I. Amici andiamo all’Ussero?1 — A che fare?
Adesso, amico mio, ci vuol giudizio;
Giugno è vicino, e bisogna sgobbare;
Se no, all’Esame... — Eh fatemi il servizio!
S’impara più stando un’oretta là,
Che dodici anni all’università.
II.
Del Diritto Romano appreso a scuola,
Quindici giorni dopo il Dottorato,
Chi si ricorda più d’una parola?
Talun, quando fu Giudice creato,
Non sapea, e me l’ha detto in amicizia,
Neppur che cosa fosse la Giustizia2.
III.
Andiamo, andiamo! fate a modo mio. –
Non possiamo. – Oh!sapete un po’ com’è?
Se non venite voi, ci anderò io.
Gran sollievo è quest’Ussero per me!
Già il locale è sì magico! sì bello!
E poi, vi spira un certo venticello,
IV.
Che dell’Estate nelle calde sere
Ci rinfresca perfino le parole,
Ch’è proprio una delizia, ed un piacere!
Quivi ridur la Nobiltà si suole;
E basta solo questo requisito
Per far veder quanto il Caffè è pulito.
V.
Anch’io per rompere la monotonìa,
E quella noja di star sempre chiusi,
Fatta lung’Arno una girata pria,
Visti e rivisti que’ soliti musi,
Con gli amici che a spasso mi condussero
La sera per lo più mi fermo all’Ussero.
VI.
Qui leggo le bugìe delle Gazzette,
Chiacchiero col lontano e col vicino,
E godo degli amanti le scenette
Che fanno dalle Ortensie capolino,3
E le donne che i giovani vezzeggiano,
E coi ventagli e colle dita armeggiano.
VII.
Iersera appunto, mentre io stavo lì
Dinoccolato in mezzo a que’ Signori,
Una certa avventura mi seguì
Che m’ha spinto il Tabacco a metter fuori;
No, non mi guardi brusco il Doganiere,
Perchè non è tabacco forestiere.
VIII.
Mentre dunque mi volgo in qua e in là,
Sento uno che mi prende per la mano,
Un, che ho veduto spesso in società,
Ma che alla cera non mi par Pisano;
Ci salutiamo; io gli fo posto, ed ei
Apre la tabacchiera e dice: a lei,
IX.
Prendete tabacco? — No, grazie — Perbacco!
Pare impossibil con cotesto naso
Non avvezzarsi a prendere il tabacco;
È fin vergogna! — Ne son persuaso,
Ma mi par porcherìa, che ci vuol fare?
Non mi ci son potuto abituare. —
X.
Porcherìa? ma che dice? e crede lei
Che se fosse il tabacco porcherìa,
Prenderlo io stesso, e offrirglielo vorrei
In un secolo tutto pulizìa?
E ne verrebber tante provvisioni,
E sparirebber tanti francesconi?
XI.
Si possono sporcare uno, due, tre,
Ma poi sporcarsi tutti, eh che le pare!
Ai Preti, ai Frati, all’Eccellenze, ai Re,
Fino alle Donne lo vedrà pigliare;
E tutta questa gente, almen lo spero,
Non ha nulla di sudicio davvero!
XII.
Ma gl’Inglesi, che son tanto puliti
Che mangian fin le pesche col cucchiajo
Per non sentirsi appiccicare i diti;
Ebbene? anch’essi van dal Tabaccajo,
E prendono il tabacco colle mani,
E non han poi tanti rispetti umani.
XIII.
Sicuro, qualche vecchio tabaccone
E naso e vesti se ne imbratta spesso;
Ma non ne vien da ciò la deduzione
Che il tabacco sia sporco per se stesso;
Si sa: quando si prende, non conviene
Tirarlo su alla diavola, ma bene.
XIV.
E debbono badarci soprattuto
I Cavalier che non gli caschi addosso,
Se no, il fiocco divien sudicio e brutto,
E non ha più l’idea di fiocco rosso;
Ed oltre all’indecenza, è fin peccato
Di vedere un bel fiocco rovinato!
XV.
