In Valmalenco/Capitolo XXIII
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Al Palù.
XXIII.
Eravamo un po’ stanchi e la visita inutile, compiuta alle cave di steatite, poste fra Chiesa e Torre, sopra la montagna roggia, ci aveva alquanto annoiati.
Non volemmo neppure raccogliere un esemplare dei detriti bianchi, lucenti ed untuosi, che, sparsi lungo il sentiero, ci avevano fatta lubrica l’ascesa, e discendemmo súbito, con precauzione, per non scivolare fra i rifiuti sdrucciolevoli del minerale.
Se non avessimo avuto la necessità di assicurar bene i piedi, avremmo potuto godere la bellezza del primo braccio di Valmalenco, visibile quasi completamente dal nostro poggio nudo; ma, preoccupati come eravamo dal cammino, ci dovemmo limitare ad occhieggiar furtivi; accontentandoci di intravedere sotto di noi la conca, il fiume, e, a tratti, lontano, la cortina verde sfumata della montagna opposta.
Ci abbagliava anche il sentiero, che, seminato da fitti pezzi di steatite, incastrati e levigati per il passaggio continuo degli operai, luceva nel sole come originalissimo mosaico, materiato d’irregolari piastre d’argento.
Dopo un quarto d’ora apparvero il campanile, gli esili comignoli, e le case gentili di Torre.
S’attraversò il ponte di ferro sul Mallero, e, poichè il pericolo di capitomboli era passato, s’aperse la stura alle solite chiacchiere giulive, in fondo alle quali c’era però sempre una grande tirata poetica e sincera sulle suggestive visioni godute.
Camminavamo verso Caspoggio, con intenzione di fermarci a mezza strada, e precisamente a Castello, per riposare nei boschetti che l’attorniano, facendola deliziosa come un giardino pubblico di città.
Dinnanzi a noi il viale, bellissimo nell’ombria regolare e verde, s’allungava diritto con mite pendio ascensionale, ed invitava, per la facilità della strada, per la frescura e la quiete, a colloqui intimi e dolci.
La leggera ventilazione, profumata dal sano aroma dei larici, e la penombra, rotta qua e là da vive macchie di sole, misero in fuga la nostra poca stanchezza, ed infusero un desiderio loquace al mio buon amico Radice, che mi prese sotto braccio e mi fece consapevole di certe sue riflessioni sul bel paese circostante.
Le approvai tutte, una per una, e, quando egli s’inginocchiò davanti un torrentello, per bere un po’ d’acqua limpida e ghiacciata, non potei a meno di ricordargli:
“O se si fosse giù alla Cantina Enologica!...”
Bastò l’accenno perchè Piero, rialzatosi, tornando a prendermi sotto braccio, incominciasse
Villini d'affitto a Chiesa
a parlare delle ricchezze di Valtellina e della prima parte di Valmalenco.
“Senti!” mi disse, poichè avevamo raggiunto il bivio arborato detto Castello, per quanto di Castello non ci sia più traccia; “diamo un’occhiata intorno, poi sdraiamoci qui, sotto la strada: ti leggo quel mio articolo sulle ricchezze valtellinesi che ho promesso al giornale. Vuoi?”
“Per bacco!”
Ci buttammo sull’erba.
Dalla conca saliva il soffocato strepitare del fiume; al di là, fra gruppo e gruppo d’alberi biancheggiava Chiesa, sopra ergevasi il grande albergo e, in cima alla sinuosa linea del poggio, a piè dei Corni per nulla minacciosi, spiccavano Primolo e i tetti di qualche frazione sperduta fra i pini.
Or sì, or no, per il moversi lento delle rame, apparivano anche i villini Pesenti, fra Chiesa, l’albergo e la torreggiante farmacia Racchetti. Dipinti a striscio colorate, che la lontananza velava, e circondati dalle verande fresche e fiorite, essi graziosamente superavano il poggio e l’elegante semplicità della costruzione spiccava, nitida ed armonica, sul verdeggiar dello sfondo.
“Guarda,” dissi all’amico mio, accennandogli i villini d’affitto, “non sono piccoli paradisi terrestri?”
“Davvero!” rispose Piero ammirando.
