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la sua scienza legale, oblitera tutte le ragioni del suo cliente.... La causa è perduta.

Il conte d’Altamura, sua madre, la giovine sua moglie sono ridotti alla miseria. Il feudo comperato col loro denaro è loro tolto.

Da quel momento don Terenzio fu celebre.

Tale era il personaggio a cui l’ambasciatore di Francia confidava la difesa del colonnello, e che tenevasi ora al capezzale del suo cliente.

L’entrata di quell’uomo nella prigione parve un avvenimento. Una immensa curiosità si destò fra i prigionieri. Tutti vollero vedere il lion del fôro napoletano: questi per il semplice piacere di contemplar la sua persona, quegli per chiedergli un qualche consiglio. L’abate solo non si mosse dal suo posto e non gli diede neppure uno sguardo.

In fine la siepe dei prigionieri si allargò ed il cliente e l’avvocato si trovarono in presenza l’un dell’altro.

Parlavano in secreto da dieci minuti, quando un ruggito di tigre echeggiò dalla parte in cui l’abate fumava placidamente. Fu un lampo, in minor tempo che il tuono non metta a seguire la folgore. A questo grido di morte, scappato dal petto dell’abate, l’avvocato si volse. Non ebbe nè il tempo d’impallidire, nè la facoltà di gridare, nè la forza di fuggire. L’abate gli stava sopra.

— Grazia, conte d’Altamura, gridò don Terenzio.

L’abate gli conficcò tre volte un coltello nella gola, poi rispose con voce divenuta calma adesso: