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347 atto terzo


Learco.   (Learco, all’arte!)

Signor, soffri al tuo piede (se gl’inginocchia innanzi)
il vassallo piú reo...
Toante.   Tu vivi! Oh numi!
Sei Learco o nol sei?
Learco.   Learco io sono.
Toante. Che pretendi da me?
Learco.   Morte o perdono.
Toante. Traditor! non offrirti
al mio sguardo mai piú. (in atto di partire)
Learco.   Sentimi, e poi
  (s’alza e lo siegue)
discacciami, se vuoi.
Toante.   Non sai qual pena,
perfido! a te si serba in questo lido?
Learco. La morte io meritai,
signor, quando tentai
Issipile rapir. Ma, se non trova
pietá nel mio regnante
un giovanile errore
che persuase amore,
che il rimorso puní, si mora almeno
nel paterno terreno. Un lustro intero,
sempre in clima straniero,
ramingo, pellegrino,
scherzo di reo destino,
vivo in odio alle stelle, in odio al mondo;
e, quel che piú m’affanna,
vivo in odio al mio re. Grave a me stesso
la stanchezza mi rende
e ’l tedio di soffrir. De’ mali miei
il piú grande è la vita; e chi dal seno
lo spirto mi divide,
è pietoso con me quando m’uccide.
Toante. (Quel disperato affanno
scema l’orror della sua colpa antica.)