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266 | il sigillo d'amore |
Poi il tempo e la primavera dissiparono il pericolo: lo strano fu che, dopo essere stata per venti giorni fra una vita e una morte immaginarie, io mi sentivo davvero come una convalescente, non felice però come lo sono di solito gli scampati a una penosa malattia. Tutto mi dava fastidio, specialmente lo squillo del campanello della porta. Non avevo più voglia e forza di lavorare: seduta davanti allo scrittoio m’incantavo a guardare il bianco ciliegio che dallo sfondo azzurro della finestra mi porgeva i mazzi dei suoi fiori delicati; e respingevo quest’omaggio, domandandomi cosa c’è dopo tutto di meraviglioso nel periodico ritornare della primavera. Passerà di nuovo la primavera, passeranno e torneranno le altre stagioni; tutto va e viene, tutto è vuoto ed inutile. Sta a vedere che divento nevrastenica pure io. Avrei bisogno di scuotermi, con qualche cosa d’insolito che mi facesse soprattutto ridere: non mi divertono più neppure gli acrobatismi del bel gatto soriano che scherza intorno a me, e penso piuttosto con rimpianto al leoncino rifiutato; la sua presenza regale, i suoi giochi pericolosi, lo scuotersi della sua criniera che deve ricordare il colore e l’agitarsi delle sabbie del deserto, sono certo più interessanti dei salti di un gatto da salotto.
Ed ecco un pomeriggio, sul tardi, mentre ero sola in casa e non sapevo se sdegnarmi o