Ma il vento scosse, e scompigliò le rame degli alberi; la visione scomparve e l’amico mio cominciò a leggermi l’articolo promesso:
Il treno elettrico che risale la valle dell’Adda da Colico fino a Tirano, tenendosi per quasi l’intero percorso sulla sponda destra del fiume ed a ridosso della catena di monti che si estende dalla Valle del Mera alla Val di Poschiavo. sembra al viaggiatore, sporto curioso dal finestrino, che corra unicamente entro un vigneto. Un vigneto, per altro, ben diverso da quelli alla cui ombra benefica noi amiamo ripararci nelle nostre campagne della bassa Lombardia, che crescono in alti pergolati, densi di pampini larghi, tra cui occhieggiano doviziosi i grappoli d’oro. Poca ombra dà la vite valtellinese: si avviticchia a basse spalliere regolari raccogliendosi in aggrovigliamenti fitti di cirri di pampini e di grappoli, gelosa quasi di sè e come desiderosa di occupar poco spazio. Viste un po’ da lungi, dal piano fino a mezza costa sul monte, dal finestrino del treno che corre rapido per la vallata, queste spalliere danno un’impressione strana: di ricchezza che ami piuttosto celarsi che espandersi, di forza racchiusa e consapevole che non voglia dare spettacolo di sè e che abborra da ogni esteriore appariscenza.
Tale è anche il carattere delle popolazioni di qui. Una agiatezza sobria e pacata, senza grandi pretese e senza ambizioni eccessive, è diffusa tra le genti che popolano la grande valle dell’Adda e le confluenti valli del settentrione e del mezzodì: molti dei signori che nei mesi estivi ed autunnali si recano quassù e si spargono fra i monti che ascendono verso l’Engadina e verso il Tirolo da una parte che separano dall’altra la Valtellina dalle valli della Bergamasca, possono invidiare la condizione economica di questi valligiani e di questi montanari. Ognuno sa il fatto suo e, senza che appaia, ha da parte il suo gruzzolo: hanno poche parole, ma ogni loro parola è salda come un greppo delle loro montagne: sono lenti, ma tenaci: sembra che la natura li abbia foggiati secondo un ritmo ampio e costante, per avere in essi o cooperatori sicari e validi o nemici degni della sua grandezza e della sua potenza.
Sondrio è ben degna di essere il capoluogo di una provincia di siffatti abitanti: città industriosa per eccellenza, non aliena da una certa eleganza, per quanto semplice e modesta, essa siede nel cuore di questo vigneto che è la bassa Valtellina. A vederla dall’alto, salendo o ridiscendendo per Valmalenco — la incantevole valle del Mallero sulla cui foce Sondrio è costruita — essa offre il medesimo spettacolo di ricchezza e di forza non chiassosa nè appariscente che già le vigne avevano offerto al viaggiatore proveniente da Colico: le due grandi ali in cui la città appar divisa, si raccolgono intorno alla stazione come intorno al loro centro naturale di vita: i fabbricati non troppo grandi, ma puliti, chiari, netti, lieti ed arridenti quasi quando il sole li inonda di luce, sono costruiti coni una regolarità, specialmente nell’ala ovest che è la più recente, simile a quella — il parallelo mi ritorna insistente e spontaneo — con cui sono disposte le spalliere di viti sulle falde dei monti: ed intorno intorno le prime colline, che man mano s’inalzano per diventare i giganti ghiacciati della Bernina e del Disgrazia, chiudono alle spalle la città costituendo come un semicerchio verde di cui essa s’inghirlanda e si abbella.
È in questo semicerchio che si raccoglie quanto di più prelibato la vite valtellinese possa dare: Sassella, Grumello, Inferno sono nomi troppo noti perchè sia opportuno qui illustrarli: i vini che portano il nome di queste località sono tra i più squisiti, e non solo di Lombardia; e sono essi che costituiscono la ricchezza maggiore di Valtellina: l’esportazione che se ne fa, quasi completamente in Isvizzera, è grandissima: relativamente scarso invece è il consumo che ne vien fatto in Italia.
A Sondrio una cooperativa enologica ha, si può dire, il monopolio di questi vini: essa è che acquista i migliori raccolti d’uva e che produce i tipi più costanti e più fini del rosso e giocondo liquore: essa è che provvede poi quasi tutta la valle e che fornisce ai principali alberghi della Svizzera quei vini che poi là si pagano quattro o cinque lire la bottiglia.
