tutto è pace.
Rodope. Ma Toante però...
Issipile.   Toante aspetta
nelle tessale tende
di Giasone il ritorno.
Rodope.   Ah, fosse vero!
Issipile. Perché? Parla!
Rodope.   Toante è prigioniero.
Issipile. E di chi?
Rodope.   Di Learco.
Issipile.   Onde il sapesti?
Rodope. Fra’ seguaci dell’empio
avvinto l’incontrai.
Issipile.   Ma quali sono
di Learco i seguaci?
Rodope. Gente simile a lui.
Issipile.   Numi del cielo!
a che mai di funesto
mi volete serbar? Che giorno è questo?

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SCENA IV

Giasone con argonauti, e dette.

Giasone. Issipile, mio ben, qual nuovo affanno

oscura i lumi tuoi?
Issipile.   Sposo adorato,
opportuno giungesti. Ah! puoi tu solo
consolarmi, se vuoi. Corri... Difendi...
Abbi pietá di me!
Giasone.   Spiégati. Ancora
intenderti non so.
Issipile.   Toante... Il padre...
Learco... Ah, mi confondo!
Rodope.   Al mar conduce
il traditor Learco
incatenato il re.
Giasone.   L’istesso è forse...
Issipile. Sí, quel Learco istesso,
che te, dal sonno oppresso,
svenar tentò; ma, trattenuto, almeno
funestar co’ sospetti
volle la nostra pace.
Giasone.   Anima rea!
Issipile. Principe generoso, ecco un’impresa
degna di te. Tu conservar mi puoi
ii caro genitor. Perdi la sposa,
se lui non salvi. È ad un sol filo unita
la vita di Toante e la mia vita.
Giasone. Lasciami il peso, o cara,
di punire il fellon. Ma tu rasciuga
le lagrime dolenti. Al mio coraggio
è troppo gran periglio
il vederti di pianto umido il ciglio.

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          Care luci, che regnate

     sugli affetti del mio cor,
     non piangete, — se volete
     ch’io conservi il mio valor.
          Tal pietá se in me destate
     con quel tenero dolor,
     non m’avanza — piú costanza
     per vestirmi di rigor. (parte)

SCENA V

Rodope ed Issipile.

Rodope. Ma troppo, o principessa,

t’abbandoni al dolor. Sempre la sorte
non ti sará severa.
Di Giasone al valor fidati e spera.
Issipile.   Ch’io speri? Ma come?
     Se nacqui alle pene,
     se un’ombra di bene
     non vidi finor?
          Ognor doppio affanno
     mi trovo nel petto:
     v’è quello che provo,
     v’è l’altro che aspetto;
     e al pari del danno
     mi affligge il timor. (parte)

SCENA VI

Rodope ed Eurinome.

Rodope. Io mi perdo in sí grande

numero di sventure.
Eurinome.   Il figlio mio,
Rodope, dove andò?

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Rodope.   Pensa, inumana!

pensa a te stessa. Al vincitor t’ascondi,
se t’è cara la vita.
Eurinome.   Io non la curo,
se non trovo Learco.
Rodope.   Un nome obblia,
ch’odio è del mondo, e tua vergogna e mia.
Eurinome. Tanto sdegno perché? Tu lo salvasti...
Rodope. E ne sento dolor.
Eurinome.   Spero che sia
simulata quest’ira. Un’altra volta
dicesti ancor che lo bramavi oppresso,
e l’adoravi allor.
Rodope.   Ma l’odio adesso.
          Odia la pastorella
     quanto bramò la rosa,
     perché vicino a quella
     la serpe ritrovò;
          né il vol mai piú raccoglie
     l’augel tra quelle foglie,
     dove invischiò le piume,
     e appena si salvò. (parte)

SCENA VII

Eurinome sola.

Ah! che, cercando il figlio,

me stessa perderò. Ma che mi giova
senza lui questa vita? È reo Learco;
lo so, ma l’amo; ed i delitti suoi
m’involano il riposo,
ma non l’amor. Piú cresce l’odio altrui,
piú mi sento per lui
tutto il sangue gelar di vena in vena.
Giusti dèi! L’esser madre è premio o pena?

