Atto V

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Atto IV Nota storica

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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Stanze in casa di Machmut con vari sofà all’intorno.

Machmut solo.

E da colei che solo da mia pietà si regge,

Dalla superba Ircana prender dovrò la legge?
Non basta alla spietata sposo che la consola,
Suocero che l’accoglie; vuolsi veder lei sola?
Tamas, che tanto l’ama, Tamas, che sol per lei
Soffrì co’ suoi rimorsi l’orror de’ sdegni miei,
No, non sarà sì poco riconoscente e onesto,
Di contentar l’ingrata a mio dispetto in questo.
Vidi il suo turbamento al genitore in faccia:
Cuore non ha di farmi l’orribile minaccia.

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Non lo farà; pentito è degli error commessi;

Non caderà1 col padre in replicati eccessi.
Sul di lui cuore Ircana, di sposa ora in sembiante,
Non averà 2 la forza, che avea quand’era amante.
Tamas ancor del nodo credo non sia pentito,
Ma se obbedìo3 l’amante, comanderà il marito.
Tamas, che chiude in seno alma d’onor gelosa,
Adorerà costante il cuor della sua sposa.
Ma mirerà qual passa diversità d’amore
Dal cuor della consorte a quel del genitore.

SCENA II.

Alì e detto.

Alì. Signor, deh mi concedi parlar con quel rispetto

Che merita d’un padre il generoso affetto.
Lascia che qual gli porge il suo dover consiglio.
Parli colui che onori col titolo di figlio.
Sparsa per la famiglia udii testè la voce,
Che Ircana il fiero sdegno cova nel sen feroce;
Che odia la sposa mia, che non la soffre in casa.
Che l’onor nostro insulta, che di timori è invasa.
Grato a’ tuoi doni io sono, i tuoi voleri incitino,
Ma la tua pace io bramo, e di partir destino.
Machmut. No, non pensar ch’io voglia di te, di lei privarmi,
Che amo qual figlia: invano tenti Alì di lasciarmi.
Sposa è Ircana del figlio, sì, l’ Faccettai per nuora,
Ma quella donna altera, non mi comanda ancora:
Nè comandar vedrassi con autorevol ciglio,
Nelle mie soglie altera, di Machmut al figlio.
Tanta virtude ha in seno Fatima la tua sposa,
Che vincerà col tempo il cuor dell’orgogliosa;

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Tanto conosce Tamas il suo dovere al fine,

Che della sposa ai sdegni imponerà il confine;
Ed io tanto potere serbo ancor nel mio tetto,
Per far ch’ella s’accheti, e taccia a suo dispetto.
Alì. Ma se il tuo figlio istesso, per soddisfar l’audace,
D’abbandonar il padre il rio pensier non tace!
E soffrirei vederti per me del figlio privo?
A tal legge indiscreta, signor, non mi soscrivo.
Tanto ti devo e tanto, sono al tuo amor sì grato...
Machmut. Non dubitar che il figlio siami a tal segno ingrato.
Eccolo: a tante prove, onde pietoso io fui,
No che temer non posso tal sconoscenza in lui.

SCENA III.

Tamas e detti.

Tamas. Padre, signor, perdona, se or più che mai ti spiaccio.

Sono, se parlo, ingrato, ma son più reo, se taccio.
Allor che un de’ due mali certo prevede il cuore,
Anche prudenza insegna sceglier dei due il minore.
Male per te, per noi, ch’io di qua mi allontani,
Male ch’io resti, e veggasi scoppio di sdegni insani.
Perdi, s’io parto, un figlio, perdi assai più, s’io resto;
Assicurar tua pace giusto mi sembra, e onesto.
Sai che due donne insieme, unite in pari grado,
Mai si veggono in pace, o veggonsi di rado.
Fatima andar non deve lungi da te, il confesso;
Resti con te, che il merta, te lo consiglio io stesso.
Alla virtù che ha in seno, al doppio benefizio
Ch’ella ci usò pietosa, deesi un tal sagrifizio.
Se l’amor tuo il consente, fissar la mia dimora
In Ispaan potrei, poco a te lungi ancora.
Ti vedrò, mi vedrai; basta l’istesso tetto
Non chiuda le due donne, che miransi a dispetto.
Deh, se ragion tu trovi nel mio pregar sincero,

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Non mi negar tal dono; sì, conseguirlo io spero.

