Il tulipano nero/Parte seconda/IX
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IX
Il presidente Van Herysen.
Rosa lasciando Cornelio, aveva preso il suo partito; ed era, o di rendergli il tulipano rubatogli da Giacobbe, o di non rivederlo mai più.
Essa aveva visto la disperazione del prigioniero, doppia e incurabile disperazione.
E poi da un canto era una separazione inevitabile avendo Grifo a un tempo sorpreso il segreto del loro amore e dei loro convegni.
Dall’altro era il rovesciamento di tutte le speranze d’ambizione di Cornelio Van Baerle, e tali speranze nutrivale da sette anni indietro.
Rosa era una di quelle donne, che non si perdono mai di coraggio, piene di forza contro un male estremo trovano nel male medesimo l’energia per combatterlo, o la risorsa per ripararlo.
La giovanetta rientrò nella sua stanza, vi gettò un ultimo sguardo per vedere se mai si fosse ingannata, e se il tulipano fosse per disgrazia in un qualche cantuccio, e quindi sfuggito alla sua vista. Ma Rosa cercò invano: il tulipano non v’era più, il tulipano era stato rubato.
Fece un fagottino delle bricciche che le sarebbero necessarie, prese i suoi trecento fiorini di risparmi, cioè tutta la sua ricchezza, frugò sotto i suoi merletti, ov’era riposto il terzo tallo, se lo cacciò delicatamente in seno, chiuse la sua porta a doppia mandata per ritardare di tutto il tempo necessario per aprirla il momento, che si conoscesse la sua fuga, discese la scala, escì della prigione per la porta, che un’ora innanzi aveva dato l’egresso a Boxtel, si portò presso un affittuario di cavalli, e chiese la vettura di un calessino.
Il vetturino non ne aveva che uno: era per l’appunto quello affittato fin dalla vigilia a Boxtel, sul quale correva per la via di Delft.
Noi diciamo per la via di Delft, perchè bisognava fare un enorme giro per andare da Loevestein ad Harlem: a volo di uccello la distanza non sarebbe stata della metà.
Ma non vi sono che gli uccelli che possano viaggiare a volo in Olanda, paese il più intersecato da fiumi, da ruscelli, da canali, da riviere e da laghi di qualunque altro paese del mondo.
A Rosa dunque fu forza di prendere un cavallo, che le fu facilmente fidato: che il vetturino conosceva Rosa per la figlia del soprastante della fortezza.
Rosa aveva una speranza, ed era di raggiungere il suo espresso, buono e bravo giovinotto, che la condurrebbe seco e che le servirebbe al tempo stesso di guida e di appoggio.
Difatti non aveva corso ancora una lega, che ella lo scorse allungare il passo sopra una proda di una graziosa strada che costeggiava la riviera.
Messe il cavallo al trotto e lo raggiunse.
Il bravo giovane ignorava l’importanza del suo messaggio, e nulladimeno camminava come se lo conoscesse. In meno di un’ora aveva già fatto una lega e mezzo.
Rosa gli riprese il biglietto diventato inutile, e gli fece sentire che ella aveva bisogno di lui. Il navicellaio misesi a sua disposizione, promettendo dì andare quanto il cavallo, purchè Rosa gli permettesse di appoggiar la mano sulla di lui groppa o sulla spalla.
La giovinetta permisegli che appoggiasse la mano dove volesse, purchè non la ritardasse minimamente.
I due viaggiatori erano già partiti da cinque ore e aveano già fatto più di otto leghe, che Grifo non si figurava punto ancora che la giovine avesse lasciato la fortezza.
Il carceriere d’altronde, pessimo uomo in sostanza, gongolava per avere ispirato a sua figlia un profondo terrore.
Ma intanto, che felicitavasi di avere a raccontare una così bella storia al compagnone Giacobbe, Giacobbe pure era sulla via di Delft.
Solamente in grazia del suo calessino era già quattro leghe avanti a Rosa e al navicellaio.
Mentrechè Grifo figuravasi Rosa tremante, o borbottante in camera sua, Rosa guadagnava terreno.
Nessuno fuorchè il prigioniero non eravi dunque che non avesse la credenza di Grifo.
