In Valmalenco/Capitolo XXI

Capitolo XXI. Sulla piramide.

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Capitolo XXI. Sulla piramide.
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Sulla piramide.


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XXI.


Grandissimo era in me il desiderio d’arrampicarmi sulla piramide superba del Pizzo Scalino.

Non mi fu difficile trovare una guida, poichè un giovane studente di Caspoggio, praticissimo della montagna s’offerse di condurmi per la strada più facile e breve.

Partimmo un dopo pranzo da Lanzada, e, seguendo il già conosciuto sentiero che conduce a Campo Franscia, Alpe Palù e Campaccio, arrivammo all’Alpe Prabello, dove, in una baita gentilmente concessa, passammo la notte.

La mattina seguente, all’alba, ripigliammo la strada, coll’ossa un po’ rotte per il disagevole riposo notturno.

La mia guida aveva deciso di costeggiare il fianco sinistro del Pizzo e di attraversare il ghiacciaio, che i montisti ci avevano assicurato praticabilissimo: io non opposi alcuna obbiezione. [p. 216 modifica]Mi disse però che non mancava un’altra via facile, seguire cioè il lato destro, verso la Val di Togno, dove, per lo meno, non c’era pericolo di sdrucciolare in qualche crepaccio.

Preferii la strada del ghiacciaio, risovvenendomi il maraviglioso spettacolo che mi aveva offerto il Pizzo d’Argento, e la marcia incominciò súbito, per mezzo un bel piano verdeggiante, sul limite del quale, dopo mezzo chilometro di cammino, ci fermammo entrambi, col naso in su, a considerar la salita erta che pareva sfidarci.

Un attimo di riposo e attacchiamo con lena: per un’ora si ansa trafelati, con fuori un palmo di lingua, senza darci tregua, senza parlare, guardando la gran roccia che vogliamo raggiungere e dietro la quale abbiamo la certezza di trovare il ghiacciaio.

E su, su, in mezzo al terreno morenico; finalmente s’arriva alla roccia bizzarra e grande che vien chiamata Cornetto, a motivo della sua forma al di là di essa, ecco il ghiacciaio che attende il bacio del sole, e, in fondo, la punta bitorzoluta del Pizzo, che ha la croce e l’estremità, immersa nei primi raggi d’oro.

Spettacolo conosciuto certo, ma sempre grandioso e poetico, dinnanzi al quale ci soffermiamo rattenendo momentaneamente il respiro, coll’ansia di vedere, e col timore di perdere troppo presto la visione mirabile.

La cresta, adagio adagio, sembra salire adergendosi in un fascio sottilmente nebbioso di luce, il sole entra per i crepacci, sfiora i cigli, i [p. 217 modifica]culmini, le creste, gli scrímoli; brilla sugli umidi e rari ciuffi d’erba selvatica, proietta ombre e, finalmente, è sul ghiaccio.

Allora ecco piccoli guizzi luminosi, che assomigliano al riverbero e al rifrangersi del sole, battente contro frantumi di specchi; guizzi per i quali noi vediamo tutta la gamma della luce scintillare in cerchietti spasimanti, traversati da diametri che s’allungano e súbito impiccioliscono ad ogni nostro battere di ciglia, ad ogni nostro inavvertito movimento oculare, e che sono rossi, azzurri, gialli e tutti insieme danno al piccolo cerchio guizzante, la fantastica bellezza di una stella multicolore.

E tutto il ghiacciaio è fatto di miriadi di stelle multicolori, e ogni stella è un piccolo occhio che s’apre per ricevere la luce del sole: questo è il secreto del ghiacciaio, questa è la sua bellezza: immaginiamo tutta una distesa di piccole stelle, di occhietti, tutti questi centri di luce viva e diversa che ho visti, che ho dentro me fulgidissimi, ma non so rendere splendidi nel descrivere, e noi avremo la maraviglia delle nevi perpetue e dei geli.

Mi soffermai ad osservare a lungo, a lungo... Il sole, sfiorate instellando le prime creste di ghiaccio, allargava ed allungava la sua zona di luce e di bellezza, e tutto era un occhieggiare iridato, ogni punta, ogni filo, ogni granello, ogni molecola, ogni atomo di tutta la massa ghiacciata era la sintesi brillante di un arco baleno.