Alì. Tamas, non sarà mai..
Machmut.   Taci, non si confonda
Col tuo dritto il mio dritto. La mia ragion risponda.
ad Alì
Figlio, abbastanza ardisti finor nel patrio tetto
Seguir le leggi indegne d’un sregolato affetto.
Tu m’insultasti, ingrato, ti perdonai gl’insulti,
Teco provai gli effetti della natura occulti;
Ma la pietà soverchia colla viltà confina;
Chi feo la tua fortuna, può far la tua rovina.
Fra i due previsti mali, perfido figlio, il veggio,
Per mio rossor tu scegli, per tua sventura, il peggio.
Male per te se parti, male per me se resti;
Ma fra gli estremi il senno mezzi ritrova onesti.
Chi è che il restar con noi rende a te periglioso?
Chi è che da noi lontano promette il tuo riposo?
Una superba donna, in cui d’amore il frutto
A te sarà funesto, e indomito per tutto.
No, non comanda Ircana di Machmut nel tetto,
No, Tamas non isperi partirsi a mio dispetto.
Se la tua sposa altera cova nel sen lo sdegno,
Vada a sfogarsi altrove, cuor di pietade indegno.
A te l’albergo istesso, che ti ho, padrone, offerto,
Per pena a’ tuoi deliri, in carcere converto.
Vivo non uscirai, crudel, da queste mura:
Qui il genitore offeso ti arresta e ti assicura;
Vivi qual schiavo abbietto, se comandar ricusi,
Soffri il rigor del padre, se dell’amore abusi.
E la spietata Ircana, femmina indegna e prava,
Resti di sposa in vece, qual mia nemica e schiava.
Alì non mi risponda, Tamas o mi ami, o tema,
Fatima non mi sdegni, veggala Ircana, e frema.
(Tamas ed Alì abbassano il capo in segno di riverenza, e tacciono, nel mentre che Machmut passeggia sdegnato.

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SCENA IV.

Un Servo e detti.

Servo. Signor, vien preceduto, all’uso d’Ispaan,

Da corteggio festoso il Bey col Firman:
La grazia per Osmano reca il ministro eletto.
Machmut. Si usi ai regi caratteri il solito rispetto.
Vengano i servi tutti, vengan gli amici nostri,
Ciascun la casa onori, ed al Firman si prostri.
(parte il Servo

SCENA V.

Machmut, Tamas, Alì.

Machmut. Ma quando mai, crudele, quando un padre amoroso

Potrà sperar dal figlio la pace ed il riposo?
Non basta ch’io ti dessi, barbaro cuor, la vita,
Non basta a’ tuoi disastri la mia paterna aita,
Ch’io l’error tuo mi scordi, di’, non ti basta ancora?
Vuoi che comandi Ircana? Lascia, crudel, ch’io mora.
Poco di vita avanza a un genitor dolente;
Poco resister posso al rio fato inclemente.
Aspetti quell’ingrata dal morir mio vittoria,
Ma vuo’, morendo ancora, di me lasciar memoria.
Premiar vuo’ la virtude, punir la rea baldanza,
La tua minaccia è questa (a Tamas), quest’è la tua speranza.
ad Alì

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SCENA VI.

Al suono di vari strumenti vengono da un lato le Guardie Reali con apparato festoso, indi Scacch Bey, che aperto ed appoggiato alla fronte porta il Firman, cioè il decreto reale, e dall’altro lato entrano i Servi e le Guardie di Machmut. Entrando il Bey col Firman, tulli s’inchinano colla mano alla fronte.

Scacch Bey. Del grande, alto, possente, sacro monarca invitto

Ecco in favor di Osmano, ecco il Firman soscritto.
Bacialo, Machmut.
Machmut. (Lo bacia) Alle mie mani il rendi.
Scacch Bey. Offri le borse in cambio, che promettesti.
Machmut.   Attendi.
Olà, sia collo stesso festevole decoro,
Tratto da quelle stanze a’ cenni miei quell’oro.
(Tutte le Guardie Reali coll’accompagnamento ed i Servi e le guardie di Machmut entrano nelle stanze additate, e nel medesimo tempo escono da un’altra parte con vari bacili d’oro, sempre al suono di giulivi strumenti.
Machmut. Inchinatevi all’oro, che uscir dee dal mio tetto,
Ecco di grazie il fonte, portategli rispetto.
Che se la man reale diè la vita ad Osmano,
L’oro ha il poter di muovere ancor la regia mano.
Prendi, Bey, quel prezzo, che alla pietade alletta.
Scacch Bey. Prendi il Firman, e taci; qua il prigioniero aspetta.
(Al suono de’ solili strumenti parie il Bey, preceduto dal seguito e dai Servi di Machmut coi bacili dell’oro.

SCENA VII.

Machmut, Tamas, Alì; poi Fatima.

Fatima. Signor, se al genitore la grazia è già concessa.

Permettimi che vada ad incontrarlo io stessa.
Lascia che più serene siano di Osman le ciglia,

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Sciogliendo i lacci suoi la man di una sua figlia.