Poi, bisogna anche scegliere il momento;
Perchè son gusti veramente sciocchi
Il prenderlo per via, se tira vento,
Per dare altrui la polvere negli occhi;
Assai con gli occhi aperti oggi c’illudono,
O consideri poi se ce li chiudono!
XVI.
Quando al Casin de’ Nobili invitato
Fu il Dèy d’Algeri a quella magna Festa,4
Ch’ei prese, chi lo sa? per un mercato
Dando la stima a quella Dama e a questa,
Stima a corpo però, non a misura,
Come poteva in simil congiuntura,
XVII.
Se ne rammenta? tutte le Signore
L’accerchiavano in branco e belle e brutte;
Ed ei per fare al gentil sesso onore
Il tabacco-alla-rosa offriva a tutte;
Ora, le par che vogliano in Turchìa
Dare alle donne qualche porcherìa?
XVIII.
E i Grandi? creda, che nei Grandi estinguere
Non si può il genio di giovar — lo credo;
E solo i Grandi, veda, san distinguere
Chi merita, o non merita — lo vedo;
Or bene, quando per natìa bontà
E per innata generosità,
XIX.
Essi voglion premiar chi pare a loro
Degno di premio, sogliono i Regnanti
Regalar sempre tabacchiere d’oro,
Come avrà visto regalare a tanti;
Ora, quel darle vuote, non è un dire:
Ite all’Appalto, e fatevele empire?
XX.
L’Appalto, saprà ben, ch’è un ritrovato,
Ch’oltre a impedire l’anarchìa de’ nasi,
Fa che il denaro resti nello Stato,
E che ci resti, ne siam persuasi;
Pur qualcun, guardi lei che cosa indegna!
Se può gabbar l’Appalto se ne ingegna.
XXI.
Ed un fa male a cento; nè passare
Si può più da Dogana, o da Città,
Senza rischio di farsi svaligiare,
E frugar con non troppa civiltà
E davanti e di dietro, e sopra e sotto,
Per sentir se ci abbiam qualche fagotto.
XXII.
Giustamente si lagnano i frugati;
D’altronde i frugatori, ella sa bene
Che vivon dell’impiego, e son pagati
Appunto per frugar chi va e chi viene;
Potrebber farlo un poco meno arditi.....
Ma è tutto zelo, e vanno compatiti.
XXIII.
Giunto il Tabacco in Francia a Caterina5 Erba della Regina fu chiamato;
Nè chiamato l’avrían della Regina,
Se veramente egli non fosse stato
Un’erba prezíosa, un’erba buona,
Un’erba degna di réal Persona.
XXIV.
Esso eccitando i tremuli starnuti,
Forse non troverà chi non soggiunga:
Viva! Una bella sposa! Iddio l’ajuti!
Salute, borsa piena e vita lunga!
Felicità e zecchini! Un figliuol maschio!...
A dispetto di quelli che ci hann’aschio.
XXV.
Ci narra il Padre Niccolò Godegno6
Predicatore nella Cafrerìa,
Frate di garbo, e veramente degno,
Incapace di dire una bugìa,
Ch’essendo a Corte in Medrogàn un dì,7
Quel Re graziosamente starnutì.
XXVI.
«Viva il nostro buon Re Benomorapa!»
Tosto un grido echeggiò di stanza in stanza;
quindi Benomorapa!... rapa!... rapa!
S’udìa confusamente in lontananza;
E dalla Corte al popolo minuto
Passò l’annunzio del réal starnuto.
XXVII.
Non vi fu casa, non vi fu tugurio,
Dove con tenerezza le persone
Non ripetesser quel felice augurio,
Che facean pianger di consolazione;
Tanto è ver, che pochissimo mancò
Che non pianse anche il Padre Niccolò.
XXVIII.
E ogni qualvolta starnutisce il Re,
Il popol fa il medesimo, foss’anco
Infreddatura; e il merita, perchè
Quantunque nero, è buono come un bianco,
E i sudditi gli vogliono un ben matto;
E poi mi pare che lo provi il fatto.
XXIX.
