In risaia/XI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | X | XII | ► |
XI.
Questa volta la risaia dove la mandava il sensale era molto lontana, sul territorio di Borgo-Vercelli, a circa otto miglia da Trecate.
Le donne, specialmente quelle uscite appena di convalescenza, giunsero stanche, coi piedi gonfi ed indolenziti.
La Nanna seduta sulla paglia che doveva servirle di letto, si teneva i suoi poveri piedi tra le mani ed era spaventata di vederli ridotti a quel modo.
Ma le più robuste le dicevano:
— Non badarci; dormi. Domattina avranno a star tanto in bagno, che si rinfrescheranno più del bisogno, e si sdraiavano cinguettando sulla paglia del fienile, e si addormentavano ridendo.
Anche la Nanna finì per addormentarsi; ed era tanto stanca, che tirò via a dormire fino al mattino senza voltarsi. Quando si svegliò guardò intorno sbalordita e disse:
— È sempre notte.
Infatti non erano ancora le quattro; alle quattro bisognava essere sul lavoro. Cominciava appena ad albeggiare; tutta l’immensa pianura era avvolta in un vapore grigio e pesante.
La Nanna provò un senso di ribrezzo all’entrare nella risaia: e quando si trovò con l’acqua fin sopra le ginocchia, ed il capo in quella nuvola bianchiccia che la velava tutta, si sentì mancare il fiato.
— Oh Dio! mormorò. Mi pare che questa cosa bianca sia la febbre, e che mi entri pel naso, per gli orecchi, per la bocca. E rabbrividiva tutta.
— Eh! ragazza! Cosa si fa? le gridò l’assistente dei lavori.
Si curvò in fretta e si pose a mondare il riso dalle male erbe. Ma si sentiva triste ed abbandonata in quella pianura grigia; aveva voglia di piangere; e tratto tratto guardava in su, per vedere se spuntasse un occhio di sole a diradare quel vapore, che le pesava sui polmoni e sul cuore.
Povera Nanna, che razza di desiderio! Quando il sole venne, un sole di giugno che bruciava come una fiamma, si sentì cuocere il cervello ed arder le carni. Il sudore le scolava giù lungo il collo, le cadeva dalla fronte a grosse goccie, che piombando nell’acqua della risaia, vi segnavano dei cerchi come fossero sassolini. E da quell’acqua stagnante e riscaldata, esalavano miasmi puzzolenti, che sconvolgevano lo stomaco.
Verso le due l’ardore del sole era così intenso, che pareva di sentirsi guizzare intorno delle lingue di fuoco, che lambissero le carni, che succhiassero il sangue. Ed a misura che il caldo aumentava, il puzzo delle acque si faceva più insopportabile.
La Nanna aveva la nausea. Si rizzò cogli occhi iniettati e le vene della fronte inturgidite dal lungo star china, e disse con profondo sconforto:
— Ma è una vita d’inferno!
— Eh! laggiù, Nanna! al lavoro! gridò l’assistente.
— Via, cantiamo; disse una donna che le stava accanto, avvezza già a quelle torture.
— Ti passerà più presto il tempo, soggiunse; non ci sono più che due ore di lavoro. Ed intonò la canzone:
Bersaglier di Garibaldi |
Ad una ad una, da vicino, da lontano, di qua, di là, le mondatrici si unirono a quella voce e formarono un coro. La Nanna pure cantò la prima strofa. Ma aveva troppa nausea, non potè continuare, e quelle note lente, cadenzate, gemebonde, la fecero piangere.
Alle quattro, quando uscì dall’acqua dopo tante ore di quella fatica, non poteva reggere al riflesso abbagliante del vasto piano bianco dardeggiato dal sole. Al lungo guardare nell’acqua, lucente come uno specchio, gli occhi erano spossati e non resistevano più alla luce; dovunque li volgesse vedeva una palla azzurra fluttuarle dinanzi.
— Oh Signor Iddio! pensava; come potrò resistere? Ma poi osservava le sue compagne, che, sebbene riscaldate, grondanti sudore, s’avviavano allegramente al riposo, come dopo un lavoro ordinario, e si rassicurava un poco, e diceva:
— Se si sono avvezzate loro, mi avvezzerò anch’io.