Rosa compariva così poco da suo padre dacchè erasi messo intorno al tulipano, che solamente all’ora di desinare, cioè a mezzogiorno, Grifo si accorse misurando il suo appetito, che sua figlia bronciava un po’ troppo.
La fece chiamate da un suo porta chiavi; siccome costui discese annunciando che aveala cercata e chiamata invano, risolvette di cercarla e chiamarla da sè.
Cominciò con andare diretto alla di lei camera; ma ebbe un bel picchiare, Rosa non rispose nè punto nè poco.
Fu fatto venire il guardaroba della fortezza, il quale aprì la porta, ma Grifo non vi trovò Rosa, come Rosa non vi aveva trovato il tulipano.
In questo stesso momento Rosa entrava a Rotterdam; e perciò Grifo non poteala trovare in cucina, come non l’aveva trovata in camera; non poteala trovare in giardino come non l’aveva trovata in cucina.
Che si giudichi della collera del carceriere, quando avendo fiutato ogni angolo seppe che sua figlia aveva preso a vettura un cavallo, e come Bradamante e Clorinda erasene partita da vera venturiera, senza dire ove si dirigesse.
Grifo risalì furibondo da Van Baerle, lo ingiuriò, lo minacciò, sgominò tutto il di lui meschino mobiliare, promisegli l’ergastolo, promisegli la prigione sotterra, promisegli la fame e le bastonate.
Cornelio senza neppure dargli retta, lasciavasi maltrattare, ingiuriare, minacciare, impassibile, silenzioso, disensito, insensibile a ogni emozione, morto a ogni paura.
Dopo aver cercato di Rosa in ogni cantuccio, Grifo cercò di Giacobbe; e non trovandolo al pari di sua figlia, sospettò all’istante che glie l’avesse involata.
Frattanto la giovinetta dopo aver fatto una fermata d’un paio d’ore a Rotterdam, erasi rimessa in cammino. La stessa sera pernottò a Delft, e la mattina seguente arrivò a Harlem quattro ore dopo di Boxtel.
Rosa si fece subito condurre dal presidente della società orticola, messer Van Herysen.
Trovò quel degno cittadino in una situazione, che non ci permettiamo di passarla senza dipingere, per non mancare a tutti i nostri doveri di pittore e di storico.
Il presidente redigeva un rapporto al comitato della società.
Tale rapporto era in gran foglio e nel migliore scritto che potesse fare il presidente.
Rosa fecesi annunziare sotto il suo semplice nome di Rosa Grifo; ma questo nome per sonoro che fosse, era sconosciuto al signor presidente, il perchè Rosa non fu ammessa. È difficile forzare le consegne in Olanda, paese delle dighe e delle chiuse.
Ma Rosa non si sconcertò per questo: erasi imposta una missione ed aveva giurato a se stessa di non lasciarsi abbattere nè dai rabbuffi, nè dalle brutalità, nè dalle ingiurie.
— Annunziate al signor Presidente, ella disse, che gli vengo a parlare del tulipano nero.
Questa parole non meno magiche delle famose: sèsame, apriti, delle Mille e una notte, servironle di passaporta. Mercè queste parole penetrò fin nello scrittoio del presidente Van Herysen, che ella trovò galantemente che veniva ad incontrarla.
Era un piccolotto, sciugnolo, rappresentante precisamente il gambo di un fiore, la cui testa formasse il calice; due braccia ondulanti e pendenti simulanti la doppia foglia oblunga del tulipano; un certo tentennìo, che eragli abituale, completava la sua rassomiglianza con quel fiore, quando piegasi sotto il soffio del vento.
Abbiamo detto che chiamavasi Van Herysen.
— Signorina, esclamò egli, venite da parte del tulipano nero?
Pel signor presidente della società orticola il Tulipano nero era una potenza di primo ordine, che poteva bene nella sua qualità di regina dei tulipani inviare ambasciatori.
— Sì, signore, rispose Rosa, vengo per lo meno a parlarvi di lui.
— Sta bene? fece Van Herysen con un sorriso di tenera venerazione.
— Ahimè! disse Rosa, non lo so, o signore.
— Come! sarebbegli accaduto qualche disgrazia?
— Ben grande, signore, ma non a lui, a me.
— Quale?
— Mi è stato rubato.
— Vi è stato rubato il tulipano nero?