Sicchè tornando a quel che si dicea,
Chi non ha questa polvere provato,
De’ suoi vantaggi non può avere idea.
Da vertigini quanti ha liberato!
E perchè l’usa poco il gentil sesso,
Però gli gira il capo spesso, spesso.
XXX.
Guarisce i tagli. — Ad un Signore avvenne
Che scrivere volendo un bigliettino,
Uso di rado a temperar le penne,
Due dita si tagliò col temperino;
Applicato il tabacco alla ferita,
A desinar potè adoprar le dita.
XXXI.
Nè contro il sonno credo che vi sia
Mezzo più pronto, antidoto migliore:
Dormire a un’Accademia di Poesia,
Alla lezion di qualche Professore,
Diavol! sarebbe troppa inciviltà;
Prende tabacco, e il sonno se ne va.
XXXII.
Quando i birri tabacco non prendevano,
Succedeva di notte ogni delitto,
Chè sopra il ladro e il malfattor chiudevano
Ora l’occhio sinistro, ora il diritto;
Il che tradotto in buon volgar, vuol dire
Che avevan sonno, e che volean dormire.
XXXIII.
I destinati al pubblico servizio
Di dormir troppo ancor si dilettavano;
Andavan dopo l’undici all’Uffizio
Facendo taroccar quei che aspettavano;
Ma adesso con quest’utile ripiego,
Servon meglio al pubblico, e all’impiego.
XXXIV.
Dacchè prendon tabacco gli Avvocati,
E quei che assisi stan pro-tribunali,
Si veggono in un attimo sbrigati
E gli affari civili e i criminali;
Ma prima era un orror! dormivan essi,
E facevan dormire anco i Processi.
XXXV.
Dormiva Italia... — Per l’amordiddio!
Non si faccia sentire, in carità,
Se no, siam rovinati e lei ed io! —
O come ho a dir? — Dica il paese là
Che Appennin parte, il mar circonda e l’Alpe;
E allor che vuol che intendan queste talpe?
XXXVI.
O che mal c’è? — Signore! non c’è niente;
Ma tante volte una parola scappa;
Una ne tira due; passa la gente,
Passa qualcun che soffia nella pappa,
Sente Italia, lo crede forestiere....
C’è da trovarsi a qualche dispiacere. —
XXXVII.
Rischiara anco la vista alle persone,
Soggiunse poi ridendo: al mio paese
Ho conosciuto un certo Don Simone
Che avendo sempre le palpebre offese
Dicea cose da chiodi nell’uffizio;
Ma il tabacco gli ha reso un gran servizio.
XXXVIII.
E perchè crede lei che gli amatori
Di questa grata polvere sian tanti?
E Giudici e Auditori e Coadjutori,
Cancellieri e Ministri-processanti
Ne consumino al dì scatole piene?
Perchè han bisogno di vederci bene.
XXXIX.
È vero che non pochi di que’ tali
In occhiali si scorgon non di rado;
Ma io credo che portino gli occhiali
Per conservar la vista a un certo grado; Inter utrumque... non per fare i guerci,
Ma così, per vederci e non vederci.
XL.
Ma già è inutil con lei quello che dico,
Perchè dalle sue Cose anco si sente
Che del tabacco è capital nemico;
Oh le sue Cose le so quasi a mente!
Son, fra gli altri, curiosi que’ versetti
Là dove dice... dove dice... aspetti!
XLI.
Su i fumatori... Ah! «se il fumar costuma,8
«Ne vien per questo che sia cosa bella?
«Sta scritto pei caffè — Qui non si fuma —
«Proíbisce di fumar la sentinella;
«E veder dèssi un gentiluomo, un Conte,
«Fumar coi vetturini in Piè-di-ponte?
XLII.
Certo, che se tornasser dagli estinti
Que’ venerati nostri medaglioni
Che ne’ quadri si veggono dipinti
Con tanti ricci, e con tanti galloni,
E trovasser sul margine d’Alfèo
Misto il nobile fumo col plebèo;
XLIII.
