Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Stanza in casa di Machmut.

Machmut, Tamas, Alì, Servi e Soldati.


Machmut. Voi, domestiche guardie, voi, militari armati,
Alle regie finanze dal Visir deputati,
E voi, servi miei fidi, pronti in ogni ardua impresa,
Di me, di queste soglie vegliate alla difesa:
Armi non mancheranno, non munizion1 da guerra,
Se l’inimico assale, cada il nemico a terra.
Parte di voi coll’armi formi nel centro un forte,
Altri i giardin difendano, altri le doppie porte.
Sieno appostati alcuni alle finestre, ai fori,

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Respinti in ogni lato gli audaci assalitori.

Quadruplicato il prezzo avran da me i guerrieri;
Premio prometto ai servi, che pugneranno alteri.
E chi più franco e ardito l’armi trattar si vede,
Più generosa aspetti da me la sua mercede.
Agli armati che or sono all’uopo mio concessi,
I regi moschettieri si accoppieranno anch’essi.
E troverà sì forte difesa a noi d’intorno,
Che al campo, onde partissi, Osman farà ritorno.
Tamas, Alì, voi meco a vigilar restate:
Servi, amici, guerrieri, a prepararvi andate.
(partono Servi ed i Soldati
Figlio, vedi a qual passo per te son io ridotto!
Per tua cagione Osmano vien da furor condotto.
Ti perdonai, non voglio render la pace amara;
Ma dall’esempio almeno a regolarti impara.
Tamas. Conosco i falli miei, condanno i miei trascorsi;
In mezzo a’ miei contenti mi turbano i rimorsi.
Scordati, per pietade, quanto potei spiacerti;
Rendimi il primo affetto.
Machmut.   Perfido, non lo merti.
Tamas. Ah se così mi parli, se non rimetti il figlio
Nell’amor tuo primiero, torno al fatale esiglio.
Non so mirar del padre dubbio ver me l’aspetto;
Nel tuo cuor mi rimetti?
Machmut.   Basta... Sì, ti rimetto.
Fa che un novel costume ogni tua colpa emendi.
Tamas. Che della tua bontade grato mi mostri, attendi. parte
Alì. Degna del tuo bel cuore è la pietade offerta.
Chi del tuo amore abusa, i doni tuoi non metta.
Tamas che li conosce, Tamas intenerito
Da tua bontade estrema, à dell’error pentito.
Quanto spiacer ti ha dato, preso da amor consiglio,
Tanto piacer daratti. Sì, rasserena il ciglio. parte

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SCENA II.

Machmut, poi Bulganzar e Vajassa.

Machmut. Miseri genitori! usasi ogni arte, ogni opra,

Che la ragion nei figli folle passion non copra;
Sdegni, castighi ed onte lor si minaccia e intima,
Ma dopo il fallo ancora parla l’amor di prima.
Padre se stesso inganna, se disamar procura2:
Vince ogni sdegno alfine l’affetto e la natura.
Bulganzar. Signor, per le tue donne trovata ho una custode,
Che merita ogni stima, che merita ogni lode.
Vecchia, ma non schifosa, non pazza e non ingorda,
Non ha che un sol difetto, è un poco un poco sorda 3.
Machmut. Dov’è costei?
Bulganzar.   Ti accosta. (a Vajassa
Vajassa.   Cosa dici?
Bulganzar.   Ti accosta.
(le fa cenno che venga innanzi
Vajassa. (Sì avanza.
Machmut. Sei Tartara, o Persiana?
Bulganzar.   Via, non gli dai risposta?
Vajassa. Cosa ha detto?
Bulganzar.   Se sei di Persia, o Tartaria. (forte
Vajassa. Oh son di più lontano. Son nata in Barbaria.
Machmut. Come in Persia venuta?
Vajassa.   In Persia, signor à.
Machmut. Il tuo nome?
Vajassa.   Trent’anni saran ch’io sono qui.
Bulganzar. Il tuo nome ti chiede. (forte
Vajassa.   Vajassa è il nome mio;
Avvezza a custodire le femmine son io.
Sotto di me le schiave riescono brave e buone,

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E fo che soprattutto rispettino il padrone.