Mi soffermai finchè il sole ebbe illuminato [p. 218 modifica]Affaticatici un’ora e mezza circa nelle nevi, ci afferrammo alla roccia nuda, ci inerpicammo, aiutandoci vicendevolmente nei passi difficili, e


Il Pizzo Scalino

fummo, in breve, alla cima della grande piramide e precisamente ai piedi della croce.

Qui è necessario riposare, perchè la stanchezza non ci permette di ricevere, dal panorama che abbiamo d’intorno, tutta quella impressione che se ne può e se ne deve ritrarre. [p. 219 modifica]

Ci accoccoliamo al sole, coprendoci del nostro meglio con le giacche, e raggomitolandoci, il più possibile, sotto il piedestallo della croce per metterci al riparo dai venti, che ci investono e ci sferzano; ma non possiamo resistere.

Discendiamo per cercare un vano, una costa più riparata, e, trovatala, torniamo a raggomitolarci.

Voglio riposare: non posso; guardo troppo dinnanzi a me il mare delle montagne verdi, grigie, bianche, azzurre; che si distendono a perdita d’occhio, quasi tutte sotto il Pizzo Scalino, e non so resistere alla tentazione di vedere: risalgo.

M’arrampico sul basamento della croce, mi afferro al tronco di essa, che il vento scuote a tratti, ed osservo.

A nord e a nord-est infiniti cocuzzoli di montagne, che si vanno mano mano perdendo e confondendo nell’orizzonte celeste, formano il gruppo centrale delle Alpi Retiche; e, frammezzo a catena e catena, distintamente si vedono le valli di Poschiavo, di Livigno, di Forame, di cui, la prima sbocca a Tirano, e, le altre, a Ponte Valtellina: bellissima specialmente quella di Poschiavo che mi ricorda la sua cittadina fiorita di geranî, di garofani ed il suo lago e Selvapiana e Brusio gentile.

Ad est e a sud altre infinite linee di monti; fra le quali, più o meno visibili, quelle di Pizzo Canciano, del Gardè, del Saline, del Painale, della Cima Vicina: scorgo pure le valli di Togno; tutta la parte superiore di Valmalenco, con a fianco il [p. 220 modifica]gruppo della Disgrazia, fulgente nei ghiacciai e nei culmini di Pizzo Bello, e le Alpi Orobiche fino al Legnone.

Verso ovest invece la mia visuale è, relativamente, limitata dal massiccio della Bernina, pure fiammeggiato per il sole; dalle montagne Rosse; e, in modo speciale, dal ghiacciaio di Scerscen inferiore e superiore, visibile in tutta la sua estensione, rispetto al quale il piano gelato dello Scalino non è che un pupazzo bianco e rugoso, un pigmeo che non può e non deve mettersi ai paro coi giganti.

E guardo ancora e il vento par mi voglia strappare la giacca, i cui lembi svolazzano garrendo nell’aria: la croce ha un movimento ondulatorio, che si accentua a tratti, ed io, che le sto fortemente attaccato, seguo l’ondulazione breve, che dà piccole scosse, e sento ognuna di esse preceduta, accompagnata, seguita da un soffio lungo, impetuoso, che mi sibila nell’orecchie e mi rinfresca i garretti.

Ed è novissima e strana una fantasticheria che mi prende lassù, sospeso a mezzo cielo e strette a quella croce che ciondola: mi credo abbrancato all’albero maestro di una nave, intorno alla quale, per incantesimo, si sieno solidificate le onde; e, l’impressione è così profonda, ch’io attendo, da un momento all’altro, un piombar generale, fragoroso di creste; poi un arruffio candido ed uno scatenarsi ed inarcarsi di giganti nuovi, flessuosi, altissimi; tutto un mare ribelle, con vere montagne per marosi e vere valli profonde fra un cavallone e l’altro. [p. 221 modifica]

Le montagne, fortunatamente, non rovinano, non accennano neppure a muoversi un poco; rovina invece la mia visione fantastica e si muove, con più accentuata misura, la croce che mi regge. Sono diventato un pendolo inverso e le oscillazioni sembrano matematicamente isocrone; anzi mi par d’essere trasformato in un metronomo di nuovo genere, e batto il tempo, e sono battuto dall’aria, che mi arriva alle natiche, con una pressione fra lo schiaffo e la carezza, come la mano arguta e desiderosa di un satiretto.

