Il sigillo d'amore/Acquaforte
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ACQUAFORTE.
Eri venuta ospite nostra una notte d’inverno, e delle notti d’inverno avevi il nero splendore. Solo un latteo chiarore circondava la tua grande pupilla, e quando il giorno era limpido, piegando da un lato e da altro la testa, tu fissavi il cielo or con l’uno or con l’altro dei tuoi occhi, quasi per riattingervi e rinnovarvi la luce.
Il tuo grido era allora di gioia: un grido boschivo che ricordava la serenità ombrosa delle foreste sui monti, e pareva rispondere a un lontano grido di gioia da noi non sentito.
Ma quando il tempo era scuro il tuo gracchiare selvaggio accompagnava la corsa insensata delle nuvole, lottava con l’assalto feroce del vento, e pareva una protesta contro l’uomo che ti aveva preso dal nido e mutilato le ali e la coda, riducendoti come una barca senza remi e senza timone, per renderti meglio prigioniera degli uomini e impedirti di volare e di mischiarti, elemento fra gli elementi, al movimento eterno dell’universo.
Eppure eri amica degli uomini, e, forse per ragioni di natura, di quelli più elementari, più vicini a te. Quando gli operai barbari e sensuali ti chiamavano dalla strada, tu rispondevi a loro, con un’altra voce tua speciale, pietrosa e risonante, che pareva l’eco delle alte grotte dove la tua famiglia si rifugia nei giorni scuri e freddi.
Ed eri amica anche delle persone in apparenza semplici, che si divertivano ad osservare i tuoi molteplici movimenti d’istinto; istinto di lotta continua che pareva un giuoco, come del resto è il gioco degli uomini; e traendone materia di riso, di studio, di deduzioni ricercate fin nelle più profonde origini, non si accorgevano che, pure compassionandoli e ingozzandoti, ti trattavano crudelmente per il loro solo piacere.
Ma sopratutto eri amica di chi veramente ti amava perchè eri piccola e distolta dalla tua sorte, o solo forse perchè nella tua come nella sua pupilla ritrovava l’infinito mistero di Dio.
Illusione era forse anche questa amicizia: tu non sapevi con chi avevi da fare; non sapevi se io ero un uccello simile a te, o un albero, o una roccia: certo, però, tu rispondevi al mio richiamo, e salivi sul mio braccio e sulla mia spalla come sui rami di un albero rivestiti di musco.
Non per affetto ci salivi, ma perchè ti era grato il tepore della mia veste e della mia carne; e per rubare le forcine dai miei capelli e arrotare il tuo becco sul mio pettine.
Ti divertivi a tuo modo, ed io a modo mio. La levità dei tuoi arti feroci, la carezza del tuo becco uncinato che, più terribile di un doppio pugnale, può introdursi nella carne viva per strapparne meglio ad una ad una le fibre sanguinolenti, il contatto con le tue piume tiepide, mi davano l’impressione di essere, pure curva sull’umile lavoro domestico, un pino slancialo nell’immensità della bianca notte estiva.
Per queste illusioni, anch’io, e non per te stessa ti amavo.
E se avevi imparato a rispondermi, se mi venivi sempre appresso e la mia camera alle altre preferivi, era perchè io ti davo da mangiare, ti difendevo dai pericoli, ti permettevo di nasconderti nell’armadio come nelle tue grotte natìe: ma io ti ero egualmente grata, per questo avvicinamento materiale, illudendomi che esso potesse svolgersi in amicizia umana.
— Se tu un giorno te ne andrai, pensavo, tu tornerai certamente, non fosse altro per i vantaggi che io ti offro.
Così, dopo che tu avevi fatto il tuo bagno selvaggio, ti lasciavo il mio posto al sole, ti pettinavo col mio pettine.
E tu te ne mostravi grata; piegavi in avanti la testa e i tuoi occhi si riempivano di una luce che mi sembrava quasi di occhi umani. Era la tua voluttà animale che ti faceva far questo; io lo sapevo, eppure mi illudevo che fosse la gratitudine.
