In Valmalenco/Capitolo VIII
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Cronaca di paese.
VIII.
Domenica scorsa, il diavolo ci mette sempre la coda, proprio quando tutti si sedevano, chi fuori della chiesetta di Ganda, fra i sassi, chi dentro, sulle piccole panche per ascoltare a metà messa la predica, ecco che, da lontano, sulla strada, s’alza un polverio con qualche cosa di candido nel mezzo, e s’ode quel trombettamento tanto abituale in città, che indica l’avvicinarsi di un’automobile.
Quelli che erano rimasti sul sagrato si volgono, parecchi gomiti si toccano, molte faccie si maravigliano, qualcuno sorride e bisbiglia una parola che è ripetuta da mille bocche, e passa storpiata fino alle prime file, promovendo un principio d’esodo, frenato dagli sguardi imperativi del canonico che spiega il vangelo.
Ma ormai l’attenzione è fugata, e, sbirciando nell’interno della chiesetta, io non vedo che delle teste in movimento: sull’altare, fiammeggiati dai ceri, spiccano i capelli biondo-castani del cappellano e la sua faccia in quel momento rossa per la foga del dire.
Ma la parola si perde nell’irrequietezza dei fedeli, e le invettive lanciate contro quelli che non sapranno mantenere la purezza delle loro opere, e il castigo eterno, infinito, fiammante, che avvamperà sopra, sotto, intorno a coloro che non ascoltano il sacerdote, non produce l’effetto voluto, muore soffocato da un... nugolo di polvere, animata dal caratteristico puf, puf, tè, tè...
E là in fondo, sotto il lume, vedo la testa del prete che si scuote per convincere, scuotendo anche i riccioli che l’abbellano, sento il bisbiglio dei parrocchiani e ne comprendo il desiderio, che diventa più intenso, coll’avvicinarsi dell’automobile polverosa.
Sono ben pochi quelli che lasciano il sagrato per muovere sulla strada che batterà il congegno bianco e bello come un’apparizione; tutti gli altri, per quanto lo seguino e lo divorino con gli occhi, non si muovono; qualcuno dei ragazzi trema, è invaso da una paura inesplicabile, pensa alle leggende della nonna piene di dèmoni e di fate, e si stringe, si raggomitola quasi, fra le gonne materne, arrischiando uno sguardo timido verso il mostro che si avanza corrusco, come armato di mille falci, pronto a tagliar la nube che lo circonda, forse forse (pensa il bambino) a mozzargli la testa.
Altri invece rimane incantato, a bocca aperta, nella nota posizione ferravilliana del vilan che s’inürba; le donne, quelle sono sempre le stesse in tutti i paesi e per tutte le cose, allargano le braccia nell’atto di esclamare: “Gesù Maria!” e poi si mettono a parlare fra loro, a gestire, a fare, come dice il Guadagnoli nel suo poemetto Il Naso, una casa del diavolo in miniatura.
Ed è a mezzo del cadenzato discorso del cappellano, fra tutto questo buscherio, sopra il quale, noi, villeggianti milanesi, lanciamo uno sguardo di compatimento, che l’automobile passa superbamente trombettando e scompare.
Quelli però che si sono spinti sulla strada lo accompagnano cogli occhi e qualche ragazzo, scossa via la paura lo rincorre chiamando la bella siorina che si volta e saluta, mentre la macchina sbuffa.
Dietro l’automobile, che tenta la salita, non rimane che una nube e una piccola striscia d’acqua; qualcuno dei montanari la tocca, mentre gli altri annusano l’aria.
Nella chiesetta il cappellano ha terminato di parlare e si riprende il canto fermo alla romana, nel quale i ragazzi entrano talvolta con degli acuti stonati; molti occhi però guardano sulla strada bianca, scrutando, con la speranza di rivedere l’agile meccanismo volar giù per la china e di riprovare quell’impressione di paurosa maraviglia, che li aveva poco prima sconvolti.
Tutti sanno che la strada carrozzabile diventa a Tornadri un sentiero il quale s’inerpica tra i monti e sanno pure che Tornadri non può offrire a dei signori, che corrono con l’automobile, gli agi ch’essi hanno il diritto di pretendere; quindi non appena la messa è terminata, tutti, donne, uomini, ragazzi, muovono verso il fortunato paese dove si è certo fermata la macchina.
È una processione disordinata e più disordinate e più strane ancora, sono le risposte, le domande, le asserzioni, i dinieghi che s’incrociano e si moltiplicano da tutte le parti: tratto tratto una notizia meno scardinata delle altre viene pontificata da chi conosce già gli automobili da un pezzo, perchè li ha visti a Sondrio e forse a Milano; ma, passando di bocca in bocca, anche la notizia esatta si altera, e ne viene un pasticcio che farebbe ridere l’automobile, se lo potesse.