Strappatevi, direbber con dispetto,
Di fra le tasche quelle aurate chiavi,
Que’ ciondoli onorifici dal petto,
O Nipoti degeneri dagli Avi;
Date fuoco al Casin... che val l’onore
Quando non si conosce più il Signore? —
XLIV.
Ma lei meno collerico, ed avvezzo
A distinguer l’ignobil dal Patrizio,
Dando alle cose il loro giusto prezzo,
Non crederei che avesse il pregiudizio
Di sospettar che un sigaro fumato
Promiscui rango a rango, e fiato a fiato.
XLV.
O bella! Se nei tempi in cui viviamo
Han veduto i plebei, fatti più scaltri,
Che son figliuoli dello stesso Adamo,
E che hanno il sangue rosso come gli altri,
E si sono ai Signori avvicinati;
Dovran fuggirsi come gli appestati?
XLVI.
No, lo dice anco lei: «non dee sorprendere9
(E lo ripeto adesso con piacere)
«Se per viemeglio il sigaretto accendere
«Accosta il nobil labro un Cavaliere
«A quello d’un facchino, d’una spia;
«Filosofia ci vuol, filosofia!
XLVII.
Il fumo non decide del Signore:
L’altra età non pensava come questa;
Allor si giudicava il Professore
Dalla parrucca che portava in testa;
Adesso poi, parrucca o non parrucca,
Chi nasce zucca, sarà sempre zucca.
XLVIII.
Ami il Signor la Patria, e i suoi fratelli;
Segua virtù, nè altrui si venda mai;
Somministri lavoro ai poverelli,
Nè la mercè ritardi agli operai;
Abbia un legno di men, ma dotta prole;
Sia galantuomo — e fumi quanto vuole.
XLIX.
Inoggi è un altro vivere, bisogna
Convenire che inoggi è un altro vivere;
Leggere e scriver prima era vergogna;
Adesso almen si può leggere e scrivere
Quel che si vuole (eccetto solamente
Il passato, il futuro, ed il presente).
L.
Si sa: cambian coi secoli i costumi:
Quell’altro tutto fuoco, tutto ardore;
Questo può dirsi il secolo dei fumi,
Il secol delle macchine a vapore;
E il mille novecento, Dio lo sa
Che diavolo di secolo sarà!
LI.
I gusti si succedono a misura
Che variano i bisogni della gente:
Si cominciò a fumar per impostura,
Or s’è reso un bisogno prepotente;
E il fumator del sigaro ha prurito,10
Come l’han le ragazze di marito.
LII.
Ma un pover’uom che la sua vita impiega
Tutto dì a tavolin col capo basso,
O suda lavorando alla bottega,
Deve prendersi pure un qualche spasso;
E fra gli spassi certamente questo
Lo trovo il più economico, ed onesto.
LIII.
Il giuoco è sempre giuoco; e qual ch’ei sia,
Depaupera in un modo da stordire;
È una cosa immorale l’osteria;
Le donne ci fan presto intisichire;
Al Teatro non cantano che il Figaro!
È dunque meglio di fumare un sigaro.
LIV.
Un sigaretto in bocca, a parer mio,
Dà una cert’aria franca e disinvolta,
Quell’aria di «guardatemi, son io!»
Che annunzia sempre una persona sciolta;
Come la pipa, viceversa, dà
Un aria di posata gravità.
LV.
E giacchè l’uomo sodo, e il muso serio
È quel che in oggi più s’apprezza e stima,
Perciò tutta la gente di criterio
Non fa più collezioni come prima
Di libri, o stampe; ma d’avere ha smania
Bocchini d’ambra, e pipe di Germania.
LVI.
So che il sigaro vietano i Dottori
Pel molto olio volatil che contiene;
Ma i benefici nostri Appaltatori
Han pensato anche a questo, e han fatto bene;
E per filantropìa, non per guadagno,
Vi mischiano le foglie di castagno.
LVII.
Già, in quanto a me, mi pare idea fantastica
Il dire che il tabacco sia nocivo:
O fra i Tedeschi dunque non si mastica?
Pur, grazie al cielo, ogni Tedesco è vivo;
E se fra noi qualcuno ha il petto fiacco,
Vedrà che non dipende dal tabacco.
