In Valmalenco/Capitolo IX
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Ansie scientifiche.
La mancanza di una guida particolare di Valmalenco costringe il viaggiatore a visitare soltanto i luoghi citati dalla vecchia e dalla novissima guida di Valtellina, o ad arrischiare, a sue spese e pericoli, quelle escursioni, siano di indole semplicemente podistica od abbiano intenti scientifici, che gli devono far conoscere esattamente il paese.
Qualche volta succede di sprecare tempo e danari, qualche altra s’è invece fortunati, nell’un caso e nell’altro però si sente sempre la necessità della guida predetta; la quale, mi assicurano, si sta ponzando da anni e, forse, vedrà presto la luce.
Mi sembra inutile raccomandare a chi la compilerà di spicciarsi, e di essere ampio ed esatto nelle notizie, preciso e diligente nelle descrizioni e, se è possibile, di dare anche tutte quelle notizie che riguardano, più o meno direttamente, le scienze e gli studiosi di esse.
Edificio grandioso al quale, non per merito mio, porto una curiosa mattonella, che mi lusingo ne faciliterà incerto piccolo modo la costruzione.
Già qualche volta s’erano richieste al curato di Lanzada notizie del paese; e fra gli altri, il professore di storia naturale signor Besta e il dottore signor Koderman, avevano insistito per Panorama di Chiesa. sapere qualcosa di una certa grotta, posta poco sopra Tornadri, di cui parlava la vecchia guida della Valtellina.
Il buon prevosto di Chiesa, borgata che par adagiarsi sopra un giardino pensile, proprio nel cuor della valle, ci disse quel po’ che sapeva: così racimolata alla meglio qualche vaga indicazione, sentito che l’ingresso era stato otturato con sassi, spinti per ultimo dal desiderio di conoscere questa cavità, che poteva avere un’importanza scientifica, il professore e il medico decisero di ricercarla dapprima e, se era cosa possibile, d’entrarvi.
Accettato a far parte della curiosa spedizione, non potei che ideare e precorrere, con la fantasia, le diverse emozioni che doveva presentarci la gita.
Diventavo improvvisamente esploratore, pioniere; sentivo che sarei stato capace di farmi calare giù fino a chi sa quale profondità, pure di scoprire alcunchè di nuovo e di utile; in ispecie mi faceva impressione il pensiero di assistere all’apertura della grotta, ai preliminari per entrarvi.
Essere costretti, per esempio, ad abbruciare qualche rama di pino, per capire se l’aria era respirabile; ad entrare con delle fiaccole accese, che si dovevano riflettere nelle volte di cristallo con innumerevoli scherzi di luce; magari a legarsi per non perder la via nei meandri del sotterraneo: poi ritornare, parlarne, scriverne, passare, ove ci fosse stata una scalfittura, per un martire della scienza; tutto questo, i lettori forse non crederanno, mi metteva addosso un’ansia che chiamerò scientifica.
Con tale sentimento, per me nuovissimo, nell’anima, balzai da letto la mattina destinata alla ricerca della grotta, qualche ora prima del necessario. Il tempo era piuttosto coperto, avrebbe potuto piovere da un momento all’altro, ma la gita non fu rimandata; anzi, appena arrivati a Tornadri, perchè tutto riuscisse a seconda, si domandarono al sindaco le ultime informazioni e ci si fece accompagnare da una persona del luogo.
A mezzo la salita della Lua, e precisamente dieci passi innanzi una specie di nicchia naturale, dove la devozione dei fedeli ha posto un Sant’Antonio col Bambino; la nostra guida depose la zappa e il badile, guardandoci coll’aria di chi dice: „ci siamo“.
Noi demmo un’occhiata curiosa all’intorno, e, scavalcato il piccolo muricciolo che fiancheggia sul lato sinistro la strada, e, ben assicurati i piedi sulla china ripida e sassosa, ci chinammo a guardare nelle fessure, tra pietra e pietra sperando di intravedere la grotta.
Il montanaro diè di piglio alla zappa e incominciò ad intaccare la parete: io mi sentivo battere il cuore, il medico osservava attentamente, il professor Besta invece esaminava la roccia.
Sembrò che l’esame non lo soddisfacesse, perchè, avanzatosi verso il montanaro, che lavorava indefessamente per aprire il passaggio, guardò scosse la testa e disse:
„Di qui non si passa!“
Infatti, anche dopo smossa e levata una roccia, apparve un foro quasi circolare, grande più che la testa di un uomo, e, nella semi-oscurità interna, un vano diviso quasi in cellette.
Tra l’una e l’altra si osservò una specie di cemento nella cui parte inferiore si erano formati degli allungamenti a guisa di capezzoli: eravamo quindi dinnanzi al principio degli stalattiti: con tutta probabilità, sotto quei cavi si apriva la vera e propria grotta: però da quella parte era impossibile entrare.
Il professor Besta aveva quindi ragione! Si stava pensando al modo migliore di allargar l’apertura, o di praticarne un’altra in posizione più accessibile, quando ci raggiunse un montanaro, carico di un doppio sacco contenente laveggi.
