Il sorbetto della regina/Parte seconda/IX

Parte seconda - IX. I piccoli incidenti

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CAPITOLO IX.


I piccoli incidenti.


La principessa di Kerson aspettava da un’ora nel piccolo appartamento, dietro la portiera di velluto dello studio del conte di Ruitz.

Questo appartamento si componeva di due stanze, d’un gabinetto molto riccamente mobigliato, ma di molto cattivo gusto, e di un’altra camera più semplice, tappezzata di damasco rosso, con un letto splendido ed una toletta di marmo bianco coperta di cristalli di Boemia.

La luce delle due stanze era stata artisticamente graduata con vetri opachi e colorati. Essa raddolciva con un chiarore simile all’alba tutti i colori e tutti gli oggetti.

Delle guastade colme di fiori profumavano l’aria. I molli tappeti bianchi, a fiori paonazzi, assordivano il passo e le ondulazioni della voce.

Dei divani di raso bianco a nappe nere ed oro correvano lungo i muri, e aprivano le loro braccia ovunque si volesse riposare. Nulla che potesse gridare o far strepito. Nulla di angoloso, di troppo accentuato, di troppo determi[p. 234 modifica]nato. Quell’insieme formava un certo che di dentro, ove tutto era soffice: il suono, la luce, il tempo, lo spazio, la temperatura.

La fata del luogo aveva in realtà quarant’anni, ma i più audaci, i più osservatori, non le ne avrebbero dato che venticinque, in questo medio dell’indefinito.

La principessa di Kerson era prodigiosamente conosciuta a Napoli, a causa della sua meravigliosa rassomiglianza colla regina madre. Si sarebbe detto che fossero due gemelle, se l’una non fosse nata in Spagna e l’altra in Polonia; — questa qui era polacca vedova d’un russo. Nessun sapeva ove la principessa abitasse. Le si dava per dimora una casa di campagna a Posilipo, sulla riva del mare, ove un yacht restava sempre amarrato per riceverla. La si vedeva di rado per le vie di Napoli. Non s’incontrava in nessun sito, eccettuato nelle case dei poveri vergognosi che andava a soccorrere di nascosto. Ecco tutto ciò che di lei si diceva.

Probabilmente il conte ne sapeva di più. Quelli che l’avevano conosciuta nella sua casa ne conoscevano all’incirca quanto abbiamo detto, eccettuato forse taluni dettagli intimi, che ogni buon cavaliere serba per sè e nasconde altrui, anche a costo del suo sangue. Tale qual era, la principessa era bella. Lo sarebbe stata ancor di più, se la pinguedine non le avesse dato una vita un po’ maestosa, e se il colore un po’ troppo vivo del sembiante non l’avesse prosaizzata.

Del resto le mani, i piedi, la fronte, il seno, le spalle, il collo, i lineamenti, gli occhi, le labbra, i denti.... tutto era squisito ed appeti[p. 235 modifica]toso. Queglino che amano le donne di Rubens l’avrebbero carezzata come il loro ideale. Tiziano se ne sarebbe leccato le dita. I colori foschi dei suoi vestiti le davano splendore come il niello ad una lamina di metalle.

La principessa Elisabetta si aggirava da un’ora nel suo gabinetto, come una lionessa nella sua gabbia, presa da impazienza febbrile. Ma la sua ansietà sarebbe sembrata leggera, in confronto di quella del conte.

Egli rientrava appena, quando la principessa arrivò.

Ruitz aveva corso la città dalle sei del mattino in cerca di qualche cosa, o di qualcheduno, rimuginando in tutte le case di sua conoscenza o di conoscenza di sua figlia. Aveva principiato da quella di Bruto, ma Tartaruga lo aveva ragguagliato che questi era partito la vigilia per Castellamare e non era ancora ritornato.