E se un estraneo entrava nella mia camera tu lo beccavi, gracchiando; così un cane fedele morde e abbaia se il padrone è minacciato. Perchè facevi questo? Perchè facevi questo anche contro il mite sarto dalle bianche mani insensibili, quando, inginocchiato sul tappeto come davanti ad una santa mi provava, senza toccare altro che la sua stoffa preziosa, il vestito di lusso?
Forse sentivi che anche lui, lui più di tutti, era un mio cattivo nemico.
O era un’illusione mia pure questa; ma io ti volevo bene appunto perchè mi creavi queste illusioni.
Da te ho tratto argomento di poesia; da te che sei, dopo il corvo, l’uccello il più malvagio e sgraziato; la cornacchia nera: ma sei anche l’uccello che, dopo l’aquila, ama stare più alto di tutti; la cornacchia dei campanili.
I bambini hanno riso nel leggere la storiella della tua prima fuga, quando ancora senza coda e senza ali, ma già ingrata e irriducibile, fuggisti di casa, e invece di raggiungere il cielo sei finita in un sottoscala. Per te i grandi hanno pianto, leggendo la storia del servo che lungamente in segreto amò la padrona insensibile e interessata.
Anche ieri un uomo mi disse di aver passato la giornata più triste della sua vita confortandosi col leggere la storia del povero Fedele. Per questo ti volevo bene; perchè producevi del bene.
Ed ora scrivo la tua terza ed ultima storia, non per gli altri, ma per me.
Io ti ho lasciato crescere le ali e la coda, per farti volare. Dicevo a me ed agli altri: è un delitto opporsi alla natura, fermarne il movimento universale, sia pure col tener prigioniera una cornacchia e proibirle di continuare la sua specie.
Ti facevo crescere le ali e la coda; e la natura mi aiutava nell’opera buona. Poichè era il tempo degli amori e della cova dei tuoi simili; tempo di autunno, quando gli uccelli carnivori e predatori, che per procreare sdegnano il molle nido sugli alberi, si raccolgono nei ripostigli rocciosi, in alto, o sulle cime più alte costrutte dagli uomini. Ti eri fatta bella; avevi perduto le prime piume; te le eri strappate tutte di dosso, e le nuove ti rinascevano meravigliose.
Dove tu passavi rimanevano i brandelli della tua prima veste mutilata; ed erano come ricordi di dolore e debolezza che tu buttavi via dietro di te. Le piume nuove riflettevano adesso, nere fino all’impossibile, i colori dell’iride.
Eri bella. O eri bello? Perchè mai si è saputo se eri maschio o femmina. La testa era certamente di femmina, con le orecchie coperte da ciuffi di piume infinitamente piccole, e il resto da un casco di altre piume che a toccarle davano il senso della cosa più morbida dolce e veluttuosa che esista sulla terra.
Forse eri femmina, perchè preferivi alle donne deboli e sentimentali che ti dimostravano amore, i giovani dominatori ai quali obbedivi e ti sottoponevi.
Ma il corpo, o l’apparenza del corpo, era di maschio: mentre prima sembravi un D’Artagnan volatile, speronato, con la sola penna della coda fuori del corto mantello come la punta obliqua della spada audace, adesso, con le ali nere armoniose ripiegate sulla coda perfetta, davi l’idea di un don Giovanni moderno che col suo inappuntabile frak si dispone a recarsi ad un ballo di corte.
Per questo ti si voleva bene: per la tua elegante e ambigua bellezza. Anche quelli che non vogliono bestie nella loro casa, poichè essi, per la loro civiltà che ha raggiunto il punto piramidale della perfetta coscienza, si sentono definitivamente fuori dello stato animale, anch’essi ti volevano bene.
Poichè la bellezza s’impone, come la più pura emanazione di Dio.
