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brano, come ha detto Carducci per altri monti, rincorrersi fra loro e tentiamo di tagliar diritto giù per la piramide, verso il passo di Canciano, dove la guida ha raccolto, altre volte, un numero grande di stelle.
Appena sotto il cocuzzolo piramidale della vetta dove c’è un terrazzo irregolare, ecco, distribuiti in ciuffi bianchi, i fiori dell’Alpe: ci chiniamo a raccoglierli, per sentirne la morbidezza di velluto, e osserviamo, con interesse minuzioso, da una parte, dall’altra, il fiore, il gambo, anche le foglie esili e pelose che son piccole lancie d’argento. Il ciuffetto, uscito appena dal suolo, irraggia qualche ramello, nè erbaceo nè legnoso, di un color verde chiaro, reso bianchiccio da una lanuggine che lo riveste e che, forse, ha l’ufficio di ricevere l’impressioni del freddo, dell’umido e di ritenerle perchè non danneggino l’arbusto.
Messe a spirale sul ramoscello s’innestano le foglie lanceolate, che decrescono di grandezza salendo verso il fiore, perchè egli solo, con la sua corolla raggiata e candida pompeggi, perchè egli solo mostri, in mezzo al bianco dei petali, il pallido giallognolo degli stami, recinto da fili piccoli, oscuri.
Guardo questa creazione bellissima della natura, così morbida al tatto e gentile, per la forma, all’occhio; e mi par impossibile che non debba avere profumo. Metto il naso fra i raggi che mi vellicano mollemente e odoro: nulla, neppure una sottile emanazione che lo caratterizzi: la