Ruitz osò perfino picchiare alla casa del marchese di Diano, di cui sapeva l’istoria, come la sapevano sua figlia e tutti gli altri, avvegnachè Bruto gli avesse raccontato che il principe Antonio l’aveva sottratto alle ricerche della polizia. In fine stanco, scoraggiato, temendo un colpo sinistro della fortuna, in preda a mille vaneggiamenti fantastici, intravedendo la sua rovina, era rientrato, passando per l’appartamento di sua figlia, e se ne stava nel suo studio, torcendosi da un’ora sul suo seggiolone.

Di un colpo la porta s’aprì e Bruto apparve sulla soglia.

— Hai veduto Cecilia? gli gridò il conte di lontano, alzandosi di balzo. [p. 236 modifica]

— Non sono ancora entrato nell’altro appartamento, rispose freddamente Bruto.

— E cos’hai alla guancia, fasciata così.

— Mal di denti. È dessa ancor lì?

— Lo credo bene. Da un’ora.

Bruto, senza aggiungere una parola, sollevò la portiera di velluto ed entrò dalla principessa. Scorgendolo, ella gli corse incontro e gli saltò al collo. Poi indietreggiò; vedendo la guancia di Bruto avviluppata da pannilini.

— Cosa è codesto? chiese ella con ansietà.

— Una ferita.

— Una ferita? Come!

— Una palla di pistola ha tagliato il mio orecchio, e sfiorata la mia guancia, un’altra ha solcato la pelle del mio cranio.

— Dio del cielo! un duello?

— No, signora; un assassinio mancato.

— Da chi, dunque?

— Dal marchese di Diano!

La principessa ricadde sul divano, impallidì e si tacque. Bruto si assise accanto a lei, ad una certa distanza, la testa bassa e le disse:

— Signora, vi devo una rivelazione. Per viltà, per rispetto, per attaccamento di medico al proprio ammalato, l’ho ritardata lungamente. Gli avvenimenti mi vi obbligano oggi. Mi vi sobbarco.

— Cosa voi dite?

— Signora, voi andrete senza fallo a disprezzarmi. Avete ragione, io non mi scuso. Ma voi non mi sprezzerete mai tanto, quanto io mi sprezzo, dal giorno che ho posto il piede in questo ridotto. [p. 237 modifica]

— Signore! sclamò la principessa offesa, rialzando il capo.

— Ve ne supplico, signora, non prendete in cattiva parte alcuna delle mie parole. Io non ho l’esperienza del mondo. Ma, se le mie parole vi offendessero, esse non esprimerebbero certo il rispetto profondo che porto nel mio cuore per la vostra persona.

— Qual è, dunque, codesta rivelazione strana a cui così stranamente mi preparate?

— Devo prender le cose da lontano, signora, per ispiegarvi l’intera mia condotta. Avete tempo di ascoltarmi oggi?

— Parlate. Il tempo mi obbedisce.

— Un giorno io fui chiamato a visitare una giovane donna cui un altro medico assisteva, ed uccideva.

— Chi era codesta donna?

— La figlia del conte Ruitz de Llamanda, la signora Cecilia.

— Ah! sì me ne ricordo.

— Questa fanciulla era incinta. Si tentava un aborto, al quale la natura resisteva. Diedi la mia opinione. La vita dell’ammalata era in pericolo. Il padre ne fu commosso e pensò a salvare l’onore della figlia, conservandole la vita.

— Non sapreste qualche cosa di più preciso su questo affare? dimandò la principessa a voce sorda. Chi era il damo di quella giovane?

— Il marchese di Diano.

— L’infame! esclamò la principessa.

Seguì un istante di silenzio.

— Continuate, disse infine la principessa. [p. 238 modifica]

— La medicatura fu cangiata ed il pericolo rimosso.

— Lo so.

— Assicurai la guarigione dell’ammalata e ne gioii. Era il primo cliente d’un mondo elevato, che io assisteva e salvava.

