Il romanzo della morte/VI
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VI.
In città, i Pisani abitavano, sui Corso Cavour, il migliore appartamento di un vecchio palazzo posto di fronte alla casa di Don Paolo Giudici. Esteriormente, il palazzo conservava tutto il carattere vetusto, sebbene l’interno avesse subito varie trasformazioni per servire agli usi moderni. Rimaneva sempre un’abitazione incomoda, mal distribuita per i bisogni di una famiglia borghese. In compenso, i muri grossi, i soffitti a volta la rendevano fresca l’estate, e non troppo fredda nell’inverno. E poi, il professore si compiaceva di quegli ampi locali, di quella vecchia magnificenza un poco sbiadita e maltrattata, ma pur sempre imponente. La sua figura soldatesca si addossava bene a quei camini di marmo colossali: s’incorniciava pittorescamente nelle inquadrature delle porte e delle finestre; e poteva muoversi con tutta la libertà di cui abbisognava, in quei larghi spazi che nessuna mobilia riesciva a ingombrare.
Un salone, tagliato in due sensi, aveva dato le camere per le ragazze e una bella galleria. Esse stavano di solito qui a lavorare, come due antiche dame, nel vano delle grandi finestre; e lo spessore del muro consentiva a ciascuna una sorta d’isolamento e di autonomia.
Amelia, preoccupata di vedere nella strada, quando girava la testa per rompere la noia mentre stava cucendo o ricamando, aveva messo un rialzo sotto alla sua sedia. Non bastando questo, vi posava sopra un guanciale, come le signore fanno nei loro palchetti in teatro. Ed era veramente come in un palchetto, poichè non uno studente passava di là senza levar la testa per salutare la bionda del Pisani.
Seduta molto più in basso, Argìa rimaneva invisibile alla gente della strada, e non vedeva, lei stessa, altro che il cielo e la casa di fronte. Le bastava.
Negli anni addietro, allorchè il suo amore per Fausto viveva di sole occhiate, ella era felice di mettersi là ad aspettare ch’egli si affacciasse e le desse il buon giorno con un sorriso, prima di uscire per recarsi alla scuola. Tutta la giornata lo pareva bella, se aveva avuto quel sorriso.
Adesso ella pensava con disperazione a quei tempi lontani e innocenti.
Era sola. Amelia non sarebbe ritornata dalla Magistrale fino alle tre. Poi si sarebbe chiusa in camera per studiare le sue lezioni e fare i compiti.
Argìa trovava un sollievo nell’assenza della sorella. Sola così poteva pensare liberamente alle cose che Fausto le aveva dette alcune sere prima.
Quale trasformazione di tutto il suo essere, dopo quel colloquio!
Fin da quando era ritornato da Mantova, ella sapeva che Fausto l’amava di un amore eccezionale; ma non avrebbe creduto ch’egli l’amasse al punto di morire con lei. Questo le pareva troppo.
Eppure era vero. Egli l’amava così; l’amava disperatamente: non voleva che lei; la vita senza di lei, gli pareva odiosa. E non potendo vivere con lei, felice, voleva portarla con sè nella morte.
Dire che don Paolo aveva tanto paura della morte, e loro niente!...
Socchiuse gli occhi: rivedeva tutta la scena del bastione, le grandi linee indeterminate, la nebbia, i lumi arrossati; sentiva l’acqua gorgogliare laggiù in fondo al muraglione.
E il ricordo di un bacio la faceva riscuotere. Egli non l’aveva mai baciata così.
Si rammaricava soltanto di non poter vivere un po’ dippiù con lui in quei giorni. Pensare che erano gli ultimi! Pensare che avevano le ore contate e non erano quasi mai soli!
Aveva tante cose a dirgli; ma davanti alla gente non le riusciva di parlare.
E neppure a lui. Così ammutolivano tutti e due, e Amelia li trovava noiosi.
