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Ci abbagliava anche il sentiero, che, seminato da fitti pezzi di steatite, incastrati e levigati per il passaggio continuo degli operai, luceva nel sole come originalissimo mosaico, materiato d’irregolari piastre d’argento.

Dopo un quarto d’ora apparvero il campanile, gli esili comignoli, e le case gentili di Torre.

S’attraversò il ponte di ferro sul Mallero, e, poichè il pericolo di capitomboli era passato, s’aperse la stura alle solite chiacchiere giulive, in fondo alle quali c’era però sempre una grande tirata poetica e sincera sulle suggestive visioni godute.

Camminavamo verso Caspoggio, con intenzione di fermarci a mezza strada, e precisamente a Castello, per riposare nei boschetti che l’attorniano, facendola deliziosa come un giardino pubblico di città.

Dinnanzi a noi il viale, bellissimo nell’ombria regolare e verde, s’allungava diritto con mite pendio ascensionale, ed invitava, per la facilità della strada, per la frescura e la quiete, a colloqui intimi e dolci.

La leggera ventilazione, profumata dal sano aroma dei larici, e la penombra, rotta qua e là da vive macchie di sole, misero in fuga la nostra poca stanchezza, ed infusero un desiderio loquace al mio buon amico Radice, che mi prese sotto braccio e mi fece consapevole di certe sue riflessioni sul bel paese circostante.

Le approvai tutte, una per una, e, quando egli s’inginocchiò davanti un torrentello, per bere un