Se mormorar vorranno... l’occhio terrò attentissimo.
E se parleran piano, le sentirò benissimo.
Machmut. Credo di no.
Vajassa.   Che ha detto? (a Bulganzar
Bulganzar.   Che non gli par.
Vajassa.   Che dici?
Bulganzar. Che sei sorda. forte
Vajassa.   Va, pazzo; ho due orecchie felici.
Machmut. Fin che troviam di meglio, costei resti all’uffizio.
(a Bulganzar
Vajassa. Cosa dice? (a Bulganzar
Bulganzar.   Ti ferma custode al suo servizio, forte
Vajassa. Sì, signor, per servizio anch’io la grazia accetto,
E della mia custodia vedrete il buon effetto.
Non lascierò venire nessun, fin ch’io ci sono:
Tu pur ti farò stare lontan, poco di buono;
(a Bulganzar
Perchè voi altri eunuchi, se altro mal non ci fate,
L’odore di bestiaccia là dentro ci portate.
Machmut. Sien da costei per ora le donne custodite;
Di te per cenno mio di ciò sieno avvertite.
(a Bulganzar
Di sordità il difetto soffribile è in costei,
Se abilità s’accoppia, e fedeltade in lei. parte

SCENA III.

Vajassa e Bulganzar.

Bulganzar. Hai capito? forte

Vajassa.   Ho capito.
Bulganzar.   Anderà ben così? forte
Vajassa. (Non ho inteso parola). Io crederei di ri.
Bulganzar. Vado ad unir le donne, che son fra queste porte
Sparse di qua e di là.

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Vajassa.   Parla un poco più forte.

Bulganzar. Non ci senti? forte
Vajassa.   Ci sento.
Bulganzar.   Se seguiti così,
Ci vuole una trombetta.
Vajassa.   Trombetta? Eccola qui!
Nelle giornate umide certa flussion mi viene...
Grazie al Ciel, non son sorda, ma non ci sento bene:
Parlami in questa canna, che sentirò assai più.
Bulganzar. Proviamo. (parla nella canna all'orecchio di Vajassa
Vajassa.   Non è vero, un briconcel4 sei tu.
Oibò che baronate! uh che cose da foco!
Non voglio sentir altro... Seguita un altro poco.
(Mostrando che Bulganzar le dica all'orecchio delle impertinenze.
Sì, va a chiamar le schiave; bene, le spose ancora.
Ti aspetterò. Sta zitto. Che dici in tua buon’ora?
Oh che briccon! Va via; tu mi hai solleticata.
Bulganzar. (Curcuma in questa vecchia mi par che sia rinata).
parte

SCENA IV.

Vajassa.

Oh che digrazia è questa, aver perso l’udito!

Meglio per me sarebbe un occhio aver smarrito.
Quando le genti parlano, ed io non so di che,
Dubito che fra loro discorrano 5 di me.
E arrabbio dal dispetto di non poter sentire,
E son la mia disgrazia forzata a maledire.
Oh non si tien da conto salute in gioventù,
E poscia vi si pensa quando non si può più.
Ho fatto de’ strapazzi, che a dirgli ora ho vergogna,

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E in questa età canuta penar, soffrir bisogna.

E sino in faccia mia, più di un briccon si prova
A dir: peccati vecchi, e penitenza nuova.

SCENA V.

Ibraima, Zama e detta.

Ibraima. Eccola la custode. Mirala, brutta e antica.

Zama. Sia come esser si voglia, ci giova averla amica.
Diciamle qualche lode all’uso del paese.
Vajassa. Eccole; se son buone, anch’io sarò cortese.
Zama. O saggia, o venerabile, degnissima matrona,
O tal che fra le donne ha merto di corona;
O degna d’obbedienza6, o degna di rispetto.
Il Ciel vi dia salute.
Vajassa.   Che cosa avete detto?
Zama. Vi offersi il cuor sincero, rispetto e obbedienza.
Lasciate che vi baci la man per riverenza.
(le bacia la mano
Vajassa. Brava la mia figliuola: così vi vorrò bene, a Zama
E voi non vi degnate di far quel che conviene?
(a Ibraima
Ibraima. Il Cielo vi conceda e pace e sanità,
E facciavi vedere di Nestore l’età.
Mantengavi, qual siete, il ciel robusta e forte,
E bella, e spiritosa.
Vajassa.   Dite un poco più forte.
Ibraima. È sorda. a Zama
Zama.   Me ne accorsi. (ad Ibraima
Vajassa.   Non vo’ si parli piano.
Ibraima. Prometto d’obbedirvi, e baciovi la mano.
(le bacia la mano

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Vajassa. Così mi piacerete, per voi sarò amorosa.