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          È maggiore — d’ogni altro dolore

     quell’affetto che insana mi rende;
     né l’intende — chi madre non è.
          Il periglio — d’un misero figlio
     ho sí vivo nell’anima impresso,
     che per esso — mi scordo di me. (parte)

SCENA VIII

Lido del mare, con navi di Learco e ponte per cui si ascende ad una di esse. Da un lato, rovine del tempio di Venere; dall’altro, avanzi d’un antico porto di Lenno.

Giasone, Issipile, Rodope, con séguito di argonauti.
Learco e Toante in una delle navi.

Giasone. Issipile, respira:

giungemmo il traditor. Compagni, in quelli
insidiosi legni
secondate i miei passi. Io chiedo a voi
furore e crudeltá. S’ardan le vele,
si sommergan le navi. Orrida sia
a tal segno la strage,
che appaia all’altrui ciglio
di quel perfido sangue il mar vermiglio.

Learco comparisce sulla poppa della nave, tenendo con la sinistra per un braccio l’incatenato Toante ed impugnando uno stile nella destra, sollevata in atto di ferirlo.

Learco. Sí, ma quel di Toante

si cominci a versar.
Issipile.   Férmati!
Rodope.   Indegno!
Giasone. Qual furor ti trasporta?
Issipile. Padre... Sposo... Learco... Oh dèi! son morta.
Learco. Issipile, che giova

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l’affliggersi cosí? Della sua vita

arbitra sei. Su questa nave ascendi
sposa a Learco. Il mio costante amore
premii la figlia; e ’l genitor non muore.
Issipile. Che ascolto, o sposo!
Giasone.   E proferire ardisci
il patto scellerato, anima rea?
Ah! raffrenar non posso
il mio giusto furor. (in atto di snudar la spada)
Issipile.   Pietá. Giasone! (trattenendolo)
L’empio trafigge il padre,
se tenti d’assalirlo.
Giasone.   Ah! ch’io mi sento
tutte le furie in sen.
Learco.   Vedi, o Toante,
quella tenera figlia
come corre a salvarti. I suoi disprezzi
paghi il tuo sangue: ho tollerato assai.
  (in atto di ferire)
Issipile. Eccomi! non ferir. (s’affretta verso la nave)
Toante.   Figlia, che fai?
Potesti a questo segno (Issipile si ferma)
scordarti di te stessa? Ah! non credea
che Issipile dovesse
farmi arrossir. D’un talamo reale
all’onor, non al letto
d’un infame pirata io t’educai;
e divenir tu vuoi
madre di scellerati e non d’eroi?
Issipile. Dunque un’altra m’addita
miglior via di salvarti.
Toante.   Eccola. Intatto
custodisci l’onor del sangue mio.
Non pensar che d’un padre
giá ti costi la vita, o te ne renda
piú gelosa custode un tal pensiero.

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Col tuo sposo fedele

vivi e regna per me. Se a voi s’accresce
la vita che m’avanza,
abbastanza regnai, vissi abbastanza.
Rodope. Oh forte!
Giasone.   Oh generoso!
Issipile.   E non ti muove
tanta virtú, Learco?
Learco.   Anzi m’irríta.
Issipile. Dunque?
Learco.   Vieni, o l’uccido.
Issipile.   Ah! questo pianto
ti faccia impietosir. Del mio rifiuto
ti vendicasti assai. Basta, Learco,
basta cosí. Non sei contento ancora?
Vuoi vedermi al tuo piede
miserabile oggetto in questo lido?
Eccomi a’ piedi tuoi. (s’inginocchia)
Learco.   Vieni, o l’uccido.
Issipile. Sí, verrò, traditor! verrò; ma quanto
d’orribile ha l’inferno (s’alza furiosa)
meco verrá. Delle abborrite nozze
fia pronuba Megera, auspice Aletto.
Io delle Furie tutte,
io sarò la peggior. Verrò; ma solo
per strapparti dal seno,
mostro di crudeltá, quel core infido.
Scellerato! verrò.
Learco.   Vieni, o l’uccido.
  (con isdegno, in atto di ferire)
Issipile.   Eccomi, non ferir. (a Learco)
     Numi, pietá non v’è?
     Ricòrdati di me. (a Giasone)
     Morir mi sento.
          Ha ben di sasso il core
     chi, senza lagrimar,

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     ha forza di mirar

     questo tormento.
(Issipile, piangendo, s’incammina lentamente alla nave, e va rivolgendosi a riguardar con tenerezza Giasone)
Giasone. Sposa, cosí mi lasci? Empio! Vorrei...
Fremo... Non ho consiglio.
Barbari dèi... (mentre Giasone va smaniando per la scena, esce frettolosa Eurinome)

SCENA IX

Eurinome e detti.