— Sì, signore!
— Sapete da chi?
— Oh! lo dubito, ma non oso ancora accusarlo.
— Ma la cosa sarà facile a verificarsi.
— Come ciò?
— Dacchè vi è stato, rubato, il ladro non sarebbe lontano.
— Perchè non può essere lontano?
— Perchè non sono più di due ore che l’ho veduto.
— Avete veduto il tulipano nero? esclamò Rosa precipitandoci verso il signor Van Heryen.
— Come vedo ora voi.
— Ma dove?
— Apparentemente, presso il vostro padrone.
— Presso il mio padrone?
— Sì. Non siete voi al servizio del signor Isacco Boxtel?
— Io?
— Senza dubbio, voi.
— Ma per chi dunque mi prendete voi, signore?
— Ma per chi mi prendete voi, voi costì?
— Signore, io vi prendo, lo spero, per quello che siete, cioè a dire per l’onorevole signor Van Herysen sindaco di Harlem e presidente della società orticola.
— E che mi volete dire?
— Vi voglio dire, o Signore, che mi è stato rubato il mio tulipano.
— Allora il vostro tulipano è quello del signor Boxtel. Allora voi vi spiegate male, o mia ragazza; non a voi dunque, ma al signor Boxtel è stato rubato il tulipano.
— Vi ripeto, signore, che non so chi si sia questo signor Boxtel, e che questa è la prima volta che lo sento nominare.
— Non sapete chi si sia questo signor Boxtel, e avete medesimamente un tulipano nero?
— Che ve n’è dunque un altro? domandò Rosa rabbrividendo tutta.
— Vi è quello del signor Boxtel, già.
— Com’è?
— Nero, permio!
— Senza una macchia?
— Senza la minimissima macchia, senza il minimissimo puntolino.
— E voi avete questo tulipano? Ed è qui depositato?
— No, ma saravvi depositato, perchè ne debbo fare l’esibizione al comitato, prima che il premio sia conferito.
— Signore, esclamò Rosa, questo Boxtel, questo Isacco Boxtel, che si dice proprietario del tulipano nero....
— E che lo è difatto.
— Non sarebbe mica un uomo magro?
— Sì.
— Calvo?
— Sì.
— Guercio?
— Credo che sì.
— Inrequieto, storto, ranco?
— In verità, che ne fate il ritratto lineamento per lineamento del signor Boxtel.
— Signore il tulipano è egli in un vaso di maiolica turchina e bianca a fiori giallognoli rappresentanti una panierina sopra le tre faccie del vaso?
— Oh! quanto a questo, non ne sono sicuro, che ho più osservato il fiore del vaso.
— Signore, è il mio tulipano, è quello che mi è stato derubato; signore, è la mia fortuna: vengo qui a reclamarlo avanti a voi, da voi.
— Oh! oh! fece Van Herysen guardando Rosa. Che! Venite qui a reclamare il tulipano del signor Boxtel. Affè di Dio! siete una comare un po’ ardita!
— Signore, disse Rosa un poco conturbata da quell’apostrofe, io non vengo a reclamare il tulipano del signor Boxtel, ma vengo a reclamare il mio.
— Il vostro?
— Sì: quello che ho piantato e allevato io stessa.
— Ebbene, andate a trovare il signor Boxtel all’Osteria del Cigno Bianco, ve la intenderete con lui; quanto a me, siccome la causa parmi non meno difficile di quella portata davanti al fu re Salomone, e che io non ho la pretensione della sua sapienza, mi contenterò di fare il mio rapporto, di constatare l’esistenza del tulipano nero e di ordinare la collazione di cento mila fiorini al suo inventore. Addio, mia ragazza.
— Oh! signore! signore! insistè Rosa.
— Solamente, ragazza mia, continuò Van Herysen, siccome siete graziosetta, siccome siete giovane, siccome siete non ancora affatto pervertita, accettate il mio consiglio. Siate prudente in questo affare, perchè noi abbiamo un tribunale e una prigione in Harlem; inoltre noi siamo estremamente solleciti sull’onore dei tulipani. Andate, mia ragazza, andate. Signore Isacco Boxtel, Osteria del Cigno Bianco.
E Van Herysen, riprendendo la sua bella penna, riprese l’interrotto suo rapporto.