(Vedersi rispettare è pur la bella cosa!)
Ibraima. Io vado a ritirarmi.
Zama.   A ricamare io vo.
Vajassa. Se mi vorrete bene, anch’io ve ne vorrò.
Ibraima. Son giovane discreta.
Zama.   Conosco il dover mio.
Ibraima. Or madre mia voi siete.
Zama.   Son vostra figlia anch’io.
Vajassa. Andate a ritirarvi, or or sarò da voi.
Ibraima. Stiam ben con questa sorda. (piano a Zama
Zama.   Anzi, meglio per noi.
(piano a Ibraima
Potremo a nostra voglia parlar liberamente. parte
Ibraima. Sì, sì, potrem la vecchia burlare impunemente. parte

SCENA VI.

Vajassa, poi Lisca.

Vajassa. Cosa mai hanno detto? oh sordità infelice!

M’arrabbio se non posso sentir quel che si dice.
Lisca. (Eccola qui la sorda, che Bulganzar mi ha detto.
Forte convien parlare, se intornmo ha un tal difetto).
Vajassa. (Un’altra donna è qui).
Lisca.   (Vo’ farle un complimento).
Madre mia, vi saluto. (forte nell’orecchio
Vajassa.   Non strillate, ci sento.
Lisca. Scusate, mi hanno detto che poco ci sentite.
Però parlai sì forte.
Vajassa.   Come? che cosa dite?
Lisca. D’aver parlato forte io vi dicea il perchè.
Scusatemi, vi prego, se non è vero.
Vajassa.   Che?

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Lisca. (È sorda, e non vuol esserlo). Ci parlerem dappoi7.

forte
Vajassa. Ci parlerem, v’ho inteso, quando vorrete voi.
Lisca. Vi riverisco intanto.
Vajassa.   Che cosa?
Lisca.   Riverente.
Vajassa. Voi avete una voce che non capisco niente.
Lisca. Dico che vi saluto. (forte
Vajassa.   E sol per salutarmi,
Bisogno c’era dunque di tanto incomodarmi?
Anche nelle parole io voglio economia.
Quando che si saluta, s’inchina, e si va via.
Lisca. (S’inchina.
(Mi fa crepar di ridere la vecchia sgangherata). (parte

SCENA VII.

Vajassa, poi Fatima ed Ircana.

Vajassa. Al mover della bocca mi par m’abbia burlata;

Affé, se me ne accorgo, farò quel che far soglio.
Son sorda, sì, son sorda, ma esserlo non voglio.
Fatima. (La novella custode render mi voglio amica).
Ircana. Vo’ prevenir la vecchia... Stelle! la mia nemica!)
(vedendo Fatima
Fatima. (Ircana qui? mi assale un tremore improvviso).
Ircana. (Sento accendermi il sangue nel rimirarla in viso).
Vajassa. (Non si degnan costoro far meco il lor dovere?)
Fatima. (Temo il parlar funesto, parmi viltà il tacere).
Ircana. (Non vuo’ mostrar partendo timor de’ sdegni suoi).
Vajassa. Via, quel che l’altre han fatto, fate con me anche voi.
(a Fatima ed Ircana
Ircana. (Non ho cor di mirarla).
(guardando un poco Fatima, indi voltandosi con ismania

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Fatima.   (Freme ancor per dispetto).

(guardando un poco Ircana, indi voltandosi
Vajassa. (Che sembri agli occhi loro sì orribile d’aspetto?)
Ircana. (Coraggio). In queste soglie, Fatima, non comprendo
Come Alì ti trattenga. (a Fatima
Vajassa.   Forte, che non intendo.
(a Ircana
Fatima. Stupisco anch’io non meno, come fra queste porte
Machmut ti conduca.
Vajassa.   Parla un poco più forte.
(a Fatima
Ora con questa canna...
(si pone la canna all’orecchio, e si accosta ad Ircana
Ircana.   Preveggo il mio periglio.
(da sè, badando a Vajassa
Vajassa. Superba. (ad Ircana) Parla qui...
(a Fatima, accostando la canna
Fatima.   D’uopo avrei di consiglio.
(da siè, non badando a Vajassa
Vajassa. Ardite vanerelle, parlar non mi volete?
Meco così si tratta? Voi me la pagherete, parte

SCENA VI».

Ircana e Fatima.

Fatima. Qual stravagante umore nella custode io veggio!

Spiacenti se al governo star della vecchia io deggio.
Ircana. Qual siasi la custode premer dovriati poco,
D’Alì dovrà la sposa passar in altro loco.
Fatima. Vuol Machmut 8 ch’io resti quivi allo sposo unita,
A parte de’ suoi beni noi, generoso, invita.
Torna per me sdegnato il padre mio furente,
Machmut mi difende.
Ircana.   E Tamas vi acconsente?