Quel giorno se avesse potuto parlargli, gli avrebbe detto una cosa che le stava molta a cuore. Egli si era ingannato giudicandola una inconscia ribelle. Lei stessa si era ingannata in certi momenti. Non era vero. Lei non era ribolle. Se egli l’avesse presa e l’avesse amata sempre così, avrebbe potuto modellarla come un pezzo di creta.
Le sarebbe piaciuto tanto obbedirgli in tutto... non avere alcuna volontà propria... non essere nulla altro che una parte di lui! Questo pensiero dell’annientamento di sè nell’uomo amato, le faceva provare una tenerezza infinita. Vi si compiaceva; lo raffinava con molta delicatezza.
Appunto perchè, in realtà, questa era una cosa contraria alla sua natura, ella vi s’infervorava; per quel bisogno che gli spiriti ardenti hanno di tutto sacrificare all’oggetto o al pensiero che li esalta. E le pareva che soltanto per questo rimpiangeva la vita. Come sarebbe stato sorpreso Fausto di trovarla così mite, così sottomessa; e di quale dolce sorpresa!... Mah! inutile pensarci. Dovevano morire.
Ebbene, avrebbe concentrato tutto il suo amore, tutto il suo entusiasmo in quel momento supremo.
Del resto, lei non aveva alcun rimpianto per sè. Che cosa avrebbe rimpianto? La morte ora la sua salvezza. La morte le dava tutto. Si sarebbe addormentata nelle braccia del suo Fausto, sapendo che era per sempre; che quel dolce sonno non doveva avere risvegli, nè pentimenti.
Gettò il lavoro. Si alzò e andò nella sua camera.
Fausto le aveva dato un romanzo russo bellissimo, nel quale si parlava molto della morte. Voleva leggerlo: ma non poteva fermarsi sui pensieri dell’autore, trascinata siccome era dai pensieri propri.
E questi pensieri diventavano più tristi, più foschi. Vi era un punto nero che si allargava a poco a poco opprimendola come un incubo; distruggendo la sua gioia trascendentale.
Quel punto nero era un rimorso. Sì, ella scopriva nell’anima sua un rimorso nuovo, insoffribile.
Perchè non gli aveva detto tutto? Perchè non s’era confidata a lui? L’aveva tanto pregata!... E poi non voleva passare per ribelle? Pretendeva di identificarsi con lui?!...
Ah! non poteva, no, non poteva!
Era inutile: non sapeva sacrificarsi.
Poteva morire, non cedere la sua orgogliosa personalità.
Eppure, no! non era orgoglio, nè ribellione. Lei avrebbe voluto. Le faceva tanto male di vederlo in collera il suo Fausto: peggio che mai, addolorato.
Ma era una cosa impossibile quella narrazione. Tutta la sua femminilità si rivoltava.
Come doveva fare, soltanto a dargli un’idea delle cose passate e dello stato dell’anima sua, delle battaglie segrete, delle indefinibili aspirazioni, e di quella completa atonia della sua volontà?...
Avrebbe raccontati i fatti brutalmente, e Fausto non avrebbe capito nulla, oppure avrebbe capito qualche cosa di mostruoso.
No!... Non poteva.
Ma anche se avesse raccontato tutto; se avesse raccontato bene: poteva egli credere?...
Non erano incredibili i fatti ch’ella doveva narrare?
Non ne dubitava lei stessa qualche volta?... Non giungeva fino ad accusarsi, a darsi tutta la colpa, per la rabbia di non capire?...
Nessuno poteva crederle!...
Fausto avrebbe pensato che lei mentiva meschinamente; o almeno che si scusava, che cercava di attenuare la propria responsabilità. E questo, questo era l’intollerabile per lei; questo le chiudeva la bocca: essere creduta così vile!...
Eppure... vi era nella scienza moderna qualche cosa che poteva confermare le sue parole. Ne aveva sentito parlare.
Sì. Ma, nel caso concreto, chi ci credeva veramente?...
Appunto a lei doveva essere toccato?.. Che!...
Si ammette la possibilità, ma il fatto lo si discute, quando si tratta di cose così strane.