Se più tornar non vedi me fra tue soglie ancora,
Fatima a te lontana ti venera e ti onora.
In te ravviso il padre, il mio benefattore;
Grato ti sarà sempre, infin ch’io viva, il cuore.
Deggio lasciarti alfine, deggio partir, lo vedi:
Vo collo sposo unita, deh per pietà il concedi.
Nel liberar tue soglie da una infelice odiata,
D’essere a te pretendo più conoscente e grata.
Finchè qui resto, invano speri godere il frutto
Della pietà che usasti: io son cagion del tutto.
Qua non mi soffre Ircana, ella a ragion può dirlo;
Il suo voler comprendo, ed io deggio obbedirlo.
In mio favor soverchio4 di tua pietà è il consiglio 5,
Se la pietade offende il genitore e il figlio.
Grazie ti renda il cielo della bontà che usasti,
Se il genitor mi salvi, se l’onor mio salvasti.
Su questa man ch’io bacio, grazie ti rendo al dono:
Vado da te lontana, ma la tua figlia io sono.
Machmut. L’odi? la vedi, ingrato? (a T.) No, non sperar ch’io voglia
Che tu mi lasci ancora. D’un tal pensier ti spoglia.
Sono d’Osmano ancora dubbi dell’alma i sensi:
Non so qual sarà meco, qual d’esser teco ei pensi.
Chi sa che il cor feroce, cui sol lo sdegno alletta,
Ad onta della grazia, non pensi alla vendetta?
Tornar potrebbe al campo senza mirarti in volto,
Potria contro d’Alì lo sdegno aver rivolto;
Contro la figlia istessa esser potrebbe irato,
E si può dar che venga d’ogni furor spogliato.
Ma in così dubbio evento, te cimentar non voglio.
Dicolo, e ciò ti basti; più replicar non soglio.
Fatima. Ma la sdegnosa6 Ircana?
Alì.   Ma la tua nuora audace?

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Tamas. Come sperar, signore, come sperar mai pace?

Machmut. E chi è costei, che vanta di spaventar la terra,
Che col suo ciglio a tutti suol minacciar la guerra?
È una donna, è una belva, è un’aspide inumana?
Ha di Medusa il volto? Olà, qui venga Ircana.
(ad un Servo che parte
Tamas. Lascia, signor, ch’io parta.
Machmut.   Vile che sei, ti arresta.
D’un uom che in Persia è nato, qual codardia è codesta?
Nati siam noi nel mondo per dominar quel sesso.
Qua, più d’altrove, il grado vien della donna oppresso.
Schiave son tutte, e solo sposa al talamo eletta
Può comandare all’altre, ma all’uom sempre è soggetta.
E tu cedi l’impero a femmina a tal segno,
Che d’uom nato in Europa l’atto sarebbe indegno?
Va, compatisco Ircana, se ti calpesta insano:
Tutte vorrian le donne tener le briglie in mano.
E se viltà il consente d’uom che sta alla catena,
Solo è di lui la colpa, e sia di lui la pena.

SCENA VIII.

Ircana e detti.

Ircana. Eccomi, chi mi vuole?

Machmut.   Son io, che ti domanda,
Son io, che in queste mura ancor regna e comanda,
Quello che il cuor del figlio solo governa e regge,
Che d’una donna altera sdegna soffrir la legge;
E che a te stessa intima elegger la tua sorte,
O schiava contumace, o docile consorte.
Ircana. Signor, la mia fierezza portata ho dalla culla:
Sposa non so cangiarmi, se tal fui da fanciulla;
Ma la fierezza mia non è, se dritto miri,
Effetto irragionevole di barbari deliri.

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Dimmi: ne’ primi giorni che tu mi avesti acerba.

Scorgesti me fra l’altre andar schiava superba?
Umile fui del pari colle più vili e abbiette;
Mi fur senza lagnarmi le tue catene accette;
E se costui che or vedi, non seduceami allora,
Serva sarei coll’altre, senza lagnarmi ancora.
Ma se una donna è amata, se lusingar si vede,
Vile è colei che affetto di meritar non crede.
Pure, da sue lusinghe resa superba e vana,
Qual è il delitto alfine, di cui si aggrava Ircana?
Una colpa, e poi basta; Tamas fé’ mio quel core,
Sola di quel ch’è mio, sola vogl’io l’onore.
Questa costante brama, questo desire onesto,
Fu il mio primiero incanto, e mi condusse al resto.
Un’altra donna in mezzo di gelosia ai deliri,
Sfogata da se stessa si avria con li7 sospiri.
Io sospirar non posso, non son vile a tal segno:
Di lagrimare in vece, accendomi di sdegno.
Lo sdegno mio mi porta sino alle stragi in seno,
Ma non smarrisco il dritto, nè la ragion vien meno.
Dopo sventure tante stringere al sen mi lice
Il caro sposo, è vero; esser dovrei felice.
Della virtù di Fatima prove ho sicure, il veggo.
So che l’insulto a torto, ma al mio timor non reggo.
Odio ho contro me stessa pel mio 8 sospetto insano:
Tentai dal sen scacciarlo, ma l’ho tentato in vano.
Se di partire intimo al figlio tuo che adoro,
A costo di arrischiare la vita e il mio decoro,
Questo pensar sì strano, questa passion, che credi?
Parla giustizia in questo in me più che non vedi.
So che a ragion per Fatima il tuo dover s’impegna,
So che il volerla esclusa, è pretensione indegna.
Viver con lei non posso, trarla da te non bramo,

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Per evitar il peggio, dico allo sposo: andiamo.