Bellezza e fortuna. E tu rappresentavi anche la fortuna, come il gatto nero, come il doppio frutto venuto dalla Persia, come tante altre cose rare: fantasie orientali che si diffusero nei popoli, come il chiarore del sole, fino all’estremo occidente, e rinnovano il mito della Terra promessa.
E c’era chi ti sopportava solo per questo. Ma infine c’era pure qualcuno che ti voleva bene solo perchè amava chi ti amava.
Per lungo tempo si parlò di te, fra noi, come di un bambino alle sue prime prodezze, ed anche come oggetto di osservazioni profonde.
E vi furono dissensi famigliari per te; per l’acqua che sprizzava dalla catinella del tuo bagno; per il tuo intempestivo intervento sulla tavola apparecchiata, per i libri religiosi sul tavolino del credente che tu strappavi con furore pagano. Ma quando eri minacciata di castigo sapevi ben rifugiarti sulla mia spalla; e di lassù irridevi tutto e tutti come dalla cima del tuo campanile natìo.
Per tutte queste cose, e perchè col metterti a dormire nel tuo rifugio notturno io salutavo il giorno passato in pace e in guerra, io ti volevo bene.
Per te, per difenderti dal tuo solo dichiarato nemico, altro ospite un tempo favorito, ho scacciato crudelmente di casa il bel gatto Tigrino.
E quando Tigrino è scomparso, probabilmente tramutatosi in lepre o coniglio sulla tavola dell’osteria accanto, ho sospirato oramai sicura della tua salvezza.
Perchè tu già cominciavi a volare e ricercare la tua libertà all’aperto. Passavano le altre cornacchie, rompendo il silenzio dei primi freddi coi loro stridi d’amore.
E se il cielo era scuro e tu dovevi stare in casa ti agitavi come una piccola belva. Non potendo volare sugli alti pini, volavi sui tetti e sugli scrittoi, facendo egualmente scempio dei libri e delle carte del credente, dello scienziato e dell’umanista.
Solo sulla tavola del poeta nulla trovavi; poichè, come te, il poeta non possiede che le sue ali ognora crescenti, e la forza, a lui stesso misteriosa, conferitagli da Dio.
E, come te, ha la penna per becco e il nero lucente del suo calamaio; e queste sole sue armi le tiene nascoste per evitare ogni pericoloso disordine.
Un ordine nuovo tu l’hai portato anche nel resto della casa: hai costretto la serva a chiudere gli usci, e, poichè volavi anche sui cassettoni, e vi rubavi gli oggetti preziosi, insegnasti a noi di nasconderli come si deve fare coi nostri sensi più cari.
Ma quando tutto pareva sistemato, tu sei volata via. Dal balcone ti ho veduto volare sull’albero più alto, donde mi salutasti col tuo grido di gioia: dall’albero sul tetto; e di là hai incrinato il chiaro cielo che si è aperto per raccoglierti.
Come la pupilla del moribondo sei scomparsa in alto e il cielo si è chiuso sopra di te.
Così, d’improvviso, hai abbandonato la casa comoda e tiepida, il cibo sicuro, l’amore degli uomini; così forse vola via dal carcere caldo e molle della carne e ritorna dove nulla esiste tranne il suo stesso sogno, l’anima nostra. Allora, Checcolina, piccola cornacchia cattiva, allora, posso dirti la verità, ho provato con te un senso di gioia e di liberazione: ti ho pure invidiato.
Ma quando sul cielo la sera si distese nera come una grande cornacchia morta inchiodatavi su ad ali aperte, ho pianto come un’amante ingiustamente abbandonata.
Sapevo di piangere non per te, e per la tua fuga, ma perchè tu ti eri portala via un anno intero della mia vita, forse il migliore, con tutta la sua collana di giorni trascorsi in pace e in guerra: anno che non tornerà mai più. E non c’è morte che noi piangiamo come la morte di noi stessi.