Comprese subito di che cosa si trattava e ci aiutò validamente nel rimuovere un grosso gradino della strada, sotto il quale si credeva di trovare l’orificio che ci permettesse il passaggio; invece, levato quello e rimossone un altro, tolto il materiale terroso e parecchi sassi ancora, con non poca fatica, ci dovemmo convincere che la cavità era per il momento inaccessibile. Però ci formammo la convinzione d’essere sulla volta della grotta e ci impadronimmo di quattro o cinque esemplari di stalattiti, non bellissimi, ma tali da figurare in qualunque buona raccolta.
La missione poteva quindi considerarsi fallita, il professor Besta manifestava un certo dispiacere, perchè, data la natura del suolo, segnata pure sulla carta geologica del Taramelli con il color rosa che indica lo gneis, non poteva capacitarsi, logicamente, della presenza di un grande strato di calce, che, mediante il filtrare delle acque, avrebbe potuto dar origine ad una grotta così detta d’erosione.
Egli stesso ammise che forse la grotta, se c’era, aveva potuto essersi formata per frattura o litoclasi, come è scientificamente chiamata: fatto sta che le discussioni e le teorie erano troppo magro conforto, e che si sarebbe ritornati a casa malcontenti, se, così discorrendo, io non avessi avanzata l’idea di far tutta la salita della Lua, poi l’altro tratto piano, dove domina una grande croce, per ricercare (m’avevano assicurato ci fosse nella roccia viva) un gran buco, che poteva essere una marmitta dei giganti.
Infatti, passato il piano del crocifisso ed arrivati ad una cappelletta, dietro le indicazioni esattissime forniteci dal portator dei laveggi, pigliammo dei due sentieri che conducono in Campo Francia, quello a destra, e, fatti appena cento passi accorremmo ad una esclamazione del dottore che ci precedeva.
Sulla sinistra del sentiero, in una gran roccia liscia, si apriva un vano circolare, ingombro nel fondo d’erbe e di terra.
Eravamo proprio davanti ad una gran marmitta di giganti.
Dopo i primi commenti, il professore, che, come al solito, voleva farsi una ragione del terreno e del fenomeno e si guardava d’intorno studiando, lanciò un’esclamazione, così straordinaria per noi che conoscevamo la tranquillità dei suoi mezzi vocali e il metodo calmo d’usarli, che lo guardammo stupiti.
E fu una gradita sorpresa: il professor Besta aveva scorta un’altra marmitta e ce la indicava con la mano.
„Ci mancano i maccheroni, e poi...“ disse il dott. Koderman con un gesto che è unico in tutti i paesi... Il richiamo materiale ci ricordò la necessità di far colazione; la colazione a sua volta ci ricordò la vicinanza della caserma dei finanzieri, e questo doppio ricordo, trasformato da pensiero in azione, si portò giù nelle gambe e le mosse.
Fummo accolti dal giovane brigadiere d’Alatri con una cortesia ed una cordialità davvero grandissima. Ristorati completamente e accompagnati dal colto sott’ufficiale, ritornammo alle marmitte. Il dottore e il nuovo compagno vi entrarono incominciando a ripulirle con le mani, io corsi a pigliare un badile nella cava d’amianto vicina e il professor Besta rimase a consigliare, e, in certo qual modo a dirigere, la piccola squadra operante.
Così, in fondo, fra le macerie, si scoprirono i sassi che, presumibilmente, avevano, in epoche lontanissime, logorato la parete del masso e formata la conca. Essi si presentavano lisci, quasi tondi e noi, dopo averli puliti ed osservati, li rimettemmo nelle rispettive marmitte, dove avevano diritto a rimanere.
Poi il brigadiere ed il dottore, perchè il professor Besta l’aveva consigliato, liberarono i canali visibilissimi d’influsso e d’eflusso, e, seguendone uno di scarico, quello della prima marmitta scoperta, si trovarono un po’ impacciati a proseguire. Un mucchio enorme di sassi provenienti dalla cava, copriva il canaletto. Liberarlo era cosa impossibile, pure lo tentammo senza darci pensiero del sole, tergendoci il sudore col dosso della mano, e cacciando con súbiti schiaffi, giù giù dagli abiti, certe grosse formiche alle quali avevamo distrutta la casa.
E si lavorò così faticosamente, spinti dalla speranza che al di là del canaletto, il quale incominciava ad allargarsi tondeggiando, ci fosse una terza e forse più bella marmitta.
Ma la stanchezza ci vinse, riposammo un poco sull’erba, e, poi che il tramonto era imminente, si riprese la via del ritorno.
Tuttavia la fatica e l’opera nostra non era stata perduta e se qualcuno, seguendo il consiglio della guida in fieri, o le indicazioni da me fornite, visiterà le marmitte, o cercherà la grotta dei quarzi, si ricordi, con una certa riconoscenza, del professor Besta che ha diretto, del dott. Koderman e del brigadiere d’Alatri che hanno sudato, e, se non gli par troppo, anche di chi ha descritto, e prepreventivamente ringraziando, sorride.