Grazie alla cortesia del canonico Spini — gentilissima persona che ebbi la fortuna di conoscere qui — potei visitare in uno di questi giorni la cooperativa enologica, ed ammirarne la vasta cantina, capace di ben 20000 ettolitri, Divisa in due piani sovrapposti, questa cantina è davvero una delle più interessanti che io abbia mai visto; è vero che io non sono un enologo nè.... un frequentatore assiduo di cantine, e che quindi la mia pratica in proposito è assai limitata: ma credo che, per modernità di sistemi, per praticità e comodità di mezzi, poche cantine sieno superiori a quella della Enologica di Sondrio.
La cosa più interessante e che il cantiniere fa notare con maggior compiacenza ai visitatori è una vasta botte murata, rivestita all’interno di cristallo: essa conserva inalterato il vino per lunghissimo tempo, ed è, a quanto assicurava la nostra competentissima guida, una maraviglia del genere. Ci furono mostrate altre vastissime botti, intitolate a Bacco ed a Noè (perchè anche le botti hanno il loro nome) ma il clou di quella nostra breve visita fu costituito — occorre dirlo? — dall’assaggio che la guida volle assolutamente facessimo dei vari tipi di vino valtellinese. Chi ha pagato quattro lire una piccola bottiglia di vin d’Inferno su all’Ospizio della Bernina, vede con gioia grande spillare dalla botte il simpatico liquore che ha il color del rubino e la trasparenza dell’ambra, e si appressa a berlo sicuro della sua genuinità, lieto di pagarlo poco più di un quarto di quello che non gli sia costato di là della frontiera. Giuseppe Nolli, il giovine poeta dell’Epica d’Oriente, buon intenditore e deglutitore di vini, il quale mi accompagnava in quella visita, si ritenne in dovere di aggiungere una lauda a quelle del cielo, del mare, della terra e degli eroi, e fa naturalmente la lauda del vino. Non meno di un poeta, infatti, ci vuole per descrivere le sfumature delicate per cui si differenzia il Sassella dal Grumello, o dall’Inferno, questi tre vini fatti di nervi e di muscoli, se si può dir così, senza adipe ingombrante e senza flaccidezza inutile: vini leggeri e forti, di una forza — come è in tutte le cose e in tutti gli uomini di queste contrade — che non si rivela che a gradi, ma che è tenace ed invincibile. Di pari pregio e di pari bontà, il Sassella, il Grumello e l’Inferno si arrendono al palato con un sapore che nel primo è più delicato, quasi direi più aereo, per prendere maggior consistenza nel secondo e più nel terzo.
Preferire l’uno all’altro è difficile: è questione di gusti e de gustibus non est disputandum.
È un peccato che la maggior parte di questi vini prenda la via dell’estero e che in Italia i vari tipi di Valtellina sieno così poco apprezzati e trovino così scarso consumo. Ciò dipende indubbiamente anche dal costo elevato, venendo a pagarsi qualche anno il Sassella od il Grumello cento, centoventi e perfino centocinquanta lire all’ettolitro; e, mentre in Isvizzera chi vuole del vino buono è disposto generalmente a pagarlo bene, da noi i prezzi a cui ascende il Valtellina dopo il trasporto che richiede cure infinite, sembrano esorbitanti. Inoltre l’esportazione di questi vini in Isvizzera ha una storia antichissima, praticandosi su larga scala anche nei secoli passati quando le grandi strade internazionali del Maloia e della Bernina non esistevano ancora: il commercio si praticava allora per il passo del Muretto, forte depressione tra il Disgrazia e la Bernina per cui dalla valle dell’Adda si passa all’Engadina; nelle antiche carte del municipio di Sondrio è notata anzi la consuetudine, come rilevo dalla recentissima guida del prof. Brusoni, di regalare una soma di vino a chi per il primo dopo il disgelo, fosse passato dal Muretto nel Canton dei Grigioni con un mulo carico del prodotto dei vigneti valtellinesi. Si vede dunque che la Svizzera è il mercato naturale di questi vini ed i produttori di qui hanno tutto l’interesse a favorire l’esportazione.
Dei suoi vigneti il contadino valtellinese ha una cura gelosa: specialmente nella plaga compresa tra Berbenno e Ponte — che è la regione che circonda per alcuni chilometri Sondrio — la vite è coltivata su per i dossi della montagna fin dove è possibile, fin dove il clima è abbastanza caldo per farla maturare in grappoli densi. E l’impressione di ricchezza e di forza che desta nel viaggiatore affacciato al finestrino del treno che corre rapido per l’ampia vallata, è un’impressione che poi l’esperienza e l’osservazione più accurata non possono che convalidare ed approfondire nello spirito.