Pagina:Petruccelli Della Gattina - Il sorbetto della regina, Milano, Treves, 1890.djvu/264

domandò chi si fosse e di che delitto la giustizia lo accusasse, e’ non rispose che alla prima domanda, e disse:

— Io sono il reverendo abate di questo luogo.

Lo si ebbe per detto; e da quel giorno non lo si addimandò altrimenti che il reverendo abate.

Appena il colonnello si fu coricato sul suo strapuntino, l’abate gli si avvicinò e alla sua volta gli chiese il suo nome e il delitto. Il colonnello rispose laconicamente e si volse, dall’altra parte dicendo: “E voi?„ senza aspettar la risposta. L’abate venne da quest’altra banda, sedette sul letto rimpetto al colonnello, incrociò una gamba sull’altra, cacciò una mano nel corpetto e continuò a fumare come un uragano senza più schiuder labbra.

Una febbre spaventevole bruciava il colonnello.

Il medico non doveva venire che l’indomani.

L’abate gli tastò il polso e fece segno a due prigionieri. A uno disse:

— Chiama don Gennaro e digli di far portare un’aranciata. Ecco il danaro.

All’altro:

— Salassa quest’uomo.

E presentò un temperino a questo chirurgo d’occasione.

I due ordini furono eseguiti.

L’indomani venne il dottor Sibari, un allievo di Tibia.

Questo dottore aveva compreso che il governo, avendo premura di spopolare le prigioni senza strepito, sorrideva al tifo ed agli agenti