— Una sera il conte m’invitò a pranzo. Era il primo desinare che prendeva con la figliuola, dopo la malattia. Cecilia, infatti, pranzò con noi. Io bevvi un po’ troppo, cedendo senza diffidenza agli incoraggiamenti del conte. Cecilia mi aveva sempre ricevuto male, non so perchè. Io l’aveva trovata bella, dal primo sguardo; ma un non so che di misterioso si interponeva fra noi che ci straniava, ella con asprezza, io con tristezza. La sera del pranzo la mi parve irresistibile. Non era che altiera quella sera e non mica sprezzante ed astiosa come al solito.

— Le vostre osservazioni sono molto precise.

— È necessario, signora, che io dettagli bene le cose, onde possiate ben giudicare la mia condotta. Dopo il pranzo, il conte, che fingeva di essere brillo in faccia all’uomo, che lo era forse davvero, mi tenne un seguito di propositi strani. Quando compresi però, la mia ebbrezza dissipossi in un attimo.

— Quali erano codesti propositi?

— Impossibile di seguirne ora l’intreccio e le tortuosità. Potevano riassumersi così: sposate mia figlia, la è bella, ed io vi servirò di cornac nella vostra carriera. Questa seconda parte mi sedusse poco. La fortuna non ha presa sur un uomo che può vivere di due soldi di pane al giorno e trovarsi più felice di Sarda[p. 239 modifica]napalo. L’onore di sposare la figlia del conte, la bellezza della fanciulla, mi toccarono poco altresì. Avevo scandagliato l’anima del conte e l’avevo trovata infame e putrida. Sua figlia mi odiava e d’altronde io era internamente corazzato contro la malìa di quel viso. Nonpertanto non si ha vent’anni per nulla. Ove il cuore rimbalzava, la carne gridava. Non amavo Cecilia, ma subivo la legge del desìo e non so quale influenza dei sensi.

— Passate, signore, passate, fece la principessa, i cui occhi fiammeggiavano.

— Pure non fu neppur questo che mi decise, signora. Io non mi fo bello: racconto semplicemente le cose. Non capivo bene, allora, ciò che vi potesse essere d’abbietto e d’immorale a sposare una donna nella posizione in cui si trova Cecilia, amando sempre il seduttore, benchè abbandonata e disprezzandomi e detestandomi. Il sentimento morale che questo stato di cose svegliava in me era vago. Ciò che mi commosse, fu l’onore oltraggiato di quella fanciulla, la sua vita spezzata. Porre una corona di vergine sul capo di quella vergine madre, dare un padre a quel bastardo, un nome a quella giovane donna, panneggiar di onore quell’infamia, mettere una bandiera di salvamento su quel naufragio, riparare, gettare un sorriso su quelle lagrime, dare il diritto della vita sociale ad una bella creatura e ad un infante, calmare gli allarmi d’un padre.... tutto ciò mi sembrò generoso, eroico, commovente, nobile. Dissi a me stesso: fo una buona azione all’inizio della mia vita, ciò mi porterà buona ventura. [p. 240 modifica]

— L’avete, dunque, sposata codesta donna? gridò la principessa.

— Ascoltatemi senza impazienza, signora, non vi nasconderò nulla. Riflettei due giorni. Consultai un amico.... ed accettai.

— Miserabile! ruggì la principessa.

— Non ancora, signora, non ancora. Ciò che avrebbe dovuto rischiararmi allora, se avessi avuto l’esperienza della vita, ciò che mi ha rischiarato di poi, sono le condizioni poste al matrimonio.

— Quali?

— Il matrimonio doveva restar secreto, io doveva tenermi separato da mia moglie.

— Separato! gridò la principessa interrompendolo, e lo foste?

— Sì, io sono ancora straniero a quella donna.

La principessa gli saltò al collo e l’abbracciò. Bruto continuò:

— Quando il conte annunziò queste notizie a sua figlia, quando gli ordinò di obbedirgli, essa volle avvelenarsi. Idolatrava il marchese. Il marchese, dal canto suo, le aveva promesso di sposarla. Ma Ruitz si opponeva. Il principe di Noto si sarebbe forse opposto anch’egli. Bisognava, dunque, forzar la loro volontà. Donde la sventura di Cecilia. Poi il marchese era scomparso rapendo una crestaia. Lo si era in seguito visto ancora in città, ma non mai più in casa del conte. Le lettere di Cecilia non avevano ricevuto riscontro. Tutto ciò, nondimeno, valeva poco. Cecilia l’amava sempre; ella addimandava una viltà infame, il mio consentimento. Il conte però tenne fermo; e vi dirò [p. 241 modifica]perchè. Fe’ mostra con sua figlia dei sentimenti di uomo, di cittadino, di padre. Fu volta a volta dolce e feroce, affettuoso ed ironico, ignobile e cavalleresco in tutte le emozioni dell’anima, la commosse, raddolcì, la domò e fascinò. Per la prima volta in sua vita fu padre con questa creatura, cui aveva sempre considerata e trattata come bastarda. Il cuore di Cecilia era ferito ed aperto. L’amore prendeva un’altra forma per penetrarvi il dispetto; la gelosia, la disperazione si misero della partita. Il conte trafficò della mia generosità come del resto. Sua figlia piegò e consentì.

— Che miscuglio di mostruosità è codesto lacchè di Ruitz! sclamò la principessa.

— Ebbi con Cecilia un colloquio. Mi trattò da potenza conquistata. Ma codesta sua fierezza sedusse me, figlio del popolo. Mi ricordò tutte le condizioni che io aveva già accettate. Le dimandai i sentimenti d’una sorella.... Io vi odio!... la mi rispose. Ahimè! ciò fu la mia sventura. Se la m’avesse amato, forse l’avrei disprezzata. La sua resistenza, oltraggiandomi, umiliandomi, mi esaltò. L’uomo è fatto così: la sua essenza è elastica. Il matrimonio fu fissato. Un prete del mio paese, della cui secretezza ero sicuro, ci sposò una sera in una cappella. Quattro ufficiali svizzeri, come se si fosse trattato d’un duello, furono i nostri testimoni e firmarono il contratto. Cecilia si presentò all’altare vestita a scorruccio. Il conte e gli Svizzeri avevano il sigaro alla bocca, e lo stomaco pieno di liquori. Il prete palpava le dieci piastre che aveva ricevute ed il suo viso irraggiava. [p. 242 modifica]Io era grave e triste. Uscendo dalla chiesa, il padre, la figlia, gli Svizzeri andarono a cenare dal conte; io rientrai e piansi.

Bruto non osò dire alla principessa tutta la verità: egli amava già Cecilia.

— Perchè piangevate, dunque; non eravate voi che l’avevate voluto?

— Non avevo avuto la forza di resistere e di oppormi. Non vedevo il male. Non trovavo di gualcito in tutto ciò che il mio cuore ed il mio onore. Il torrente travolgeva un uomo che non sapeva nuotare. Era colpa mia! Ma non è di ciò ch’io mi pento. Sono stato punito. Ciò che mi rende infame agli occhi miei, ciò che ha infangata la mia vita ed ucciso il sorriso che cantava nel mio giovane cuore, è la mia complicità nelle combinazioni del conte.

— Ah! non la è ancora finita con questo lacchè?

— Il peggio resta ancora a rivelare e ve ne supplico, signora, siate clemente verso il mio pentimento.

— Parlate.

— Il conte....

— Dite Ruitz, il groom....

— Sì, l’è più esatto. Ruitz mi parlò da prima per parabola, del suo stabilimento. Compresi che v’era in codesto un qualcosa di losco. Chiesi delle spiegazioni. Divagò. Lo forzai a darmi dei ragguagli netti e precisi. Mi parlò.... di questo appartamento.... di voi.

— Che vi disse egli? Esigo la verità.

— Ve la dirò. Sono deciso a non omettere nulla. La verità per lui, signora, non è mica [p. 243 modifica]così terribile. Questo appartamento è la sua rendita. Rendervelo aggradevole è il travaglio di tutte le ore della sua vita.

— Davvero!

— Teme che trovandolo un giorno vuoto, o indegno, o noioso, voi non lo abbandoniate.