S’ei di venir ricusa, se tu il contrasti e il nieghi.
Vano sarà ch’io parli, vano sarà ch’io prieghi.
Tamas sa il mio disegno: o fuor di queste porte,
O tolgami di pene la mia, non la sua morte.
Ogni ragion in vano mi parla e mi consola;
O che al partir mi affretto, o che qui resto io sola.
Machmut. (Ah col rigor si tenta di riparare in vano...).

SCENA ULTIMA

Un Servo e detti; poi Osmano.

Servo. Signor, da’ lacci sciolto, brama vederti Osmano.

(a Machmut
Machmut. Venga, sentiam quel core s’è impietosito o altero.
Fatima. (Ah che pavento, e tremo).
Tamas.   (Ah che più ben non spero).
Osmano. Oh Machmut, oh amico, tenero al sen ti stringo.
Esser grato qual devo a te non mi lusingo.
L’opra so generosa del tuo sincero affetto:
Figlia, mia cara figlia, vien che ti stringa al petto.
Genero, Alì mio fido, sì, che tuo padre io sono.
Tamas, della tua colpa mi scordo, e ti perdono.
Vidi nel carcer tetro l’onor non della morte,
Che cento volte e cento la disprezzai da forte;
Ma l’onor mio perduto vidi in orrido aspetto,
E risarcir le macchie dell’onor mio prometto.
Sì, che mi aspetti il Trace più dell’usato altero.
Fin nella reggia istessa dell’Ottomano impero.
Suderò della gloria per i smarriti allori.
Sarà di Machmut il prezzo dei sudori.
L’oro avrai che spendesti per me, tra ferri esangue;
A te devo la vita, a te dovuto è il sangue.
Vivo ai trionfi ancora, al mio destin perdono.
Pace vi rendo, amici, pace vi chiedo in dono.

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Machmut. Dalla bontà che mostri, anima illustre e grata,

Tutta la mia pietade è ben ricompensata.
Un solo don ti chiedo, e dal tuo cor l’aspetto:
Fatima tua rimetti9 nel tuo primiero affetto.
Lei collo sposo accogli, Osman, con liete ciglia;
Ma non negar ch’io possa Fatima dir mia figlia.
Osmano. Sì, figlia tua sia sempre per l’amorosa cura,
Ma Fatima d’Osmano figliuola è per natura.
Non ricusar che Fatima passi al tetto natio.
Alì vengavi seco, genero e figlio mio.
Vado a pugnar: se il fato tornar non mi concede,
Lo sposo della figlia sarà di me l’erede.
E l’amor tuo sì forte, ch’io lodo e benedico,
Faccia che in te, s’io manco, lor serbi un vero amico.
Prendi, s’è ver che gli ami, di regolarli il pondo,
Che più del sangue istesso val l’amicizia al mondo.
Machmut. Fatima, or son contento. Osman padre ti accoglie,
Vattene collo sposo, vanne alle patrie soglie.
Sempre ti sarò padre, figlia discreta, umana.
Dimmi, vivrai tu in pace? sarai contenta, Ircana?
Ircana. Ah, mio signor, qual grazia! Suocero mio, qual dono!
Sposo, diletto sposo, sì, che contenta or sono.
Deh Fatima, perdona il mio geloso eccesso,
Perdona, Alì cortese, perdoni Osmano anch’esso.
Non mi vedrete un giorno turbar sdegnoso il ciglio,
Sarò obbediente al padre, sarò amorosa al figlio.
Dubbio non v’è ch’io senta voglia proterva insana,
Ecco che lieto han fine le avventure d’Ircana.


Fine della Tragicommedia.


Note

  1. Savioli, Zatta e rist. torinese: No, non cadrà.
  2. Savioli, Zatta e rist torinese: Non avrà più.
  3. Rist. torinese e Zatta: ubbidì.
  4. Nel testo: sovverchio.
  5. Ristampa torinese e Zatta: Il mio favor sovverchio di tua pietà è consiglio.
  6. Savioli, Zatta e rist. torinese: sdegnata.
  7. Ed. Pitteri: cogli.
  8. Savioli, Zatta e rist. torinese: per un.
  9. Ed. Pitteri: rimmetti.