Il sigillo d'amore/Il leone
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IL LEONE.
Un tempo frequentava la nostra casa un giovine pittore, nostro lontano parente: bravo ragazzo, allegro, sano, ricco di casa sua e quindi disinteressato.
Anche troppo, disinteressato. Aveva, per esempio, la mania di far regali. Ogni volta che veniva a trovarci portava fiori, libri, disegni, scatole di dolci. Una volta mi regalò un bel gatto soriano, un’altra un pacco di carta da lettere con tanto di stemma e di corona; prezioso dono del quale però non ho mai potuto approfittare per non andare incontro ad una accusa anche giudiziaria di abuso di titoli nobiliari.
Il peggio è che il nostro amico non voleva assolutamente essere contraccambiato, neppure con un modesto invito a pranzo; il che, a lungo andare, continuando egli nella sia pure inutile sua generosità, dava un certo fastidio. Si fu quindi quasi contenti quando egli partì per un viaggio di studio in Libia. Per qualche tempo non si seppe nulla di lui; finchè un giorno mi vedo capitare in casa un giovine servo arabo, tutt’occhi e tutto denti, che ha da consegnarmi una lettera urgente.
È il nostro amico che scrive: è ritornato dal suo viaggio, col bruno servetto, con un cavallo berbero, con un leoncino, e non so quante casse di tappeti e oggetti orientali. Annunzia una sua prossima visita.
— Adesso! — penso io spaventata. — Adesso mi riempie la casa di oggetti caratteristici e belli, ma dei quali farei molto volentieri a meno.
*
Il mio spavento si mutò in terrore quando egli venne. Per la prima volta da che ci si conosceva, non portava nulla: solo mi annunziò che mi avrebbe più tardi regalato il leoncino.
— Prima lo lascio crescere, poichè ha bisogno di certe cure e di una educazione speciale, poi glielo porto. Vedrà come è interessante e diverso dal come ci si immagina sia un leone.
— Senta, — dissi io garbatamente; — perchè non lo regala meglio al Giardino Zoologico? Anche Sua Eccellenza il Presidente del Consiglio ha fatto così.
— Lasci andare. Lei parla in questo modo perchè naturalmente ha paura che la bestia possa far del male. È un ridicolo malinteso attribuire qualità feroci al leone. Il leone è l’animale più timido che esista, ed anche generoso. Molti esempi ce lo provano. Inoltre è lui che ha paura dell’uomo, e non lo assale mai se non per difendersi. Da giovane, come il mio, è poi anche veramente bello di aspetto, e grazioso nei suoi giochi innocenti. Mi permetta di portarglielo; vedrà, poi mi ringrazierà. Lei che ama le bestie, che si diverte a osservarle e descriverle, lei che ha tratto inspirazione anche da una vile e ingrata cornacchia, vedrà quante cose belle potrà scrivere quando avrà conosciuto il mio leoncino.
Parlava serio e convinto; convinta però non mi sentivo io, e quindi insistevo:
— Senta, la ringrazio molto; ma io non amo più le bestie: non mi interessano più. E poi non ho più neppure voglia di scrivere.
— Queste sono storie. Io il leone glielo porto. Quando meno pensa, lei se lo troverà in casa e non si pentirà di accettarlo. Per adesso non parliamone più.
E si parlò di altre cose. Egli raccontava del suo viaggio, dei suoi lavori, delle sue avventure, del servetto arabo; io l’ascoltavo con attenzione, ma non mi sentivo tranquilla; poichè tutti i suoi discorsi, ed anche il suo modo di esprimersi, un tempo limpido e lieto, adesso avevano una tinta di stramberia: quindi mi davano l’impressione che il sole d’Africa avesse non solo abbronzato la pelle ma anche sconvolto le belle qualità mentali del nostro amico; e la sua fissazione di portarmi in casa una belva feroce mi dava da pensare per sè stessa.
Quando dunque se ne fu andato dissi alla mia domestica:
— Bada che quel signore io non voglio riceverlo più. Se ritorna gli dirai che sono partita, ma che non sai per dove, nè quando ritornerò. O trova tu la scusa migliore.
Non le spiegai il perchè, per timore ch’ella, più paurosa di me, mi scappasse di casa; ma il giorno dopo, con la scusa che i ladri cominciavano a visitare i nostri dintorni, feci mettere la catena di sicurezza alla porta, con l’avvertenza a tutti in famiglia di non aprire se non dopo essersi assicurati chi c’era di fuori.
*
Fortunatamente il pittore non si lasciava più vedere. Sapevo che aveva stretto una relazione intima, con una bella signora, e nello stesso tempo preparava una sua importante mostra di quadri e disegni; speravo quindi che fra tante sue occupazioni l’amicizia per noi sbiadisse o magari si cancellasse del tutto.
Un giorno però egli venne in persona a portare i biglietti d’invito per l’inaugurazione della mostra, e la domestica, fedele alla sua consegna, non lo lasciò entrare.