Intanto udiva i discorsi di due grosse fanciulle che camminavano innanzi un passo da lei:
— Quante ne hai prese tu?
— Cinque.
— Hai guadagnata una lira. È il prezzo di una mezza giornata di lavoro; e senza fatica.
Senza fatica! Questa parola sonò come una melodia all’orecchio della povera Nanna, in quello stato di prostrazione e di scoraggiamento. Stette a sentire.
— Una lira? disse la prima giornaliera. Tu le metti venti centesimi ciascuna?
— Ma sì. È il prezzo che ne prendo io.
— E dove? Io non ho mai avuto più di tre soldi.
— Chissà a chi le hai vendute! Se domenica vieni a Novara con me, ti faccio avere venti centesimi ciascuna. Vedrai.
La Nanna, curiosa di conoscere quel segreto che faceva guadagnare denaro senza tanti stenti, domandò:
— Oh! ragazze! Cos’è che ci avete da vendere a Novara?
— Le sanguisughe, rispose una delle due, fermandosi per aspettarla.
— Tu non ne hai prese? domandò l’altra compagna alla Nanna.
— Io no. Mi venivano intorno alle gambe; ma sono riescita a scacciarle.
— Brava! Dai i calci alla fortuna. A noi non par vero che ci si attacchino, così le pigliamo; altrimenti sfuggono, e l’assistente non ci lascia sprecare il tempo ad inseguirle.
— Ma vedete un po’ quanto sangue vi fanno perdere! osservò la Nanna accennando le gambe brune delle fanciulle, che grondavano sangue da parecchie ferite.
— Che! è il sangue cattivo che se ne va, disse una crollando le spalle. Risparmia una malattia.
— Ci si mette sopra una ragnatela, aggiunse l’altra e ristagna subito.
In quella giungevano sull’aja. La mondatrice corse in un angolo accanto al fienile, raccolse alcune ragnatele polverose, e se le pose sulle ferite, che infatti cessarono di sanguinare.
— È vero, pensò la Nanna. Si lascia che le sanguisughe si attacchino, ma soltanto all’ultimo momento prima di smettere il lavoro, così non s’ha tempo di perder molto sangue. E poi, cos’è un bicchier di sangue al confronto di una giornata come questa?
E si messe a calcolare, che, se per quindici giorni di seguito avesse prese soltanto tre sanguisughe ogni giorno, avrebbe guadagnate nove lire; il prezzo di cinque giornate di quel lavoro d’inferno; ed avrebbe potuto lasciare la risaia cinque giorni prima, senza perderci di borsa.
E si coricò un po’ confortata da quella speranza, e fin dal domani, cominciò ad abbandonare le sue povere gambe, che non avevano sangue di troppo, tutt’altro, ai morsi arrabbiati di quelle bestiole da farmacia. Appena si sentiva addentata, portava la mano alla ferita, ed afferrata la sanguisuga, non più libera di sfuggirle, la metteva in una boccetta, che teneva nascosta nella rimboccatura dell’abito.
Quel giorno ebbe la fortuna di pigliarne cinque, e s’affrettò a cercare le ragnatele per rimarginare le cinque morsicature. Era contenta, ma si sentiva indebolita, ed aspettava con impazienza la sua scodella di riso e fagioli. Sgraziatamente il sensale che aveva preso l’appalto dei lavori, forniva anche il vitto; era una speculazione, e sapeva trarne profitto.
Il proprietario pagava in ragione di due lire al giorno cinquanta mondatrici, per trenta giornate; e quaranta centesimi al giorno, pel vitto di ciascuna. Il sensale imprenditore, aveva accordate soltanto quaranta mondatrici, alle quali, a forza d’angherie, riesciva a far fare il lavoro di cinquanta; pagava le giornate soltanto una lira e ottanta centesimi e quanto al vitto dava alle povere donne del riso cotto fino a sfasciarsi, misto a fagioli duri, senz’altro condimento che un po’ di sale ed un pezzo di lardo rancido.
Dopo una giornata di quel lavoro da galeotto, quel cibo di cui i galeotti non hanno idea.
La Nanna non potè ingoiare la minestra. Mangiò un pezzo di pane col formaggio che s’era portato, e si coricò sulla paglia del fienile, dove ben presto la raggiunsero tutte le mondatrici.