C’è una donna che annuncia come quella macchina possa levarsi da terra e volare, un’altra asserisce d’aver visto la siora e quell’uomo dal cappello aguzzo dimenar le gambe, e l’automobile a quell’atto correre di più. Un vecchio, trascinato suo malgrado incontro al congegno, crede ci sia sotto una diavoleria e non vuol troppo avvicinarsi. Ridono invece di tutti questi timori e cercano di spiegare come stanno le cose, quelli che hanno, sia pure in embrione, un’idea delle invenzioni ultime, specialmente del telegrafo Marconi.
In verità il telegrafo non c’entra con l’automobile, ma...
“Quello sì che scoperta!! che cosa è l’antromobile al paragone?”
“Del resto domandate là ai scioriti”, disse qualcuno rivolgendosi a noi.
Una mezza dozzina di persone ci si avvicinò domandandoci spiegazioni: noi ci guardammo in faccia, piuttosto impacciati; se c’è infatti una cosa difficile è quella di semplificare i più ardui risultati della meccanica, in modo da farli comprendere a montanari, che non ne hanno neppure un’idea.
Il pittore, che m’accompagnava, aveva già tolto dalla tasca un foglio di carta e una matita per disegnare lo schizzo, ch’io avrei del mio meglio illustrato, quando, all’angolo della strada, apparve la nube di polvere con in mezzo ancora l’automobile bianca, che avvicinandosi rallentò un poco la corsa.
Accadde qui una scenetta curiosa e gustosissima; la maggior parte di quelle persone che si erano mosse per incontrare la macchina, prese forse da un panico che non seppero frenare, spaventate dal pulsare forte e dall’ánsito potente della corritrice, temendo forse che li schiacciasse si diedero a scapparle dinnanzi, volgendosi ad ogni suono di trombetta, con gli occhi fuor dalla testa. Qualche madre, paventando per la vita del figlio, se lo strinse al seno saltanto giù nel piano sottostante alla strada (un metro e mezzo circa e sotto, per fortuna, c’è il morbido dell’erba), altri invece s’attaccò alle prime sporgenze che conducono alla Cima Sassa, voltandosi solo quando si credette completamente al sicuro da quel portentoso congegno, che, forse, avrebbe potuto raggiungerlo volando.
I rimasti sulla strada si schiacciarono quasi contro i parapetti, mettendo dinnanzi al ventre le mani, come pronti a riparare un imminente pericolo.
E l’automobile arrivò in mezzo alla sua nube di polvere, col suono ininterrotto della cornetta, passando quasi sui piedi a quelli che facevano ala ai due lati, e che si erano ristretti più ancora in se stessi, pallidi, stravolti.
Che emozione! poveretti! Essi guardarono dentro la vettura aspettandosi di vedere forse degli esseri diversi, soprannaturali, e invece scorsero proprio e soltanto una signora paffuta e sorridente; un uomo dal capello e dalla barba appuntita che guidava, fumando una sigaretta, e, dietro, con uno spavaldo copritesta, un giovanotto che salutò con la mano.
Pure l’essere soprannaturale che dirigeva l’automobile bisognava trovarlo; e si trovò nello chauffeur.
Quel vestito e quel berretto di tela cerata, e, per di più, quel rimanere appostato sul predellino della carrozza, colpì la fantasia dei lanzadaschi; era lui, certo, che dava il movimento, la vita, che faceva fremere il mostro, era nell’anima sua che la macchina attingeva l’émpito nelle salite e l’agile prudenza nel discendere; era per lui che nessuno aveva patito sfregio e tutti i piedi avevano conservato le dita e le pancie non erano state sfondate.
Bisognava quindi onorarlo.
Ma quando, dinanzi l’alberghetto di Gian Paolo, videro che l’essere soprannaturale tracannava a piena gola una bottiglia di birra, come qualunque altro semplice umano, l’opinione pubblica virò di bordo.
Quella deità così improvvisamente sorta, prima di aver terminato di nascere morì, ma al suo posto rimase l’automobile, sola padrona del campo che, inconsciamente, col suo macchinario, co’ suoi palpiti, che sembrano nascondere infiniti desideri, perfino col tè tè della sua cornetta ha incominciato ad operare nella mente di questi rozzi montanari una trasformazione lenta, che li avvierà certo incontro alle nuove e grandi visioni della vita.