Eurinome.   Pur ti ritrovo, o figlio.

Learco. Sálvati, o madre.
Giasone.   Ah, scellerata! A caso
  (trattiene Eurinome)
qui non giungesti. Issipile, t’arresta.
Guardami, traditor. Libero appieno (a Learco)
rendi Toante, o la tua madre io sveno.
(Issipile si ferma a mezzo il ponte, e Giasone, impugnando uno stile, minaccia di ferire Eurinome)
Learco. Come!
Eurinome.   Che fu?
Rodope.   Qual cangiamento!
Learco.   In lei
non punire i miei falli. Il tuo nemico
son io, Giasone.
Giasone.   Il mio furor non lascia
luogo a consiglio. È mio nemico ognuno
che te non abborrisce. È rea costei
di mille colpe, e, se d’ogni altra ancora
fosse innocente, io non avrei rossore
d’averle ingiustamente il sen trafitto.
L’esser madre a Learco è un gran delitto.

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Rodope. Confuso è l’empio.

Issipile.   Eterni dèi, prestate
adesso il vostro aiuto!
Giasone. Barbaro! non risolvi?
Learco.   Ho risoluto.
Svenala pur: ma venga,
e la legge primiera
Issipile compisca.
Rodope.   Oh mostro!
Issipile.   Oh fiera!
Giasone. A voi dunque, o d’Averno
arbitre deitá, questo offerisco
orrido sacrifizio.
Learco.   (Io tremo!)
Giasone.   A voi
di vendicar nel figlio
della madre lo scempio il peso resti.
Mori, infelice! (mostra di ferirla)
Learco.   Ah! non ferir: vincesti.
Rodope. E pur s’intenerí.
Eurinome.   Deggio la vita,
caro Learco, a te.
Learco.   Poco il tuo figlio,
Eurinome, conosci... È debolezza
quella pietá che ammiri,
non è virtú. Vorrei poter l’aspetto
sostener del tuo scempio,
e mi manca valore. Ad onta mia,
tremo, palpito, e tutto
agghiacciar nelle vene il sangue io sento.
Ah, vilissimo cor! né giusto sei,
né malvagio abbastanza; e questa sola
dubbiezza tua la mia ruina affretta.
Incominci da te la mia vendetta. (si ferisce)
Eurinome. Ferma! che fai?
Learco.   Non spero

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e non voglio perdono. Il morir mio

sia simile alla vita. (si getta in mare)
Eurinome.   Io manco. Oh Dio!
  (sviene ed è condotta dentro)
Rodope. Oh giustissimo ciel!
Giasone.   Correte, amici,
a disciogliere il re. (gli argonauti corrono sulla nave)
Issipile.   Sposo, io non posso
rassicurarmi ancor.
Rodope.   Quante vicende
un sol giorno adunò!
Toante.   Principe! figlia!
  (scendendo dalla nave)
Issipile. Padre!
Giasone.   Signor!
Issipile.   Questa paterna mano
torno pure a baciar! (bacia la mano a Toante)
Toante.   Posso al mio seno
stringervi ancora! (gli abbraccia)
Rodope.   I tollerati affanni
l’allegrezza compensi
d’un felice imeneo.
Toante.   Ma pria nel tempio
rendiam grazie agli dèi; ché troppo, o figli,
è perigliosa e vana,
se da lor non comincia, ogni opra umana.
Coro.   È follia d’un’alma stolta
     nella colpa aver speranza:
     fortunata è ben talvolta,
     ma tranquilla mai non fu.
          Nella sorte piú serena,
     di se stesso il vizio è pena:
     come premio è di se stessa,
     benché oppressa, — la virtú.