— Infatti!

— Teme che coloro i quali vi fanno dimenticare le pene della vita in questo ritiro, non lo abbandonino, ciò che è accaduto talvolta, e ch’egli non si trovi derelitto. Attaccare alla vostra persona qualcuno, che fosse attaccato nell’istesso tempo alla sua con legami di sangue e d’interessi, ecco il tratto di genio di questa mercantile intelligenza. È venale e vile, ecco i suoi torti. I miei sono più indegni.

— Vediamoli.

— Il conte mi spiegò confusamente le sue teorie di solidarietà, le sue viste. Velò la parte che io doveva prendervi. Coprì tutto di una luce scialba ed equivoca come quella di questa camera. Io ho un carattere voluttuoso e debole. Ero curioso di questi misteri d’Iside, come un provinciale. E’ vi parlò di me. Stuzzicò la vostra curiosità. Voi eravate indisposta un giorno e mi chiamaste qui, nel sito ove siamo.

— Me ne ricordo.

— Conversammo. Vi esaminai da medico, e non da uomo.

— Ah! e vi parve egli, ch’io mi fossi molto ammalata, signore?

— Sì, signora. E gli è precisamente perchè vi credetti e vi credo ammalata che entrai [p. 244 modifica]in seguito in questo appartamento. Altrimenti, avrei avuto nausea e di voi e di me.

La principessa coprì il viso delle sue mani e non fiatò motto. Bruto continuò:

— Sì, o signora, voi siete ammalata. Il vostro amore ha un nome in nosologia. Esso è classificato in tra le malattie nervose. Non ve lo ripeterò. D’altronde è desso un nome greco. Io lo compresi dal secondo giorno in cui vi rividi. Studiai il vostro male. Sentii come un rimorso di consigliarvi ancora per rimedio un maggiore svizzero od un marchese. Accettai il vostro amore come un segreto di professione, vale a dire un dogma religioso. Mi sono rimproverato il mio ufficio tutti i giorni, tutte le notti, ma non l’ho ribassato nè per codardo tradimento, nè per interesse. Il mio torto è di avervi compianta e non amata. Adoperai la mia infamia, come adoperavo in altre malattie l’acido prussico e l’arsenico.

— E perchè vi siete voi taciuto su tutto ciò fino ad oggi?

— Perchè, se io mi ritiravo, i maggiori ed i marchesi, signora, vi avrebbero trattata leggermente, afflitta, abbandonata, avvilita. Mi comprendete, signora?

— Continuate; io vi giudico.

— Io mi sono già giudicato, o signora, riprese Bruto dopo un momento di silenzio, e vengo a notificarvi la mia sentenza.

— La vostra sentenza?

— Sì, o signora. Volendo esser generoso, sono stato indegno. Ho fatto del don chisciottismo a proposito di mia moglie ed a proposito di.... [p. 245 modifica]voi, signora.... più ancora, sono stato inconseguente e ridicolo. Se avessi ricevuto una educazione sana, se avessi preso l’abitudine di riflettere sugli atti della vita, se ne avessi conosciuto la portata, avrei fuggito, come l’ergastolo, questa casa, il conte, sua figlia, questo studio — parc aux cerfs per lui, ospizio per me. I due colpi di pistola però cui ho ricevuto a bruciapelo....

— Che cos’è ancora codesto?

— Il marchese di Diano si era battuto in duello ed era stato ferito. Me lo portarono una notte ai Pellegrini, ove io ero di guardia. Io conosceva tutta la storia di quest’uomo. Egli aveva sedotto la giovine che era divenuta mia moglie. Questa creatura, cui le leggi ecclesiastiche mi legano per sempre, l’amava. Egli aveva rapito un’altra giovinetta, cui io aveva amata, che dovevo sposare, che è la figliuola del mio più caro amico; e cui amo tuttavia come una sorella, mentre ella mi ama forse d’un altro amore....

— Il nome di codesta persona?

— Non si tratta ora di lei. Passiamo.