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E Fatima, che in seno ha virtù peregrina,

Di vivere non teme al giovane vicina? (con ironia
Fatima. Sazia non sei tu ancora di provocarmi a sdegno?
Giunta ti vidi, Ircana, delle tue mire al segno.
Tamas è sposo tuo, sei del suo cuor signora.
Sola trionfi e godi, e non ti basta ancora?
Ircana. No, non mi basta: il cuore debole in lui conosco,
Facile amor vi sparge per leggerezza9 il tosco.
E sempre, a te vicino, aver degg’io sospetto,
Che possa l’incostante dividere l’affetto.
Fatima. Fai torto ai pregi tuoi, temendo il mio potere;
Ma sono i tuoi rimorsi, che ciò a te fan temere.
Paventi giustamente mirare alfin pentito
Del laccio lusinghiero un cuor che mi hai rapito.
Ircana. Tu d’involar pensavi cuor che a me si aspettava.
Fatima. Sposa di lui fui scelta; ceder dovea la schiava.
Ircana. Ora di schiava il nome cambiato ho in quel di moglie;
Son del suocero in casa, padrona in queste soglie.
Fatima. Sì, di Fatima in grazia, che per pietà sottratto
Ha il tuo seno alla morte.
Ircana.   Per ambizion l’hai fatto.
Colla pietà, che meco dissimulando usasti,
Del padre e dello sposo l’amor ti guadagnasti.
L’arte conobbi allora del tuo disegno ascoso.
Fatima. Arte per te felice, che ti diè vita, e sposo.
Ircana. Sì, del tuo cuore ad onta, Tamas è sposo mio.
Fatima. Non mel vantare in faccia, che la cagion son io.
Ircana. Merito in van pretende l’involontaria aita.
Fatima. Gratitudine merta chi serba altrui la vita.
Ircana. Via, da me che pretendi? Tu mi salvasti, è vero,
Colla pietà coprendo10 l’idea del tuo pensiero.
L’opera tua giovommi; pensar deggio a premiarla.
Vuoi per mercè lo sposo? Vuoi ch’io tel renda? Parla.

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Fatima. No, non pretendo un cuore, che abbandonommi ingrato.

Lieta son io di sposo, che mi concede il fato.
Tamas sia tuo per sempre, fin che tu resti in vita;
Basta che tu mi parli meno orgogliosa e ardita.
Bastami dal tuo seno ogni livor rimosso;
Venderti a minor prezzo le mie ragion non posso.
Non nego esserti amica, non temo i sdegni tuoi;
Amami, se ti cale, odiami, se tu vuoi. parte

SCENA IX.

Ircana, poi Tamas.

Ircana. E soffrirò vedermi sempre orgogliosa in faccia,

Donna che a mio rossore si vanta e mi rinfaccia?
E soffrirò il periglio, che alla rivale appresso
M’insulti e mi rimproveri anche lo sposo istesso?
No, vo’ partire; e meco Tamas da queste porte
Tragga veloce il piede, o mi condanni a morte.
Eccolo. Oh Dei! con Fatima parla l’ingrato. Ah indegno!
Sugli occhi miei? sì poco a lui cal del mio sdegno?
Ah saprò la rivale ferir fra le sue braccia,
La svenerò ben anche di Machmut in faccia.
(movendosi furiosamente verso la scena
Tamas. Dove così furente?
Ircana.   A vendicar quei torti,
Che fin sugli occhi miei, per mio rossor, mi porti.
Tamas. Fermati.
Ircana.   O andiam per sempre11 lungi da questo tetto,
O mi vedrai quel seno ferire a tuo dispetto.
Tamas. Modera quello sdegno, che in te soverchio abbonda.
Qui d’amor non si parla. Noi Osmano circonda.
Vien cogli armati suoi, e delle guardie ad onta,

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Stragi minaccia e morte, e chi si oppone affronta.