La scienza dubita nella mancanza di prove; l’inganno essendo tanto facile!
Lei stessa che cosa ne sapeva?...
Se Fausto avesse voluto convincerla con argomenti scientifici, che lei era molto più colpevole di quello che pensava: che la parte sua di consapevolezza e di condiscendenza era molto maggiore; lei, che cosa avrebbe risposto?... Come si sarebbe difesa?...
Ahimè! Avrebbe chinato la fronte, umiliata, vinta.
La sua sventuta era completa.
Un fiotto di lagrime le oscurò la vista. Si appoggiò al letto sopraffatta. Tutto il suo corpo tremava, scosso dai singhiozzi.
Ah! come era debole!...
L’ebbrezza cerebrale che Fausto aveva trafuso in lei l’abbandonava così; ed ella cadeva da quella vertiginosa altezza nel più profonda scoramento.
Ma no, no, non voleva essere tanto debole: era una vergogna.
Lasciarsi abbattere voleva dire mancare alla promessa che aveva fatta a Fausto: voleva dire deluderlo ancora.
Doveva deluderlo in tutto?... Era dunque proprio vero che lei non poteva essere la vera compagna dell’uomo che amava?
Perchè si amavano tanto se così era?...
Fausto diceva che si amavano appunto per quello; che le loro indoli così diverse e nel medesimo tempo così affini anelavano a quella conflagrazione per trasformarsi o distruggersi.
Ma questo la opprimeva, lei.
Inconsciamente sentiva che Fausto aveva la parte bella, mentre a lei rimaneva la parte odiosa. Lui, dotato di un forte ingegno, buono, amato, ricco e... senza colpe — sì, senza colpe lui, poichè seppure ne aveva assai più di lei, in lui non contavano!... lui si sacrificava per lei... dava la vita utile e bella, per una ragazza caduta che non poteva più vivere onestamente nella società... Era lei che l’uccideva.
Per lei usciva dal mondo quella intelligenza elevata; quel cuore nobile, che avrebbe fatto tanto bene all’umanità!
Lui era il generoso; e poteva esaltarsi e inebbriarsi della sua propria generosità, dimenticando le cose positive! Era naturale!
Ma lei?
Ah! lei non faceva che il male perfino morendo! E lo sentiva e ne era schiacciata, perchè lei non aveva alcuna illusione generosa per consolarsi. Da parte di lei, la gioia, l’esaltamento, non potevano essere che egoismo.
E la sua anima femminile, educata al sacrificio, predisposta al sacrificio dall’eredità atavista di tanti milioni di donne: la sua povera anima soffriva acutamente di quello spostamento di parti.
Nè gl’istinti ribelli, che pure erano in lei così manifesti, bastavano a farle accettare tale situazione.
Al pari di tutte le donne di cuore, ella era ribelle soltanto di fronte alla ingiustizia, alla crudeltà e alla prepotenza del maschio e delle leggi sociali che fanno a lui la parte del leone.
Di fronte all’amore, e al sentimento generoso dell’uomo amato, ella era trascinata da una forza ineluttabile ad immolarsi compietamente, felice di essere schiava, gelosa della sua destinazione al sacrificio, come di un tesoro dovuto a lei sola.
Ritornò al suo posto nella galleria; riprese il lavoro.
Voleva dominarsi; non voleva uscire dal ciclo di pensieri che Fausto le aveva suggeriti. Era anche questa una specie di dedizione della sua volontà; un rinunciamento: il solo sacrificio concessole; e vi si aggrappava.
Ma invano ella voleva limitare lo spazio alla sua fantasia, e mantenere il suo dolore nella via tracciata.
Involontariamente ritornava sul passato, su quel passato doloroso e incredibile, che non poteva raccontare.
Gli avvenimenti si svolgevano nella sua memoria, come erano succeduti realmente quattro mesi prima; e, forse per la millesima volta, ella si sforzava ad analizzarli, a scrutarli, a comprenderli.