— Ah!

— Questo marchese s’era battuto in duello col mio amico, il padre della giovane che aveva rapita. Questo disgraziato padre era in prigione.... Io aveva, dunque, tutte le ragioni per odiare e fuggire il marchese. E’ mi cade tra le mani ferito. Chiede la mia assistenza di medico. Io soffoco la mia passione di uomo. Veggo in lui un soggetto, un ammalato, un dovere a compiere. Mi rassegno a curarlo. [p. 246 modifica]

— Gonzo fino alla punta delle dita! sclamò la principessa.

— Peggio ancora: idiota. Il marchese, ormato dalla polizia, aveva trovato un asilo inviolabile a Castellamare. Mi vi appellò. Entrai nel suo salone. Aspettai, perchè il marchese riceveva una visita. Ero impaziente; avevo un fatale presentimento. Perchè? Quell’aria mi sembrava carica d’un doloroso magnetismo. Respiravo il dolore. Attesi quasi un’ora. Il marchese aveva dato ordine di non essere disturbato. Compresi finalmente il segreto di quest’ordine. La porta s’aprì. Una donna fittamente velata apparve sulla soglia. Il mio cuore battè. Volli alzarmi: mi sentii inchiodato al divano. Non mi videro. Dandosi un ultimo addio, la donna sollevò un poco il velo per baciare il marchese. Balzai in piedi: riconobbi Cecilia, mia moglie. Corsi loro incontro. Con una mano strappai il velo alla donna e la spinsi contro un mobile. Dall’altra afferrai il marchese pel collo. Una lotta s’impegnò: era dietro a strozzarlo, quando un domestico accorse e me lo tirò dagli artigli. Mi slanciai allora sull’altra; ma il marchese non me ne diede il tempo. Sottrattosi alle mie unghie, e’ si precipitò nella sua camera.

"Udii il rumore d’un colpo di pistola, continuò Bruto, e sentii qualcosa stracciarmi la pelle del cranio. Udii un secondo colpo e sentii uno strazio all’orecchio ed alla guancia. Il domestico mi trascinò allora e mi rotolò per la scala. Volle forse risparmiare un omicidio al suo padrone. Fuggii. Ed eccomi qui. [p. 247 modifica]

— E si fanno impunemente di tali cose a Napoli? sclamò la principessa di un’aria compunta.

— Non vi è che una cosa che non si fa impunemente a Napoli, signora; amare il proprio paese e la libertà: e, forse ancora, non obbedire ai comandamenti della Chiesa! Tutto il resto è un inconveniente e non un delitto. Ma concludiamo. Questo attentato è stato per me il fiat lux. È da ieri che io medito la mia condotta in quest’ultimo anno; io non ho saputo trovare una ragione sola per scusare l’indegnità mia innanzi alla mia coscienza. Ieri, io era ancora un semplicione, si poteva assolvermi. Oggi, che afferro tutto il valore dei miei atti, sarei infame se continuassi. Mi disprezzo già troppo io stesso, voglio risparmiarmi il disprezzo altrui. Addio, signora.

Bruto si alzò per partire. La principessa lo prese per la mano e gli disse:

— Aspettate fino a domani. Vi devo una risposta. Sono le cinque e non posso restar qui un momento di più.

— Mi scriverete, signora, se lo credete indispensabile. La mia determinazione è irremovibile.

— Alla buon’ora. Ma io voglio vedervi ancora domani; voi non avete scandagliata la vostra ferita fino al fondo. Lasciate che a mia volta vi rimugini col mio gammautte.

— Per provarvi il mio rispetto, io vi obbedirò, signora. Verrò; ma non una parola a Ruitz.

Bruto alzava già la cortina della porta per [p. 248 modifica]uscire, quando la principessa gli disse d’un’aria disinvolta:

— Dottore, ho un cagnolino cui credo colpito d’idrofobia o sul punto d’esserlo. Portatemi domani un piccolo alberello del vostro acido prussico.

Bruto s’inchinò ed uscì.