Fatima vidi, e seco non favellai d’amore.
Ma del furor che guida per essa il genitore.
Ella che disarmato l’ha con i pianti suoi,
Ella col pianto istesso lo può placar per noi.
Ircana. Sì, può placare il padre seco furente in vano 12,
Basta che tu le renda l’onor della tua mano.
Osmano entrar vedrassi13 amico in queste porte,
Al suon di mie catene, o a quel della mia morte.
Salvisi Machmut, Tamas si salvi, e pera
Quest’infelice sposa, che ti possiede 14 altera.
Va, compra la tua pace col sagrifizio15 indegno,
E plachi il sangue mio del Tartaro lo sdegno.
Tamas. No, cara, non temere ch’io ti abbandoni a Osmano.
Morrò pria di lasciarti.
Ircana.   Qui tu lo speri in vano.
Comanda in queste soglie sdegnato il genitore,
Consigliavi e promove di Fatima l’amore.
Alì col fido amico troppo è cortese e umano,
È nell’onore offeso per mia cagione Osmano:
Tutti nemici miei, tutto al mio mal congiura,
Altro non vi è16 rimedio che uscir da queste mura.
Tamas. Ah che il furor ti accieca. Qual scampo al rio periglio
Trovar, se ci esponiamo prima di Osmano al ciglio?
Allor la sua vendetta noi fuggiremmo 17 in vano,
Caduti per sventura dell’inimico 18 in mano.
Ircana. Vile che sei! quel ferro a che ti cingi al fianco?
Va, l’inimico affronta; va risoluto e franco.
E se valor ti manca per assalir quell’empio,
Coraggio in te risvegli di femmina l’esempio.

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Dammi una spada. Io stessa, di cento spade a fronte,

T’insegnerò la via di vendicar nostr’onte.
E se il valor non basta, e se perir bisogna,
La morte è minor male, che il torto e la vergogna.
Tamas, o vieni meco ad assalire Osmano,
O attenderlo vilmente meco tu speri in vano.
Sì, là esporromi al campo, sola d’Osmano al piede;
Cadrò vittima ardita del mio amor, di mia fede.
O disarmar l’audace saprò donna orgogliosa,
O morirò fra l‘armi, ma morirò tua sposa.
Tamas. Non cimentarti, Ircana, non incontrar ruine.
Sei coraggiosa e forte; ma sei femmina alfine.
Ircana. Femmina sono, è vero, mancar mi può il valore,
Ma tal son io, che in petto più di te forte ha il cuore.
Se non vedermi esposta vuoi sola al furor cieco,
Vieni col ferro in mano, vieni a pugnar tu meco.
Fa che gli amici armati, a trepidar non usi,
Restar fra queste soglie non veggansi rinchiusi.
Esci di loro a fronte; io sarò teco al lato 19.
Tremi di noi quell’empio barbaramente armato.
Spada a spada si opponga, destra si opponga a destra:
Esser suol nei perigli disperazion maestra.
Attenderlo qua dentro è di viltade un segno:
Le leggi, chi non opra, attenda dal suo sdegno.
O vincere, o morire mi alletta e mi consola:
O vieni a pugnar meco, o vado a morir sola. parte
Tamas. No, non morrai tu sola, donna sublime e forte:
A vincer verrò teco, o teco incontro a morte.
Fammi arrossir quel labbro, fammi arrossir quel core.
Mi anima il suo coraggio. Forza darammi amore, parte


Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Ed. Pitteri: monizion.
  2. Ed. Pitteri: proccura.
  3. Così nelle edd. Pitteri. Pasquali, Savioli ecc.; nelle ristampe torinese e nell’ed. Zitte leggesi: ed è ch’è un poco sorda.
  4. Così nel testo.
  5. Edd. Pitteri e Pasquali: discorrino.
  6. Nelle edd. Serioli, Zatta ecc.: ubbidienza.
  7. Ed. Pitteri: dapoi.
  8. Il Goldoni considera, qui e sempre, il nome Machmut trisillabo.
  9. Edd. Pitteri e Pasquali: leggerezza.
  10. Così le edd. Pitteri e Pasquali. Nelle edd. Savioli a Zatta, a nelle ristampe di Bologna e di Torino: comprendo.
  11. Così Pitteri e Pasquali. Nella ristampa di Bologna (1768) a in quella di Torino (1775), e nelle edd. Savioli (1770) e Zatta leggasi solo: O n’andiamo.
  12. Così Pitteri e Pasquali. Nella rist. bolognese si legge: Sì, può placare, seco furente invano; e l’ed. Savioli, seguita dall’ed. di Torino e dall’ed. Zatta, così corresse: Sì, può placar di luì l’odio furente insano.
  13. Così Pitteri e Pasquali; nelle altre edizioni: cedresti.
  14. Ed. Pitteri: possede.
  15. Così Pitteri e Pasquali; nelle altre edizioni: sacrificio.
  16. Così Pitteri e Pasquali; nelle altre edizioni: non v’ha.
  17. Così Pitteri e Pasquali; nelle altre edizioni: fuggiremo.
  18. Edd. Savioli e Zatta: all’inimico.
  19. Nelle edizioni Savioli, Zatta ecc.: a lato.