Ma, dei satiri voluttuosi è meglio non fidarsi; io do uno sguardo scrutatore alle ultime montagne verso ovest, che chiudono in parte la Val Bregaglie e l’Engadina superiore, mi raccolgo le falde svolazzanti della giacca, mi accarezzo e riscaldo, prima con una poi con l’altra mano, il treno posteriore intirizzito, e, discendo.

La mia guida studente ha già preparata la colazione al riparo dei venti, io le trovo un riparo migliore nello stomaco; poi ci mettiamo, serenamente, a discorrere sui più comuni fenomeni dei ghiacciai, sul loro muoversi, ritirarsi, discendere, sulla corrosione, gli spaccamenti, le fonti che producono; sulla fauna e sulla flora che ha vita in essi.

In modo speciale parliamo della flora che ci mette nell’anima il desiderio di cercare le stelle alpine.

Uno sforzo; si è in piedi: afferriamo di nuovo l’alpenstok, risaliamo per dare un addio ultimo alle cime maestose delle Alpi Retiche, che [p. 222 modifica]sembrano, come ha detto Carducci per altri monti, rincorrersi fra loro e tentiamo di tagliar diritto giù per la piramide, verso il passo di Canciano, dove la guida ha raccolto, altre volte, un numero grande di stelle.

Appena sotto il cocuzzolo piramidale della vetta dove c’è un terrazzo irregolare, ecco, distribuiti in ciuffi bianchi, i fiori dell’Alpe: ci chiniamo a raccoglierli, per sentirne la morbidezza di velluto, e osserviamo, con interesse minuzioso, da una parte, dall’altra, il fiore, il gambo, anche le foglie esili e pelose che son piccole lancie d’argento. Il ciuffetto, uscito appena dal suolo, irraggia qualche ramello, nè erbaceo nè legnoso, di un color verde chiaro, reso bianchiccio da una lanuggine che lo riveste e che, forse, ha l’ufficio di ricevere l’impressioni del freddo, dell’umido e di ritenerle perchè non danneggino l’arbusto.

Messe a spirale sul ramoscello s’innestano le foglie lanceolate, che decrescono di grandezza salendo verso il fiore, perchè egli solo, con la sua corolla raggiata e candida pompeggi, perchè egli solo mostri, in mezzo al bianco dei petali, il pallido giallognolo degli stami, recinto da fili piccoli, oscuri.

Guardo questa creazione bellissima della natura, così morbida al tatto e gentile, per la forma, all’occhio; e mi par impossibile che non debba avere profumo. Metto il naso fra i raggi che mi vellicano mollemente e odoro: nulla, neppure una sottile emanazione che lo caratterizzi: la [p. 223 modifica]stella alpina è, per rientrare nella vita umana, una donna che non sente; bella e fredda; senza anima.

Se io dovessi passare accanto ad una di queste donne, senza poterla risvegliare con l’ardenza della mia giovinezza, senza poter trasfondere nella sua anima il profumo che inebria la mia vorrei, così per capriccio, mandarle un mazzo di edelweiss. Le invierei anche una melodia di Antonio Ascenso, amico mio carissimo, nella quale c’è uno sconforto così ineffabile e dolce, un senso d’angoscia così acuto e soave, che commove, e che, forse, potrebbe più della mia giovinezza e del mio troppo discutibile profumo.

Trascrivo i pochi versi della melodia dolorosa e gentile.

Sono del d’Isengard.


     Degli eterni ghiacciai, candido fiore,
Perchè non hai fragranza?

Alla domanda, la stella alpina risponde con semplicità lagrimosa:


     Perchè natura mi vietò d’amore
Le gioie e la speranza!

La canto.

L’eco risponde alla mia voce che ha tentato di rendere la tristezza melodica della composizione, ed io, l’anima naufragante nella dolcezza di cui la musica m’innonda, specialmente se così delicata e sentita, ridiscendo, commosso. [p. 224 modifica] La guida mi sgrana con gli occhi sbarrati e spalanca tanto di bocca: io penso che, se al suo posto, ci fosse il maestro e la donna bella, fredda, l’uno mi darebbe una tirata d’orecchi l’altra diventerebbe di ghiaccio.