La sera stessa parecchie persone vennero a domandare notizie della mia salute. La mia salute era ottima, e non sapevo a che attribuire tanta premura in gente che credevo indifferente, quando la serva mi spiegò:
— Sa, poichè quel signore insisteva per sapere notizie di lei gli dissi che era gravemente malata.
— Facciamo gli scongiuri, — dico io; ma realmente comincio a sentire un certo malessere quando so che la notizia si è rapidamente diffusa nella città e fuori. Arrivano lettere e telegrammi di amici e parenti; i fornitori domandano alla serva se è vero che il Papa mi ha mandato la sua speciale benedizione: persino la signora X, che ce l’ha con me a morte per la sola innocente ragione che al suo giovine figlio scrittore di novelle i giornali non concedono un adeguato compenso, persino lei s’impietosisce e domanda se c‘è probabilità di salvarmi.
Di giorno in giorno la malattia si aggrava e si complica; e deve essere veramente eccezionale perchè nessuno sa dirne il nome.
Poi il tempo e la primavera dissiparono il pericolo: lo strano fu che, dopo essere stata per venti giorni fra una vita e una morte immaginarie, io mi sentivo davvero come una convalescente, non felice però come lo sono di solito gli scampati a una penosa malattia. Tutto mi dava fastidio, specialmente lo squillo del campanello della porta. Non avevo più voglia e forza di lavorare: seduta davanti allo scrittoio m’incantavo a guardare il bianco ciliegio che dallo sfondo azzurro della finestra mi porgeva i mazzi dei suoi fiori delicati; e respingevo quest’omaggio, domandandomi cosa c’è dopo tutto di meraviglioso nel periodico ritornare della primavera. Passerà di nuovo la primavera, passeranno e torneranno le altre stagioni; tutto va e viene, tutto è vuoto ed inutile. Sta a vedere che divento nevrastenica pure io. Avrei bisogno di scuotermi, con qualche cosa d’insolito che mi facesse soprattutto ridere: non mi divertono più neppure gli acrobatismi del bel gatto soriano che scherza intorno a me, e penso piuttosto con rimpianto al leoncino rifiutato; la sua presenza regale, i suoi giochi pericolosi, lo scuotersi della sua criniera che deve ricordare il colore e l’agitarsi delle sabbie del deserto, sono certo più interessanti dei salti di un gatto da salotto.
Ed ecco un pomeriggio, sul tardi, mentre ero sola in casa e non sapevo se sdegnarmi o rallegrarmi coi bambini che giocavano nella strada e suonando ogni tanto il campanello della mia porta mi procuravano la scusa di non andare ad aprire neppure a qualche probabile visitatore, sento un’automobile che viene giù di corsa rombando e si ferma sotto le mie finestre.
I bambini urlano. Poi silenzio. Poi sento che il pizzicagnolo di fronte abbassa la saracinesca del suo negozio; poi il grido di spavento di una donna; infine lo squillo insistente e violento del mio campanello.
Una disgrazia è certamente accaduta; qualcuno è andato sotto l’automobile, e si suona alla mia porta in cerca di soccorso.
Corro dunque ad aprire, e la prima cosa che intravvedo sono i bambini che fuggono; poi molte persone affacciate con curiosità ed inquietudine alle finestre alte.
Davanti a me, fresco, sorridente, in gambali e spolverina, col berretto in mano, è l’amico pittore. In mezzo alla strada c’è l’automobile con dentro il leone.
*
A dire il vero il leone io l’avevo già intravveduto, nel mio stesso presentimento. Quindi non ricordo di essermi spaventata e neppure stupita. O forse il coraggio mi era cresciuto in tutto quel tempo di noia e di meditazioni sulla inutilità dei nostri vecchi sentimentalismi e pregiudizi: fatto sta che spalancai la porla, e mentre invitavo il giovine ad entrare, guardavo in alto, verso i miei esterrefatti vicini di casa, pensando quasi con allegria ai loro commenti sui personaggi e le visite che io ricevevo.
Il giovine però non si decideva ad entrare.
— Ho condotto io la macchina e non posso lasciarla sola, capirà, per quanto la gente non si avvicini.
Non era vero. Un operaio che passava in quel momento, con la giacchetta sulla spalla e fumando la pipa, s’era fermato a guardare; non solo, ma con tanta tranquillità che si tolse la pipa di bocca per sputare.
Anche il leone, per dire il vero, non dimostrava la tradizionale ferocia; non si agitava neppure come quelli dei giardini zoologici. Era davvero un leone straordinario, con gli occhi fissi e imbambolati di agnello, e la giubba, di qua e di là della faccia schiacciata, chiara e ondulala come una parrucca bionda: era infine un leone imbalsamato.
Rimase freddo e buono anche quando io mi accostai alla sua gabbia di lusso e gli accarezzai la testa; allora le donne di servizio, i bambini, il lattaio e il pizzicagnolo, e persino un vecchio prete e una coppia distratta di innamorati si accumularono intorno all’automobile, e tutti si rise come davanti alla baracca ambulante delle marionette.