LVIII.
Anzi ho letto in un libro intitolato:
«Cenni sopra il fumar sigari buoni»
Che il fumo del tabacco insinuato
Per certe inesprimibili regioni,
Fino ai morti la vita a render viene;
Se però non son morti bene, bene.11
LIX.
L’odore! mi fa rider coll’odore!
Già il medesimo odor non spiace a tutti;
E se si parla poi delle Signore,
Ne soffrono alle volte de’ più brutti;
Tutte sbraitan: ma poi desta interesse
Anche un giovan che fuma. — Ne volesse!
LX.
Se patisce un legal d’indigestione,
O se qualche fattor non può mangiare
Perchè glielo impedisce la flussione,
Povera gente! non dovrà fumare
Quanto le piace e dove si ritrova,
Perchè passa una donna? o questa è nuova!
LXI.
Sicuramente un giovine educato
Io non dirò che debba presentarsi
Ad una Dama dopo aver fumato,
Senza prima la bocca risciacquarsi;
Ma diavol, costa così poco l’acqua!
E chi è quel porco che non si risciacqua?
LXII.
Oh in questo benedetto le Spagnole!
L’Aragonese almen, la Catalana
Lascia fumare, e fuma quanto vuole
Il prezíoso sigaro d’Avana,
E non han tante ciance, e seccature
Di nervi, d’isterismi e stirature.
LXIII.
Benchè, ho veduto in mezzo a suffumigi
Ed ai preservativi pel Cholèra,
Anche le belle Dame di Parigi
Fumar tabacco da mattina a sera;
Oh se le avesse viste! giocherei
Ci avrebbe acceso il sigaro anche lei!
LXIV.
Il sigaro è una dolce compagnia
Quando siam soli! esilara il cervello,
Serve a far degli amici, a cacciar via
Il tristo umore... eh! se non fosse quello,
Colla miseria che ci ritroviamo,
Sì! si starebbe allegri come stiamo!
LXV.
Alto! da bravo, via, signor Dottore,
Si ripenta: mi creda, in verità,
Che nel mondo non c’è cosa migliore,
Cosa più salutare del tabà...
Ma qui un nodo di tosse gli fe’ intoppo: —
Così succede a chi discorre troppo.
Note
↑[p. 29modifica]Situato nel Lungarno dalla parte di Tramontana, è questo il più bel Caffè, ed il più frequentato di Pisa.
↑[p. 29modifica]De Justitia et Jure. Titolo primo delle Istituzioni civili dell’Heinneccio, che si spiegano all’Università.
↑[p. 29modifica]Nell’Estate, per maggiore allettamento e vaghezza, si suole ornare la parte esterna del suddetto Caffè con vasi di Ortensie, e di altri fiori, simmetricamente disposti.
↑[p. 29modifica]Il Tabacco fu scoperto dagli Spagnoli a S. Domingo nel 1496. Hermandes di Toledo inviò il primo questa pianta in Portogallo, e di quel paese venne importata in Francia nel 1560. sotto il Regno di Francesco II. da Giovanni Nicot Ambasciatore di quella Corte in Portogallo, e presentata alla Regina Caterina de’ Medici; ciò che le fece dare il nome di Erba della Regina.
↑[p. 29modifica]Il P. Niccolò Godigno della Compagnia di Gesù, nella vita che scrisse del Padre Consalvo Silveria, al Cap. XI. del secondo libro dice: «Quando il Re del Monomotapà (ch’è Paese dell’Affrica) starnuta, tutti li presenti con voce tanto alta salutano il [p. 30modifica]Re, che quelli i quali stanno nelle anticamere sentono il grido, et essi ancora con minor voce facendo il medesimo, sono cagione che gli altri di mano in mano, secondo che loro arriva quel suono all’orecchio, salutino anch’essi il Re, e così in pochi momenti tutta la Città si risente, e saluta lo starnuto reale con buono augurio».
↑[p. 30modifica]Così secondo le Blanc, ed altri, chiamasi la Capitale del Monomolapà.